James Clifford, etnografo
surrealista, titolava così un suo saggio,
riprendendo un verso del poeta statunitense
William Carlos Williams.
L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE –
Libera Comune Università Pluriversità Bolognina
organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO
“BOLOGNA CITTA’
APERTA:
NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE
ROM, SINTE E GAGI(non rom)
SABATO 23 NOVEMBRE 2019
AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44
DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00
(Ci sarà a
partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale api-cena con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)
Invitiamo tutti
e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna
come una Comune Città,
siano essi
nomadi, sedentari o migranti,
che desiderano
partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano
con-vivere e
cooperare attivamente molteplici
genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.
Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti,
intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.
Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti
delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,
che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è
molto di romanes
nella cultura europea
e molto di europeo nella cultura
romanes),
ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei
territori metropolitani, contro il
ritorno delle discriminazioni,
pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente
la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti,
donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).
E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio
che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.
X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione
per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione: www.comunimappe.org
MEMORIE DI ESODI di dom,lom o rom Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani) in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:
“O re cui giunge
l’implorazione
altrui,
Di girovaghi musici
trascegli
Uomini e donne, a
diecimila, tali
Che cavalcando battere in
cadenza
Sappian liuti, e a me li invia ben
tosto
Perché la voglia mia per
questa gente,
Celebre tanto, satisfatta
sia”.
Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di
Antonello Mangano,ed. terre libere; traduzioni
di Italo Pizzi,iranista ed
accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)
Nonostante
il carattere leggendario dei testi, rimane rilevante la
testimonianza scritta dell’arrivo in Persia di genti nomadi proveniente dall’India
prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.
Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes, a cominciare dal termine ‘darav’ (mare), derivato dal
persiano ‘darya’. E’ incerta la permanenza di popoli romanì in Persia fino ad oggi, anche
a causa della confusione che spesso
i viaggiatori hanno fatto con gli Arabi nomadi ed in
particolare con i
Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia
ed il Caucaso. Ancora una volta, sono gli elementi linguistici a svelarci il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi,
migrazione,schiavitù,
divoramenti o
genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale
in differenti ondate, passando per il Medio
Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune
continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli
transnazionali).
BOLOGNA 1422
Una delle prime cronache italiane che raccontano
della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese
(la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a
Bologna, nel 1422, di
una comunità nomade, ospitata nell’attuale
Montagnola, dicesi condotta
da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva
di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani
si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o
ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare
contrabbandandosi per ricchi mercanti egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte
altre fonti sostengono che questi popoli romanì ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino
d’Oriente, e documentano che da lì essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco
bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse
dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato
che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).
La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia e tutte le attività ad esse
connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.
« Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri,
saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei
gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove
accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte». Da questo
punto di vista il
destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome,
derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba,
che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini
di spettacolo),
popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di
musicisti, cantanti,
fabbri e conoscitori
dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali
godevano per questo
di stima ed erano queste attività che
garantivano loro,
ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che
vivono in modo libero ed anticonformista come i romanì.
Da notare e sottolineare che “zingaro” è un
eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in
modo monovalente per disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro
come un ebreo o un genovese ecc.
Non è sempre stato così, solo 30 anni
fa in Italia, “zingaro” aveva un
significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava “di zingari
felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa
mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di
giostre in disuso/qualche rom si è fermato
italiano/come un rame a imbrunire su
un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di
mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo
ti e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.
BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente
per secolare girovagare, nascere e crescere in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.
Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone
In questa tragica età di Capitali predatori di mondi di vita(il capitalcene) e di tossica esistenza autodistruttiva umana (l’antropocene) dominata da paradigmi secolari euro-antropocentrici,dualismi cartesiani e relazioni umane narcisiste,utilitariste e liberiste a cui s’accompagnano sintomatiche manifestazioni apococalittiche e pestilenzilali:emozionali (populista,nazi-fascio-elettronica, fanatismi ed autodistruzioni “creative”), climatiche (ghiacciai millenari che si sciolgono, foreste native che bruciano,uragani e tempeste che si moltiplicano e s’abbattono come scure sue paesi e foreste, deserti che avvanzano,cavalette che divorano tutto ciò che incontrano di vegetale ) a pandemie virali (ebola,sars e altre silenti) e migrazioni ed esodi epocali),umane crisi di presenza che determina il disconoscimento di mondi e significati, la polarizzazione schizo-paranoniede tra grammatiche e sintassi digitali e semantiche relazionali umane e neo-umane.
SOLO
la poesia riflessiva singolare e comune , la ricerca attiva di significati, le culture umaniste (post-antropocentriche e post-coloniali) e le scienze (non dualiste) e non asservite ai sistemi dominanti, i nuovi saperi sociali forgiati nei nuovi conflitti e attraversati dalle maree di liberazione possono immaginare nuova era planetarie Costituente-Terra e Comune Cooperazione tra tutti gli esseri viventi : nuove sensibilità e alleanze tra umani, non umani ed artefatti (ed enunciare l’autopoieticene, emergente concetto per mutati affetti e percezioni terrestri ).
ETIMOLOGIA:
Antropocene coniuga la parola greca “antropos” con il suffisso “cene” che proviene dal greco kainos, con il significato di “nuovo”o “recente”, per suggerire l’ingresso in una nuova epoca dominata dall’attività umana. Poieticene:
Coniuga invece la parola greca “poietikos”,derivata da poiesis, o ciò che viene creato attraverso l’attività poietica dell’élan vital(lo slancio vitale)dell’immaginale umano e sociale ed il suffisso “cene” che proviene dal greco kainos, con il significato di “nuovo” e “recente”, per suggerici invece l’ingresso in una nuova era di ricerca critica e di azione di corpi terrestri di liberazione contro tutte le forme di dominazione che si presentano complesse, non banalizzabili o semplificabili, di diversa intensità, trasversalità ed intersezionalità, nell’invisibilità di duplici, triplici o quadruplici oppressioni o sfruttamenti (di classi, culture, generi ed algoritmi-postumani). I significanti di nuovo sono importanti per rendercele visibili , nominarle ed orientarci ed innanzitutto per ricercare nuovi significati, stili e forme di vita che intrecciano il vivente (i molteplici mondi di vita) sempre singolari e sempre comuni.
E per contestare
le tesi negazioniste “che il riscaldamento globale attuale è parte della naturale variabilità
climatica” non alcun significato scientifico.
“Le persone che liquidano
con sufficienza il cambiamento climatico spesso affermano che il riscaldamento della terra è solo
parte di una “variabilità naturale del clima”. Però uno studio pubblicato a luglio 2109 su “Nature” (la più importante rivista scientifica) ha messo a tacere questa argomentazione. Gli autori hanno
mostrato che nei 2000 anni passati, gli anni
caldi e quelli freddi, si sono intervallati regolarmente e che addirittura i periodi più caldi e più freddi sono avvenuti solo in aree
circoscritte e in un momento specifico, ma in tutto il globo simultaneamente. Il riscaldamento attuale, al contrario, sta avvenendo
nel 98% del pianeta,
contemporaneamente, dal 1900 circa fino ad oggi. “Ed è del tutto differente”, afferma Raphael Neukom dell’Università di Berna, in Svizzera, che ha diretto
la ricerca. Tutte le regioni del Pianeta si
stanno riscaldando senza sosta all’unisono(simultaneamente e di uguale intensità). Mark Fischietti
Le Scienze – edito a novembre 2019
Antropocene -termine coniato dal premio nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen per definire l’era geologica in cui l’ambiente terrestre, inteso come insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita è fortemente condizionato a a scala sia locale che globale dagli effetti delle attività umane. In questo periodo l’impatto degli umani sugli ecosistemi si è progressivamente incrementato….traducendosi in alterazioni sostanziali degli equilibri naturali (scomparsa delle foreste tropicali e riduzione della biodiversità, occupazione di circa il 50% delle terre emerse, sovra-sfruttamento delle acque, uso massiccio dei fertilizzanti sintetici in agricoltura ed emissioni di grandi quantità di gas serra in atmosfera ecc..). ANTROPOCENE O CAPITALOCENE? SULLE ORIGINI DELLA NOSTRA CRISI (Parte I: estratto dall’ecologia e l’accumulazione del capitale ). Jason W. Moore Quando e dove è iniziata la relazione moderna dell’umanità con il resto della natura? La domanda ha acquisito nuova importanza con la crescente preoccupazione dell’opinione pubblica per l’accelerazione del cambiamento climatico. Negli ultimi dieci anni, una risposta a questa domanda ha affascinato sia il pubblico accademico che quello popolare: l’Antropocene.
i
l’autore Jason W. Moore storico dell’ambiente e docente di economia politica presso il Dipartimento di sociologia della Università di Binghamton negli Stati Uniti, è membro del Comitato esecutivo del Fernand Braudel Center for the Study of Economies, Historical Systems and Civilizations. Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital (Verso, 2015) è uno dei suoi ultimi lavori. Per i nostri tipi: Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato (2015). È, nella frase adatta di Paul Vooser, “un argomento racchiuso in una parola” (2012). Ma che tipo di argomento è? Come per tutti i concetti di moda, l’Antropocene è stato oggetto di un ampio spettro di interpretazioni. Ma uno è dominante. Questo ci dice che le origini del mondo moderno si trovano in Inghilterra, proprio verso l’alba del XIX secolo (Crutzen and Stoermer, 2000; Crutzen, 2002; Steffen, Crutzen e McNeill, 2007; Steffen, et al , 2011a, 2011b; Chakrabarty, 2009; Davis, 2010; Swyngedouw, 2013). La forza motrice dietro questo cambiamento epocale? In due parole: carbone e vapore. La forza trainante dietro carbone e vapore? Non di classe. Non capitale. Non imperialismo. Neanche la cultura. Ma … hai indovinato, gli Anthropos . L’umanità come un tutto indifferenziato. L’Antropocene è una storia facile. Facile, perché non sfida le disuguaglianze, l’alienazione e la violenza naturalizzate inscritte nelle relazioni strategiche della modernità di potere, produzione e natura. È una storia facile da raccontare perché non ci chiede di pensare a queste relazioni. Come metafora per comunicare il significativo – e crescente problema – posto dalle emissioni di gas serra e dai cambiamenti climatici, l’Antropocene deve essere accolto con favore. Ma l’argomento antropocenico va ben oltre. Per Will Steffen e i suoi colleghi (2011b), la grande ispirazione concettuale per le loro analisi della nostra congiuntura attuale – e come siamo arrivati a questo sfortunato stato di cose – non è Darwin o Vernadsky, ma Malthus. Il loro antropocene è quello in cui le crisi odierne sono inquadrate e spiegate dai panorami neomalthusiani della scarsità di risorse (picco di tutto) e della popolazione in aumento. Da questo punto di vista, potremmo fare tutti un po ‘di tempo per fare un passo indietro e chiedere: l’argomento antropocenico oscura più di quanto illumini? Quasi certamente. Soprattutto, l’argomento antropocenico oscura e relega al contesto, le relazioni effettivamente esistenti attraverso le quali donne e uomini fanno la storia con il resto della natura: le relazioni di potere, (ri) produzione e ricchezza nella rete della vita.
il libro
ANTROPOCENE O CAPITALOCENE?
Sulle origini della nostra crisi: di J.Moore Che i drammatici cambiamenti climatici degli ultimi decenni siano dovuti alle emissioni antropogeniche di gas serra è un fatto acclarato, che non suscita serie controversie se non da parte di qualche sparuta setta negazionista. Quali siano le conseguenze di tale situazione è invece oggetto di discussione. Sempre più spesso si sente parlare, nei circoli accademici ma anche sui mass media, di “Antropocene”. Il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che ha coniato il termine, intende con esso una nuova era geologica in cui le attività umane sono diventate il fattore determinante, decretando così la fine dell’Olocene. L’umanità come un tutto indifferenziato (e colpevole) da un lato, l’ambiente incontaminato (e innocente) dall’altro. Jason W. Moore rifiuta questa impostazione e parte dal presupposto che l’idea di una natura esterna ai processi di produzione non sia che un effetto ottico, un puntello ideologico su cui si è appoggiato il capitalismo. Al contrario, il concetto di ecologia-mondo rimanda a una commistione originaria tra dinamiche sociali ed elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico, nella sua tendenza a farsi mercato mondiale. Il capitalismo non ha un regime ecologico, è un regime ecologico. Sfruttamento e creazione di valore non si danno sulla natura, ma attraverso di essa – cioè dentro i rapporti socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile di capitale, potere e ambiente. Si tratta dunque di analizzare la forma storica di questa articolazione – ciò che Moore chiama “Capitalocene”: il capitale come modo di organizzazione della natura – per fronteggiare l’urgenza dei disastri ambientali che ci circondano.
l<
Per un’eco-sociale autopoieticenica
L’ecologia sociale ritiene che una visione ecologica della società permetta di escludere ogni tipologia di sfruttamento e di dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Scrive Bookchin: « …quando la natura può essere concepita o come uno spietato mercato competitivo, o come creativa e feconda comunità biotica, ci si aprono davanti due correnti di pensiero e di sensibilità radicalmente divergenti, con prospettive e concezioni contrastanti del futuro dell’umanità. Una porta ad un risultato finale totalitario e antinaturalistico: una società centralizzata, statica, tecnocratica, corporativa e repressiva. L’altra, ad un’alba sociale, libertaria ed ecologica, decentralizzata, senza Stato, collettiva ed emancipativa.». L’individuo è quindi collocato all’interno del tutto («visione olistica dell’universo»), al di là di ogni visione antropocentrica della natura, caratteristica di quasi tutte le discipline sociali, che di par suo ha favorito lo sviluppo dell’idea di dominio e dell’oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. L’antropocentrismo tende a rappresentare l’universo come oggettivamente gerarchico e autoritario, quindi necessariamente da dominare e “piegare” al volere umano. Ciò non è mai senza conseguenze, come ribadisce ancora Bookchin: «Quest’immagine totalizzante di una natura che deve essere domesticata da un’umanità razionale, ha prodotto forme tiranniche di pensiero, scienza e tecnologia – una frammentazione dell’umanità in gerarchie, classi, istituzioni statuali, divisioni etniche e sessuali. Ha promosso odi nazionalistici, avventure imperialiste, e una filosofia della norma che identifica l’ordine con dominazione e sottomissione. La realtà, come vedremo, è diversa, una natura concepita come “gerarchica”, per non parlare degli altri “bestiali” e borghesissimi caratteri che le si attribuiscono, riflette solamente una condizione umana in cui il dominio e la sottomissione sono fini a se stessi e mettono in questione la stessa esistenza della biosfera»
Autopoiesi
Intorno al 1972, Humberto Maturana e Francisco Varela elaborano il concetto di autopoiesi, termine coniato unendo le parole greche auto (se stesso) e poiesis (creazione, produzione).
Il concetto è così definito da Varela:
“Un sistema autopoietico è organizzato come una rete di processi di produzione di componenti che produce le componenti che: attraverso le loro interazioni e trasformazioni rigenerano continuamente e realizzano la rete di processi che le producono e la costituiscono come un’unità concreta nello spazio in cui esse esistono, specificando il dominio topologico della sua realizzazione in quanto tale rete”
In sintesi un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce.
Maturana e Varela sono i primi a riconoscere l’autorganizzazione quale discriminante tra vivente e non vivente.
Referente comunimappe: pino de march
Per comunicazioni:comunimappe@gmail.com
per ricerc-azioni dettagliate:www.comunimappe.org
per
Pino de March – dipartimento alla terra di comunimappe
James Clifford, etnografo surrealista,
titolava così un suo saggio,
riprendendo un verso del poeta
statunitense William Carlos Williams.
L’Associazione
MIRS – Mediatori
Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP
– Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università
Pluriversità Bolognina
organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO
“BOLOGNA CITTA’ APERTA:
NUOVE RELAZIONI DI TRANS-CULTUR-AZIONE TRA GENTI,
LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI
SABATO 23 NOVEMBRE 2019
al CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO,
44
DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00
Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano,
transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,
siano essi nomadi, sedentari o migranti,
che desiderano partecipare ad un progetto di
costruzione di “zone di contatto o di transculturazione”
ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente le molteplici
genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.
Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali,
educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom,
Sinte e Gagi.
Abbiamo organizzato questo Simposio al
fine di ri-conoscere
le nuove comunità urbane Rom e Sinte disconosciute, disperse e discriminate e per
far
conoscere le attività educative e di trans-cultur-azione di MIRS
-CESP-COMUNIMAPPE portate in questi anni nelle scuole e nei
colorati e meticci territori periferici.
I
percorsi pluriennali condivisi sono molteplici:
A) Memorie attive ove documentiamo, con una mostra visiva
che si compone di 45 fotogrammi, il
Porrajmos (o divoramento nella lingua
romanes) e, in modo circostanziato, la persecuzione, la
deportazione nei lager, gli atroci
esperimenti sui corpi inermi trattati indegnamente come cavie ed
infine destinati allo sterminio: lo
sterminio per molto tempo dimenticato delle Genti Romanì. Tra
500.000 e 800.000 il numero degli
sterminati nei lager nazi-fascisti e tra essi molti gli assassinati
durante le occupazioni delle truppe
naziste-fasciste allargatesi a macchia d’olio nei territori
dell’ovest come dell’est europeo. In ogni
fotogramma esposto viene comprovato con informazioni
storiche tratte dagli archivi dei musei
questa “unicità storica”, il gelido orrore seriale e
tecnico-industriale nazista, e le evidenti
complicità trasversali degli ambienti “scientifici” e dei
governi fascisti di tutta Europa; in
questo originale scavo nel tempo emergono i nomi dei fotografi e
i luoghi dei tragici accadimenti
riportati. La ricerca è stata realizzata con il contributo del Professore
Raffaele Petrone nella parte artistica-fotografica
e del Professore Matteo Vescovi nella parte
storico-culturale descrittiva(entrambi
docenti ed attivisti del Cesp-Centro studi per la Scuola
Pubblica).
B) Laboratori di trans-cultur-azione : svolti nelle classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado
delle periferie bolognesi che ci hanno ospitato e cooperato nell’autoproduzione
di attività didattiche interdisciplinari appropriate. Insieme ci siamo avvalsi
dell’uso del “brainstorming” che permette l’emergere del negativo cioè gli stigmi,
i pregiudizi, gli stereotipi e le credenze discriminanti che accompagnano e
pregiudicano non solo i Rom e Sinti, ma
anche altri gruppi minori quali: migranti, profughi, clandestini, lgbtqi, su
cui poi operare un’analisi critica e argomentativa circolare tra meditatori,ricercatori,
docenti e studenti, per contrastare
l’anti-ziganismo , le
rom-fobie, le xeno-fobie, le trans-omofobie, le semplificazioni e le criminalizzazioni
generalizzanti ed ogni altra forma di esclusione e marginalizzazione;
discriminazioni senza fine che continuano a subire le genti romanì
(sia dei Rom e Sinti italiani che
delle altre minoranze europee della stessa
area linguistica-culturale) anche in tempi di relativa pace
e democrazia.
Altro nostro orizzonte è far ri-conoscere la cultura disconosciuta
e dispersa e i contributi culturali significativi che gli appartenenti a queste
variegate Genti romanì hanno apportato alla comune cultura europea ed
internazionale: dallo
sport al cinema, alla musica, alle arti circensi, alla poesiaed anche alla scienza (tra loro si
annovera un premio Nobel) ed ai rari mestieri praticati nel tempo; apporti
raramentecitati nei libri di storia, di scienze e
delle varie antologie letterarie che circolano nelle nostre scuoledi ogni ordine e grado o nei Mass-Media;
solo nei New Media o Social, accanto alle “bufale”, aldisprezzo e agli insulti, si possono
trovare informazioni storico-culturali che riguardano le variegateculture romanì, così pure all’Università
esistono corsi, seppur rari, sull’argomento, corsi che inrarissimi casi danno origine a crediti
formativi, a differenza di quanto avviene per le attività di ricerca verso altre minoranze territoriali
linguistico-culturali presenti in Italia(slovena, francese, tedesca, ladina,
sarda,grecale, ecc.).
I laboratori con attività di brainstorming
e soprattutto di transculturazione: processi d’interazione
tra individui o gruppi in “zone di
contatto” attraverso i quali emergono divergenti visioni di vita e
mondo ma anche condivisione di proprie
storie, esperienze e valori, sono stati condotti in
cooperazione educativa tra i docenti delle
varie classi, mediatori interculturali prima
dell’associazione Amirs(Associazione
Mediatori Interculturali Rom e Sinti), con la presenza musicale
di Raducan Ljonel, racconti, favole o
paramicie zigane di Aghiran e di conversazioni sulle difficoltà
della vita quotidiana romanì, ieri nomade
e dispersa ai margini delle città e oggi periferica e
urbanizzata di Milan e Tomas Fulli; ora
del Mirs (Mediatori Interculturali Rom e Sinti) con Tomas
Fulli e Aghiran, coordinati dal docente in
pensione, psicologo delle relazioni umane
(esistenziale-situazionale) e
ricercatore-attivista di trans-cultur-azione – Pino de March – di Comunimappe-libera
comune università pluriverisità Bolognina.
———————————————————————————————————————————————–
La lista include
personaggi famosi aventi origine rom e sinta da parte di uno dei due genitori.
Banderas Antonio: attore
di origini kalé
Brynner Yul: attore,
rom da parte del nonno materno. Acquistò il titolo di Presidente Onorario dei
Rom
Caine Michael: attore
di etnia rom romanichael (gipsy)
Cansino Antonio: ballerino
creatore del flamenco moderno, kalé spagnolo
Chaplin Charles: attore,
rom romanichael(gipsy) da parte di madre ed ebreo da parte di padre
Ciganer Cécilia: meglio
nota come ex-moglie di Nicolas Sarkozy. Suo padre è rom
Cortés Joaquìn: ballerino
di flamenco, kalé spagnolo
Giménez Malla Ceferino: kalé
spagnolo beatificato nel 1997
Goddard Stuart Leslie: noto
come Adam Ant. Cantante glam inglese (post-punk). Sua nonna è
romanichael(gipsy)
Hayworth Rita: attrice,
nipote del ballerino di flamenco kalé Antonio Cansino
Hoskins Bob: attore
americano di origine sinta
Ibrahimovic Zlatan: calciatore,
rom bosniaco da parte paterna
Krogh August: scienziato
e premio nobel per la medicina, di etnia rom
Kubitschek De Oliveira
Juscelino: ex presidente del Brasile, di origine rom
Müller Gerhard: ex
calciatore e vincitore Pallone d’Oro. Ha origini rom e sinte
Olasunmibo Ogunmakin Joy :
nome d’arte Ayo. Cantantautrice tedesca con madre rom romena
Orfei Liana: artista
circense e attrice, sinta italiana
Orfei Moira: artista
circense e attrice, sinta italiana.
Presley Elvis: cantante
di padre sinto e madre romanichael(gipsy)
Redzepova Esma: nota
cantante rom macedone
Reinhardt Jean-Baptiste: musicista
jazz conosciuto col nome di Django Reinhardt. Sinto eftavagarya
Spinelli Santino Alexian: professore
universitario e musicista rom abruzzese
Solario Antonio: pittore
rom Abruzzese, detto “lo zingaro”, vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo.
Approfondimenti di Martina
Zuliani ricercatrice ed attivista interculturale e trans-nazionale
dell’inclusione sociale e dei diritti
umani
Ed anche altri che
aggiungiamo come ricerc-attivisti di comunimappe:
BronislawaWais detta
Papusza:poeta romanì (area polacca)
Rasim Sejdic – poeta
xoraxane-bosniaco Marko
Aladin Sejdic –poeta e mediatore
in terculturale in Germania (figlio di Rasim)
Johann Trolmann –Ruekeli
–pugile – a cui la Germania nazista rifiutò di riconoscere il titolo di
vincitore dei pesi medio-massimi,
perché uno “zingaro” non
poteva rappresentare la Germania nazista alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928;
assassinato da uno
dei Kapò nazisti per vendetta
e di nascosto, dopo averlo deriso e sfidato ma fu battuto da Ruekli, malgrado
il suo corpo fosse
terribilmente debilitato ed
esausto dai quotidiani lavori forzati .
ALTRI
ED ALTRE FIGURE SIGNIFICATIVE A NOI GAGI DISCONOSCIUTE E DA ROM DISSIMULATE PER
INTROIETTATI
STIGMI
———————————————————————————————————————————————–
“I frutti puri impazziscono”
James Clifford etnografo
surrealista titolava un suo saggio riprendendo un verso del poeta statunitense
William Carlos
Williams: “I frutti puri
impazziscono”. Questa espressione diventava per Clifford una metafora poetica e
situazionale,
“quel trovarsi tutti in una
condizione di modernità etnografica, etnografica perché ci sentiamo spiazzati
in mezzo a tradizioni frammentate, e modernità perché lo sradicamento e
l’instabilità che ne risulta sono sempre più un destino comune. Siamo presi
insomma tra disgregazione culturale locale e un futuro allargato con relazioni
d’identità multiple, tra l’altro Clifford non vede come una catastrofe da
deprecare e lamentare la perdita di una passata autenticità e purezza. Al
contrario la modernità etnografica emerge come indefinita ricomponibilità delle
moltitudini di soggetti ed oggetti culturali uscite dalle frammentazione delle
varie tradizioni in strutture dotate di nuovo senso”.
Per non impazzire
Come James Clifford anche
noi riteniamo che le impure ricombinazioni culturali – come le rovine
ricomposte
dall’angelo di Benjamin
sospinto dalla tempesta della storia verso il futuro – vanno a costituire
futuri anteriori e nuovi sensi e non anomalie o degenerazioni culturali, sia
per le singolarità come per le comunanze che si vanno riaggregando nel vortice
degli avvenimenti storici e culturali; mutazioni che pervengono seppur a volte
tragicamente a sempre nuove esistenziali fenomenologie di ben-vivere e
ben-essere. Non esistono culture autentiche o non autentiche, bensì culture in un
movimento nella tempesta del divenire storico-culturale; quelle forme che
scompaiono, in parte si dissolvono e altre ricompaiono in forme visibile o
invisibile, apparendoci però sempre degne di originarietà, pur derivandoci da
altre per ricombinazione (o ri-articolazione). Un esempio di questa
catastrofica ri-articolazione avviene ed è avvenuta nelle culture romanì, forme
di vita che hanno sempre saputo in modo situazionale ed esistenziale cogliere e
cedere per transculturazione dai territori attraversati nuove forme di vita e
di cultura; talvolta passando attraverso tragiche esperienze di persecuzione,
rifiuto ed incomprensione , però conservando sempre uno spirito resilienti, che
non perde mai se stessa nella ri-composta romanì(o romanipè) . La derivazione indiana del romanes è
stata scoperta solo
alla fine del XVIII secolo (ad opera di
Valyi Istvan, nel 1763): fino a quel momento si riteneva che fosse un gergo
interamente inventato, un linguaggio cifrato rapportabile a quello dei
malavitosi. Nel corso dei loro continui spostamenti, i romanì (o Rom e Sinti
Gipsy ecc) sono entrati in contatto con genti diverse fra loro e la matrice
indiana (neo-idiana)della loro lingua si è arricchita di neologismi,calchi,
prestiti lessicali e ibridi morfologico-sintattici a seconda delle zone di nomadismo
e di stanziamento, dando luogo a una miriade di dialetti la cui classificazione
è spesso problematica.
AMARI CHIB
Natarada, Khelibnáskro Ráy,
Amaré dirlatuné dàdénge,
Indo-Ien pre xár thabdéla káy,
Bin dinás, kud basavdí, Roménge.
But doryá isí suvnakuné.
Si yavér pre láte rupuné,
Sanskritítkes gilabán saré.
Ne sungól, sâr ’dre gilí andré
Si parsítko, armenítko ’lav,
Thay grzeekítka methodé sunáv,
Vare-káy isí ’lavá vlaxítka,
Si ungrítka, vare-káy slavítka…
Ne saré yoné, vavré-theméngre,
Sig bilón ’dre dhib le Bramanéngri,
1hib, saví si yékh barvalipén,
Kay isí amén ’dro dzivipén.
Vas ’dovrá raknén la, má bistrén,
Amaré dhavénge adhavén!
Leksa Manus
LA NOSTRA LINGUA
Natarajah, il Signore della Danza,
Ai nostri lontani avi,
Dove nella valle scorre il fiume Indo,
Diede il liuto, lo strumento caro ai Roma.
Molte corde sono d’oro,
Al di sopra l’altre sono argentee,
e tutte cantano così come nel sanscrito.
Ma si ode, come dentro nella canzone
Si ha qualche parola persiana od armena,
E le greche odo io là,
Si ha altrove parole valacche,
Ci sono le ungheresi, altrove le slave…
Ma tutte esse straniere
Presto si fondono nella lingua dei
bramani,
Nella lingua ch’è la sola ricchezza
Che noi abbiamo nella nostra vita.
Perciò serbatela, non dimenticatela,
Per i nostri bambini conservatela!
Da Lacio Drom, 1987, nº1.
Leksa Manus in grafia romanes e Aleksandr
Belugin in lettone,pedagogista, poeta,linguista (Riga,7/02/1942
– Mosca 25/05/1997)
Immanuel Kant e la dignità umana: “Agisci in modo da
trattare l’uomo così in te come negli altri sempre come fine, non mai solo come
mezzo”
(I.Kant, frammento dalla critica della ragione umana).
Ritrovarsi al fine di
attivare percorsi di reciproco riconoscimento tra genti e singolarità Rom,
Sinti e Gagi di disparate e frantumate tradizioni sia nomadi che
sedentarie, ora entrambi prevalentemente urbanizzati, e per
riprendere sentieri ininterrotti
per far fronte alle emergenti cromofobie (paura delle molteplici espressioni e
forme della vita): stigmi, pregiudizi, stereotipi edavversioni nei confronti di
qualsiasi forma di vita cromatica e divergente,alle paranoiche percezioni ed
ossessioni radicate in credenze di un passato tradizionalista che non passa , chespingono individui e gruppi
all’isolamento etnico,all’inimicizia, all’odio identitario e all’indifferenza,
verso chi nonviene percepito come simile; noi sappiamo
però che il pregiudizio è trasversale a qualsiasi cultura, ideologia oreligione, nessuna di esse
può essere ritenuta esente dalla presenza di individui e gruppi che al loro
interno coltivinovisioni fondamentaliste,discriminatorie e
“desideri distruttivi o di annientamento dell’ Altro”.
In questo tempo shockante e
di transizione verso un domani de-globalizzante (che dovrebbe integrare in
modo-ecologico, culturale e
sociale in dimensioni glo-cali, o globali e locali, con genti autoctone e
migranti, nomadi e sedentari, il pregiudizio escludente riemerge con
un’intensità impressionante da spregiudicati populismi che soffiano sul fuoco
dell’inquietudine e del disagio accendendo di risentimento folle reattive,
nutrendole di banalisemplificazioni e di veleni
de-umanizzanti.
Nella storia della
nostra specie de-umanizzare serve a pensare l’altro come essere
umano incompleto o da
considerare come essere infra-umano,
cioè capace di emozioni innate primarie (quali paura, rabbia, aggressività,
disgusto ecc), come qualsiasi essere vivente umano ed animale, ma incapace di
emozioni secondarie o culturali (vergogna,offesa, pentimento, rimorso, pena,
rispetto ecc) proprie di ogni essere umano razionale, e per questo considerati
alla stregua di animali o omidi solo adatti al puro sfruttamento.
Tutto queste distinzioni
servono per compiere su di loro azioni inconcepibili in un contesto di
convivenza pacifica ma possibile in altri contesti sia di guerre esterne contro
presunti-nemici che di guerre interne contro presunti-capri espiatori.
Diversificazioni che
possono portare alla disumanizzazione ,o alla privazione delle
qualità proprie dell’umano, ed così le porte al l’annientamento che diventa un
fatto automatico e seriale , senza che comporti alcun
turbamento, compassione,
colpa o a sentire responsabilità dei propri misfatti ;
verso l’umanità e certi
soggetti per poi passare alla loro totale de-personalizzazione per giustificarne lo
sterminio.
Le genti romanì come
gli ebrei, gli lgbtq, i disabili, gli oppositori politici, militari non
collaborazionisti (600.000 internati militari italiani che non vollero aderire
alla repubblica nazifascista di Salò) ed altre comunità minori religiose,hanno subito
tutte questo processo abietto de-umanizzazione-disumanizzazione.
In tutte le aree
geografiche europee ove s’estendeva come un ombra nera cromo fobia (la paranoia
delle molteplici forme della vita e delle
espressioni di gioia e
convivenza pacifica ), la tirannide nazi-fascisti contro i romanì, i Rom e
SInti e altre comunità minori furono oggetto di persecuzioni, deportazioni, ed
i loro corpi ridotti in schiavitù trasformati in cavie dei più atroci esperimenti
pseudo-scientifici come verrebbe da pensare ed invece erano veri e propri
paradossali esperimenti scientifici, paradossali perché contrapposti alle
logiche più elementari di umanità, ma dimostratesi utili alla feroce ricerca in
vari campi della medicina e della scienza(congelamento-raffreddamento
prolungato, sterilizzazioni, raggi X e castrazione chirurgica, sui gemelli
monozigoti, decompressione per il salvataggio, interruzione di gravidanza con tagli
cesarei senza anestesia ecc. ); esperimenti praticati che infliggevano le più
atroci mutilazioni e sofferenze
senza la minima
preoccupazione di quanto dolore provocasse , violando la dignità delle persone,
i codici etici ed deontologici ed il giuramento di Ippocrate. I più noti
nazisti processati per genocidio e crimini contro l’umanità al Tribunale di
Norimberga (1945-46)furono: Joseph Mengele-genetista, Carl Clauberg-ginecologo,
Julius Hallervorden-neuropatologo, Hugo Spatz-psichiatra,Hans Reiter-patologo,
Hans Eppiner, Murrad Juussuf Bei,
Eduard Pernkof, Eugene
Charles Apert e molti altri ancora.
Per questo l’Università
della Sapienza di Roma l’ 08-06-15 chiese di togliere i loro nomi dalla
letteratura scientifica ed anche di cancellare le sindromi e le malattie scoperte
associate al loro nome);
Nella lingua romanes o
nella lingua parlata dei romanì tutte queste atrocità sono chiamate da alcuni
“Porrajmos”,divoramento, e da altri “Samudaripen”, grande morte.
In questo terrificante
genocidio umano tra il 1939 ed il 1945, più di 500.000 romanì furono sterminati
nelle forme più disparate: fucilati davanti alle porte di casa o nelle piazze
per la ribellione opposta alle squadre speciali naziste bruciavano i loro
villaggi durante le occupazioni dell’Europa dell’Est, soffocati ed affamati nei
carri merci della deportazioni, resi esausti dagli esperimenti scientifici nei
campi di sterminio e per i lavori da schiavi in altri campi o lager gestiti
dagli Ustascia come a Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani, creata dal clerico-fascista
Ante Pavelic con il pieno appoggio della Germanianazista,dell’Italia fascista e
del Vaticano) e molti altri sterminati nelle camere a
gas.
Va ricordato di queste
genti romanì l’eroica ed unica ribellione avvenuta contro i nazisti in un
lager:
All’alba del 16 maggio 1944
le SS si trovarono dinanzi a qualcosa d’imprevisto: i rom (per i nazisti gli
“zigeuner”)
destinati alle camere a
gas, avendo saputo dai loro contatti segreti quale sarebbe stato il loro
imminente e
conseguente destino, si
erano armati con pietre, spranghe, arnesi da lavoro e strumenti musicali
(violini, fisarmoniche) e quanto vi era a portata di mano.
Al momento della verità,
quando gli aguzzini , decidono di “liquidare” i settori ove sono rinchiusi
uomini, donne e
bambini del campo, le
“famiglie zingare” scelgono di combattere, di difendersi fino all’ultimo
respiro. Come in un
sogno un gruppo di piccoli
detenuti cercano con la forza della disperazione e della fantasia di “far
muovere il campo e di trasformare le baracche in cui sono rinchiusi nei
carrozzoni di una carovana capace ancora di viaggiare”.
(Note
tratte da “La rivolta degli zingari- Auschwitz, 1944” di Alessandro Cecchi
Paone e Flavio Pagano ed Mursia,
2009).
Una vicenda sconosciuta e straordinaria che non si può dimenticare o non
lasciare alla memoria attiva da
mantenere
tra generazioni di genti libere.
Pino de March per Contrada
Solidale ROM SINTI E GAGI di Via Erbosa 13-17 e
per trama di cooperazione
formativa, educativa e transculturale:MIRS,CESP,COMUNIMAPPE
Per contatti: referente e ricercatore Pino
de March
comunimappe@gmail.com
Per vedere le diverse attività comuni di
cooperazione educativa e culturale
GRUPPO DI POESIA DELLA ZONA ERBOSA, COMUNIMAPPE- artisti senza frontiere, MIRS-mediatori interculturali Rom e Sinti, PAESAGGI DI POESIA, GRUPPO ’98-DONNE E POESIA
La festa è promossa dalla contrada solidale
dell’Unione Rom, Sinti e Gagè che nasce da una pluriennale cooperazione
culturale e sociale tra Amirs ,ora Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti, Cesp-Centro
studi per la scuola pubblica(area cobas-scuola), Comunimappe-Libera comune università
pluriversità bolognina
La festa si dà in primis come momento conviviale per ricreare legami umani, culturali e sociali tra gli appartenenti alle comunità territoriali romanì (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) e i gagè, o i non rom (europei, italiani e migranti)residenti nella nostra città , in secondo come benefit (raccolta fondi)per sostenere le disparate attività comuni quali: laboratori interculturali nelle scuole, memorie di stermini dimenticati –porrajmos e di altre minoranze, conoscenza delle variegate culture romanes, intermediazione e relazione tra giovani,donne ed adulti romanì e con le istituzioni pubbliche e il mondo associativo solidale dei gagè) promosse dalla nuova associazione MIRS(Mediatori interculturali Rom e Sinti)che raccoglie l’esperienza di AMIRS
.Ed in terza istanza per sostenere le attività di ricerc-azione sugli emergenti paradigmi trans-individuali e trans-educazionali di comunimappe – libera comune università pluriversità bolognina(vedi nostra trama attiva e progettuale in fondo a queste pagine.
DALLE ORE 15 PARAMICIA: laboratori per bambini-e e ragazzi-e Rom,Sinti e Gagè autogestiti da DADA LUPE – CANTASTORIE
SI PARTE DA LETTURE DI RACCONTI E FAVOLE ROMANES E POI IN PICCOLI
GRUPPI, PARTENDO DA QUESTE TRACCE SE NE RINVENTANO DI NUOVE. E SI PROSEGUE CON
DEI GIOCHI.
PARAMICIE ROMANES: Sono l’insieme di storie e di narrazioni, racconti affabulanti di vita vissuta dal clan ( o famiglia allargata uniti da vincoli di parentela,solidarietà e mestiere), di sfide, di viaggi, d’amore, di natura,di animali, di fortuna e di sfortuna e di resilienza ecc., con contenuti ed espliciti intenti di generare coraggio, non come semplice non paura, ma come pervicace non sottomissione, raccontati dagli anziani ai bambin-i-e e ragazz-i-e romanì, per rafforzare i valori fondanti ed importanti della loro comunità. Forme d’educazione mitica ed emozionale. Per infondere autostima nell’affrontare la vita, che non è sempre così facile e liscia per un romanì, soprattutto al fine di accrescerla là ove quotidianamente viene demolita dall’ostilità e dalle difficoltà che incontra nell’inserirsi in una società dei gagia che nonostante le dichiarazioni d’inclusione resta fredda, indifferente o diffidente. Ora nelle comunità aperte urbane si sperimenta e si reinventa una romanipè ,cioè una capacità di trasformazione dei fondamentali romanì (mantenimento dei vincoli di solidarietà ma anche trasformazione di alcuni aspetti tradizionalisti e patriarcali -già in atto in molte famiglie urbanizzate che si manifesta apertamente (non più come “fughina”) ma come libertà di scelta dei giovani e delle donne di affermazione di una autonoma vita dentro e fuori la propria comunità nativa ).
DALLE 18 ALLE 22
ALLA SALA INTERNA DELLA CASETTA AGLI ORTI: MOSTRA SUL PORRAJMOS O STERMINIO DIMENTICATO DEI ROMANI’ (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) DALLE 18 ALLE 20
TOMAS FULLI PER MIRS: APERTURA FESTA
BREVE RACCONTO DELLE ATTIVITA’ INTERCULTURALI NELLE SCUOLE E NELLA CITTA’ CONTRO STIGMI E PREGIUDIZI ANTIZIGANI E DI MEMORIA ATTIVA SVOLTE IN COOPERAZIONE CON LA CONTRADA SOLIDALE DELL’UNIONE ROM, SINTI E GAGE’
RAFFAELE PETRONE E MATTEO VESCOVI DEL CESP:BREVE STORIA SULLA RICERCA DELLE FONTI PER RENDERE LA MOSTRA DOCUMENTO STORICO-CULTURALE FOTOGRAFICO SUL PORRAJMOS
PINO DE MARCH DI COMUNIMAPPE: 16 MAGGIO 1944: RIVOLTA DEI ROMANI’ AD AUSCHWITZ
ALLE ORE 20: Presentazione di Fabio Bassetti DEL FILM: LIBERTE’ Segue quella del portavoce del GRUPPO MUSICALE DJANGO GYPSY JAZZ
DALLE ORE 20: MUSICA E CENA ZIGANA (ONNIVORA, VEGETARIANA E VEGANA)
DALLE 22 ALLE 24: AGHIRAN CON MAESTRIA ANIMA DANZE E BALLI ZIGANI
“LIBERTE’”, Film sulla libertà di
Tony Gatlif
Gli zingari durante la seconda guerra
mondiale
(in Romani e in francese, + sottotitoli in
francese) Il film, della durata di 1 ora e 45
minuti,
2016 – dopo molti anni si è deciso di costruire un monumento alla memoria dei caduti Rom e Sinti a Montreuil – Bellay (F)
Una scheda sintetica del film
“Liberté” di Tony Gatlif che riflette il destino degli zingari in Francia
durante la seconda guerra mondiale.
PREMESSA:
Per via di una ricognizione
topografica per la costruzione di un asse stradale ad ampia circolazione, si
scopre in un vasto campo erboso, delle basi di cemento volte a sostenere dei
grandi capannoni, e una specie di cella semi-interrata con delle feritoie
orizzontali ad altezza del suolo, non volte alla difesa e troppo sottili per
passarci. Fortunatamente, prima dell’inizio dei lavori della strada che avrebbe
definitivamente sepolto questo reperto, si diffondono le voci e qualcuno si
ricorda ancora della previa esistenza di un grande campo di concentramento per
Rom e Sinti ed altri gruppo romanì durante la seconda guerra mondiale, tenuto
dalle zelanti autorità francesi anti-zigane e fasciste del governo di Vichy,
governo collaborazionista con l’occupante nazi hitleriano. Oltre alla sede in
cemento dove poggiavano i capannoni in legno, si scopre che la “trappola”
semi-interrata serviva a racchiudere i bambini e le bambine più piccoli, per
fare in modo che gli adulti non avessero più voglia di tentare le evasioni.
Viene rapidamente avvertito Tony
Gatlif che assieme ad altri illustri umanisti francesi, organizzano in gran
pompa magna una conferenza stampa e poi una cerimonia per evitare che venga
cancellato questo scomodo reperto della recente storia xenofoba francese,
riuscendo a far deviare il percorso originario della strada in costruzione..
Il 29 ottobre 2016, il Presidente della Repubblica, François
Hollande, ha inaugurato un memoriale in onore degli Zingari internato nel campo di concentramento di
Montreuil-Bellay, nel Maine-et-Loire, durante la seconda guerra
mondiale.
IL FILM:
Il regista, Tony Gatlif, si è ispirato alla storia di Toloche, uno zingaro
internato in questo campo di Montreuil-Bellay, per renderlo il personaggio
principale del suo film “Liberté” nel 2010. Il film evoca anche il
ruolo dei Giusti e della Resistenza come Yvette Lundy la cui lotta partigiana
ha ispirato il personagio. dell’impiegata del piccolo comune ed insegnante nel
film.
Il riassunto del film
Nel 1943, Theodore, veterinario e sindaco di un micro villaggio nella zona
occupata, raccolse un orfano P’tit Claude, arrivato assieme ad una famiglia di
zingari che ciclicamente passa annualmente a vendere i suoi servizi al
villaggio. Il sindaco e l’impiegata Miss Lundi, umanista e repubblicana,
convincono inizialmente gli zingari a fermarsi sul terreno di questo villaggio,
per via della repressione delle leggi francesi che non permettono più
l’esistenza di ambulanti sulle strade e nelle campagne. Con la buona
accoglienza dimostrata, i due impiegati comunali convincono anche gli adulti a
mandare i loro figli a scuola. Con loro, si unisce anche Taloche, un
quarantenne di Boemia con l’anima di un bambino
Taloche rappresenta “lo spirito
libero dei viandanti” che appartengono in modo profondamente esistenziale alla
terra e agli elementi che attraversano nei viaggi. A differenza della
cultura cartesiana occidentale che si ostina a pensare ad una terra che gli
“appartiene”…e che ha il diritto anche di rovinare.
Purtroppo la repressione di Vichy continua ad intensificarsi contro gli Zingari
che un giorno decidono di riprendere comunque la loro strada di sempre, pur
sapendo i rischi che corrono.
Questo film, a differenza di altri film di Tony Gatlif,
non fu distribuito nelle sale italiane
Buona visione
Fabien Bassetti per gli amici gadgi
Fabinath Sapera per gli amici zingari
rajasthani
473 nomi di zingari internati sono incisi sul memoriale, incluso quello di
Toloche.
Foto di Jacques Sigot.).
MEMORIE DI STERMINI E RIVOLTE ZIGANE (OGGI
ROMANI’) DIMENTICATE
Era il 16
aprile 2015 e per la prima volta in Italia e a Bologna con una partecipata
manifestazione nazionale dei Rom e dei Sinti si ricordava : il 16 maggio 1944 –
giornata in memoria della rivolta dei Rom e Sinti nel lager di Birkenau – Auschwitz
contro i nazisti che li detenevano come schiavi-prigionieri.
Tra gli
invitati la Presidente della Camera Laura Boldrini, il giornalista Gad Lerner ,
gli artisti Moni Ovadia e Alessandro Bergonzoni, l’attore Ivano Marescotti. Presenti
anche i senatori Sergio lo Giudice e il senatore Luigi Manconi (del PD),Presidente
quest’ultimo della Commissione straordinaria per i diritti umani. Sergio del
Giudice invece, senatore e presidente dell’ARCI-GAY e attivista per i diritti
delle persone LGBT.
Quel giorno un folto corteo di Rom, Sinti e Gagè è partito da via Gobetti del Quartiere Navile, luogo dell’eccidio dei due Sinti (la notte del 1990- Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina, di 30 e e 34 anni, vennero trucidati, cono loro ferite gravemente una bimba sinta di 6 anni e una rom slava)da parte di nazi-poliziotti (i fratelli Savi) della A1 Bianca (la band dell’A-Uno bianca seminò una lunga scia di sangue e crimini tra il 1987 e il 1994, terrorizzando Bologna, la Romagna e le Marche, lasciando dietro di sé 24 morti ed oltre un centinaio di feriti); la meta di quel lungo corteo fu Piazza XX settembre.
Ed in quel giorno e in quella piazza (per la nostra città piazza della laicità, per via di quel XX settembre 1870, data che ricorda la breccia sulle mura di Porta Pia, la sconfitta dei soldati pontifici, la presa di Roma e la fine del potere temporale della Chiesa),il Presidente Davide Casadio della “Federazione nazionale Rom e Sinti insieme”, a sorpresa propose agli amministratori della città di “far diventare Bologna la capitale dei Rom e dei Sinti (perché proprio a Bologna si documenta per la prima volta,fin dal 1422, la presenza di genti nomadi in Italia accampati alla Montagnola, presentati quelle genti sconosciuti alle cronache del tempo come un gruppo di origine egiziana), ed inoltre di costruire un museo della cultura Rom e Sinti,per far conoscere la cultura e la storia delle nostre comunità,( ormai da secoli italo-europee, sicuramente i più europeizzati tra gli europei per quel loro lungo viaggiare tra molte città e villaggi europei).
Casadio poi aggiunge che “anche noi abbiamo una cultura ed essa assieme alle altre aiuteranno a sconfiggere la paura”.
Gli scopi della manifestazione erano quelli di sensibilizzare la città sul tema delle minoranze dimenticate e non riconosciute al pari di altre minoranze presenti in Italia (slovena, tedesca, francese ecc.),perché a dire delle maggioranze parlamentari succedute nel tempo, trattasi di minoranze prive di territorio, per via del loro prolungato nomadismo, ma soprattutto per una interpretazione restrittiva costituzionale, che ne impedirebbe riconoscimento e tutela istituzionale, che consisterebbe nell’istituzione di centri di cultura per promuovere e tutelare la cultura e la lingua romanes (trattasi di v1arianti linguistiche neo-indiane arricchite di lessici europei)nei luoghi di maggiore densità abitativa e residenziale(solo gruppi politici della sinistra parlamentare -sinistra italiana, rifondazione comunista ne sostengono questo riconoscimento non solo di generici diritto civili e sociali ma anche culturali ); seppur da decenni territorializzate nella nostra città, come in altre, vivono come invisibili e confinati o in campi sosta o in case popolari delle periferie.
Non mancarono in quel memorabile 16 maggio 2105 la solidarietà attiva dei centri sociali della città (TPO,LABAS,XM24,VAG61), di Coalizione Civica, Sel- Sinistra ecologia e libertà(la sinistra unita), dei sindacati di base (cobas o comitatidi base), ma anche della Cgil congiunta con Cisl ed Uil; per il portavoce di Sel e dei centri sociali: “la discesa in piazza va considerata come affermazione dei diritti all’esistenza di queste minoranze e per protestare contro l’ondata di odio indiscriminato che li riguarda, per ricordare le vittime della banda bolognese della “Uno Bianca” e per celebrare la rivolta degli internati Sinti e Rom nei campi nazisti.” Altre forze democratiche – istituzionali del campo progressista hanno aderito e partecipato alla manifestazione, il Sindaco Merola ha giustificato la sua non presenza per impegni istituzionali. Merola anticipatamente in un’intervista dichiara:”ci sono troppe chiacchiere infondate messe in giro in modo strumentale; non viene dato nessun regalo a queste persone. Sento parlare di 30 euro al giorno o corbellerie simili. Quello che bisogna evitare è di fare di ogni erba un fascio e di additare i “nomadi” come etnie che per forza ci fanno del male, è una cosa a cui bisogna stare molto attenti.”
Non mancarono in quel memorabile giorno anche indegne provocazione di Bologna sociale- Forza Nuova (neo-fascisti ), sostenuti da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega; tra loro ci furono chi contro-manifestò (Forza Italia e Fratelli d’Italia), ma tutti chiesero il divieto di corteo contro ‘il degrado”; quello che è più grave è la disumanità di questa ignobile espressione d’accomunare i Rom e Sinti ad “esseri degradati o causa di degrado delle città’.(solo i nazisti nel corso della storia europea considerarono gli ebrei e la loro cultura come degenerata; le due figure “degenerata e degradata” con cui si rappresentano le due comunità, ieri quella ebrea ed oggi quella rom-sinta , non si allontana di molto l’una dall’altra. La posizione del M5 è stata a dir poco complice, lasciando trapelare che anche loro non erano favorevoli al corteo, però … cercando un escamotage ‘civile o lavandosi le mani” attraverso le ambigue parole di Bugani: i colleghi della politica locale che intendono opporsi al corteo dovrebbero “sfruttare i luoghi istituzionali per dare forza alle proprie idee e non scendere alla bassezza delle contro-manifestazioni”. (come se impedire un corteo di una minoranza fosse da considerare un’idea da sostenere(come l’altra ‘idea’ cioè il fascismo) e non un crimine contro i diritti costituzionalmente riconosciuti a qualunque persona o minoranza, per di più resa invisibile, marginalizzata da secolari pregiudizi, storici stermini e perduranti discriminazioni).
Manifestazione 16 Maggio (Memoria Dimenticata 1944 –
“rivolta dei gitani”) Sinti e Rom in Europa in Italia
(Memoria Dimenticata 1944 – “rivolta dei gitani”)
Sinti e Rom in Europa in Italia.
La manifestazione del 16 maggio a Bologna
ricorda e si ribella (All’odio e al
razzismo).
Il 16 maggio del 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz andava in scena
la dimenticata “rivolta dei gitani”. Ogni anno si ricordano le atrocità del
nazifascismo, ma in pochi ricordano quei 500.000 tra Sinti e Rom massacrati dal
Terzo Reich. (Memoria Dimenticata – “rivolta dei gitani”)
1-«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini.
I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza
mostruosa su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora
del fumo denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre
preghiere.
2 -Non lasceremo alle
vostre mani rapaci, ai vostri cuori tenebrosi, al vostro odio disumano la
bellezza delle nostre vite, la santità dell’amore che unisce le nostre famiglie
in un popolo povero, ma fiero». formata da nugoli di bambini pelle e
ossa, donne e capifamiglia scalzi – ove si trovava la più potente e organizzata
macchina di oppressione morte di tutti i tempi.
3- Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre
combattevano; i ragazzini difendevano lo zigene-lager finché il sangue non li
copriva, rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia
scure brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si
ritirarono, esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che
affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda.
Era il 16 maggio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz quando le SS
decisero di farla finita con il campo adibito alle famiglie zingare. Uno
sterminio patito da Sinti e Rom, che in molti preferiscono dimenticare, o
meglio far finta che non sia mai avvenuto. Quel giorno le SS ricevettero
l’ordine di smantellare il campo, ovvero di eliminare tutti gli internati.
Nessuno si sarebbe mai aspettato di assistere a una rivolta dei gitani reclusi
che, quel 16 maggio, uscirono dalle loro baracche in oltre quattromila, decisi
però a non farsi massacrare senza combattere. In teoria dovevano uscire e
seguire i nazisti fino alle camere a gas, ma quel giorno decisero di ribellarsi
raccogliendo pietre e spranghe e lanciandosi contro le SS. I nazisti poi gliela
fecero pagare riducendo alla fame il campo e uccidendo ben 2897 Sinti e
Rom , pochi mesi dopo nella stessa notte, il 2 agosto dello stesso anno. E’
questa la triste storia dei massacri commessi dai nazisti ai danni anche di non
ebrei, dimenticati per decenni e solo negli ultimi anni riscoperti anche grazie
al lavoro di storici e minoranze etniche. Secondo le ultime ricostruzioni si
presume con un margine minimo d’incertezza che i nazisti abbiano trucidato
qualcosa come 500.000 tra Rom, Sinti e Manush, ed è opportuno ricordare qui come
durante il processo di Norimberga i superstiti (romanì )non siano nemmeno stati
ammessi come parte civile.
Tutti Sinti e
Rom e altri gruppi minori, in numero di
4.000 Rom internati nello zigeuner-lager di Auschwitz
decisero di opporsi ai loro aguzzini, che secondo programma erano venuti a
prelevarli, per condurli nelle camere a gas. Di fronte a un’umanità ridotta in
condizioni pietose – formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e
capifamiglia scalzi – si trovava la più potente e organizzata macchina di
oppressione morte di tutti i tempi. Non furono solo gli uomini a decidere di
non piegare il capo di fronte ai carnefici in divisa; anche le manine ossute
dei bimbi e delle donne raccolsero pietre, mattoni, spranghe, rudimentali lame
e tutti insieme i Sinti e Rom di Auschwitz dissero: «No!».
«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini. I
vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa
su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora del fumo
denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre preghiere. Non
annienterete le nostre famiglie, cui avete già tolto i doni preziosi della
libertà e della dignità. Non lasceremo alle vostre mani rapaci, ai vostri cuori
tenebrosi, al vostro odio disumano la bellezza delle nostre vite, la santità
dell’amore che unisce le nostre famiglie in un popolo povero, ma fiero».
Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre combattevano; i
ragazzini difendevano lo zigeuner-lager finché il sangue non li copriva,
rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia scure
brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si ritirarono,
esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava
le pallottole e le baionette con la carne nuda. Le SS si ritirarono, portando
con sé molti cadaveri tedeschi. Solo il 2 agosto 1944 i nazisti – dopo aver
ridotto in fin di vita la popolazione Sinti e Rom prigioniera della
«fabbrica della morte», limitando al minimo il suo sostentamento alimentare –
riuscirono a liquidare lo zigeuner-lager. 2.897 eroi Rom furono assassinati in
una sola notte nelle camere a gas di Birkenau.
Davide Casadio Presidente Federazione Rom e sinti insieme in Italia
In terza istanza la ricerc-azione di comunimappe –libera comune università
pluriversità bolognina sui mutati paradigmi educativi e relazionali quali:
trans-educazioni, educazione diffusa ed incidentale e sulle articolazioni culturali e sociali di tali paradigmi:
trans-individuale come approccio epistemologico-filosofico elaborato dal filosofo Simondon che considera ogni essere umano come una trama complessa e non scindibile tra individuale,culturale,sociale, naturale e macchinico. Significa anche rimettere in discussione sia l’individualismo proprietario capitalista che il collettivismo proprietario statalista, e ripensare ad una forma di economia e di socialità di un Comune agire tran-individuale che non può prescindere da una visione olistica (una forma comunalista o municipalista (M.Bookchin)di ecologia sociale che trami per sostenere la natura,una società dei liberi e degli uguali, la cultura con le sue molteplici espressioni e l’eco-nomia come auto-gestione politica ed economica dei diversi contesti intrecciati tra tra loro. Gli stessi padri costituenti americani mettevano in guardia sulle diseguaglianze che rappresentano grande un grande pericolo per la democrazia.
trans-cultura le che riguarda le relazioni in divenire tra le variegate culture presenti nei territori (interazioni tra differenti specie umane native in Africa come in Asia ed Europa da almeno 300.000 anni per migrazioni di persone o per narrazioni (o passaparola)hanno permesso all’homo sapiens di generare un universo simbolico comune che riguarda tutti gli umani sulla terra seppur declinato in molteplici forme linguistiche culturali); a cui s’accompagna il contrasto educativo agli stigmi,pregiudizi, rom-fobie, trans-omo-fobie, xeno-fobie ecc.)nelle istituzioni educative e nella società.
trans-umano o neo-umano consiste nelle relazioni tra umani, ambienti naturali ed artificiali e nuove tecnologie ; nuovi ambient tecno-culturali e sociali non sempre appaganti ed agiati, ingenerano disagi esistenziali e sociali tra le nuove generazioni, categorizzati nelle nostre scuole come BES – o persone che abbisognano di ulteriori – Bisogni educativi speciali; disagi che nascono da una pluralità di fattori: processi migratori, marginalizzazioni economiche e sociali delle famiglie, relazione alterate per esposizioni eccessive al digitale o ai social (“cervello aumentato e umano diminuito”, così il filosofo – psicoanalista Benasayag descrive tale condizione esistenziale );non vanno trascurate come cause di malessere il prevalere nelle scuole negli ultimi decenni d’approccio riduttivo (semplificato paragonabile ad un puro addestramento al fare attraverso didattiche modulari delle competenze), funzionale e competizionale (che come centralità competizione e competenze) sull’apprendimento cooperativo volto ad una visione complessa del ricercare,conoscere e vivere, con metodologie interdisciplinari e olistiche delle conoscenze miranti ad uno sviluppo umano completo; solo nuovi ambient educativi ove si sviluppano una cooperazione educativa circolare e non frontale, esperienze di ricerca e curiosità , attività singolari e condivise, pensieri critici, divergenti e creativi, educazioni risonanti all’affettività possono generare persone esperte, affettive e solidali con una notevole autonomia e capacità di relazionarsi agli altri, ed aspirare da trans-individui trans-educati alla realizzazione d’attività umane che ingenerano progresso comune,culturale,naturale. individuale e sociale, cura dei mondi di vita e delle dimensioni esistenziali.
– trans-femminismo come vissuti di lotta e di vita per l’affermazione e la comprensione consapevole dei nuovi paradigmi relazionali di genere e di orientamento ad un’aperta sessualità e a relazioni affettive complesse; per contrastare l’ideologia conservatrice – no gender – che genera sospetti e menzogne tra gli educatori parentali, con accuse menzognere di manipolazione delle nuove generazioni da parte di una “inesistente teoria gender”che li spingerebbe alla depravazione dei generi e della sessualità “naturale”; il malinteso ‘gender’ trattasi invece di un’espressione che raggruppa gli studi di genere, studi che analizzano criticamente le oppressioni-repressioni che una visione etero-normativa per secoli ha imposto “con la forza coercitiva di ordine e legge ” nel nome dei padri”una spietata violenza macista e sessista” alla società, in primis alle donne e agli altri comparati mondi subalterni(“femminei”)di vita affettiva e sessuale (quello che oggi emerge in libertà come lgbtqi); il “no gender” forme queste, sì, ideologiche ed imperative di relazioni di genere ed affettive compresse in una dimensione riduttiva biologista e binaria di – maschile e femminile; secoli di negazione di un’assenza -sofferta o di un mondo sommerso che oggi si rivela nella sua libertà di viva ed autonoma espressione (di forme di vita e di vita )come una costellazione di pluralità maschili(omo), femminili(lesbo) ma anche di fluidità d’orientamento affettivo e sessuale(lgbtqi). Dall’ultimo nostro convivio sulle trans-educazioni emerge che a contrastare un’educazione aperta nelle scuole di educazione alla sessualità e all’affettività compresa nella sua pluralità divergente, i “i tradizionalisti no gender” per fare leva contro queste nuove educazioni alla conoscenza e ad un’affettività e sessualità consapevole non mobilitano solo le fasce tradizionaliste dei genitori ed educatori, ma si avvalgono anche di un ‘complice silenzio”, di chi concepisce la sessualità in termini puramente d’emancipazione sessuale binaria economica e giuridica, e non come processo di liberazione dal patriarcato e dal sessismo eterosessuale ben denunciato-praticato-espresso dai movimenti femministi o da altre filosofie o politiche critiche del binarismo sessuale ( l’unico binarismo concepibile è quello informatico). Per questo è importante agire sulle aree adulte progressiste per sottrarli alla passiva complicità con i negazionisti-tradizionalisti che negano,occultano e mistificano l’esistenza di singolari e plurime forme di vita con cui s’esprime la sessualità e l’affettività umana.
Trans-ecologie intendendo con essa le varie ecologie che non possono riguardare solo gli aspetti della sostenibilità seppur importante di fronte ai nuovi cambiamenti climatici,ma anche le altre ecologie umane,culturali , sociali e mentali (vari mondi di vita in cui siamo immersi e che determinano il nostro comune ben-essere trans-individuale).
Le relazioni umane in questa nostra visione trans-individuale si danno come non violente,empatiche e critiche non solo contro riproposti autoritarismi, sessismi, razzismi, classismi e militarismi, ma anche contro residuali istituzioni totali e pratiche coatte biologiche-psichiatriche (pubbliche e private)e loro strumentazioni coatte quali il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) che sono vere e proprie forme di tortura e di pratica distruttiva verso le persone che ne subiscono l’atto o gli atti.
Nostra pratica utopica e concreta consiste nel rilanciare la cooperazione amicale culturale, educativa, politica, sociale,economica ecc. come attività costituente del Comune e delle relazioni aperte ed sintonia con i molteplici mondi di vita per contrastare la frammentazione sociale e culturale, il diffondersi della competizione e dell’inimicizia, dell’odio contro le persone e le comunità di prossimità o di lontananza,che non sono altro che arcaiche modalità violente, narcisiste, predatorie del Comune esistenziale e sociale BEN-ESSERE .
Pino de March ricercatore ed
accordatore delle attività della comune ricerc-azione e cooperazione politica e
culturale di comunimappe
COMUNIMAPPE- LA LIBERA COMUNE UNIVERSITA’ PLURIVERSITA’ BOLOGNIPER UNA COMUNE RICERC-AZIONE verso una nuova cooperazione educativa critica, divergente, diffusa,laica, multidimensionale e pubblica.
PROMUOVE
SIMPOSIO SULLE
TRANS-EDUCAZIONI
IL
BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..
A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA
SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …
CI
SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e
ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)
DOMENICA 19
MAGGIO 2019
ALLA ZONA
ORTIVA
VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per
arrivare:scendere alla fermata autobus 11
c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi,
in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo
punto da lì girate a dx, e dopo aver passato sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il
campo Sinto ci siete …)
INIZIAMO ALLE ORE
10
ALLE 13 PAUSA
PRANZO COMUNE
ALLE 14 RIPRESA
ATTIVITA’ FINO ALLE 16
ACCORDA: PINO
DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
RESPONDENS
(INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO
RELAZIONI:
1 – EUROPEIZZAZIONE EDUCATIVA AL NEO-LIBERISMO – ALESSANDRO PALMI, DOCENTE–CESP-COBAS
2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA
SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI
E VALENTINA MILLOTTI DOCENTE E
RICERCATRICE –CESP-COBAS
4 – ESPERIENZE
DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI –
DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA
5 – LA TRASAVANGUARDIA
NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE
6– EDUCARE ALLE
DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA
TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA – NELLE
SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA,
FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE
7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE DI FILOSOFIA
8 – TRANS-SAPERI:
STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI –
RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO
DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE,
RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
CONVIVIO O UN SIMPOSIO SU TRANS-EDUCAZIONI
(TRANS) COME MOVIMENTO D’OLTREPASSAMENTO
AD UN’EDUCAZIONE APERTA,DIFFUSA E MULTIDIMENSIONALE,
AD NUOVA COOPERAZIONE E RICERCA EDUCATIVA NON MERCANTILE E NON
COMPETIZIONALE (RIDOTTA A COMPETIZIONE E COMPETENZE),
AD UN’ EDUCAZIONE DI GENERE NON BINARIA
ED INFINE AD UNA FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA E DELL’EDUCAZIONE NON
DUALISTA.
UN CONVIVIO OD UN SIMPOSIO PER RICREARE UNA DIMENISIONE INFORMALE MA
SOPRATTUTTO NELLA CONVIVIALITA’ MANIFESTARE ESPRESSIONI E PENSIERI INCARNATI
NELL’ESPERIENZA E NELLE RELAZIONI.
Trans-educazioni
Trans prefisso che indica un variegato movimento
di trans-formazione in cammino verso molteplici
forme di vita e d’educazioni autonome, erotiche, divergenti, critiche e
responsabili e sostenuto da un’immaginale poetico – inteso come – Terzo Paradiso – così come viene
concepito dall’artista Michelangelo Pistoletto.
“la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”.
TRANS-EDUCAZIONE
Con questo convivio
trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin
qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche
delle competenze (saper fare ‘performativo
e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper
essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere
performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle
cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista,
umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue
ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali,
e trans-femministi e di ritrovati limiti
e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione
del vivente tutto (trans-umani).
Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:
– un saper-essere (soggetto
attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico,e non soggetto-oggetto, assoggettato,
inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),
un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti
eco-sociali)
ove emerge il primato
delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato (per parafrasare Simondon nella sua complessa
esplicazione della trans-individualità),
che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra
pari, e pensieri incarnati.
Il prefisso trans-indica in
primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni
ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani),
binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili
(infatti
‘nell’uomo ad una dimensione’ il filosofo
H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto
il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e
la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni,
relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.
-e secolari
dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana
smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal
neuroscienziato portoghese Damasio ),
il binarismo sessuale (maschile-femminile,
ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).
Un verso poetico-musicale
in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non
esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra
mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze
naturali e scienze umane ecc.).
Attivarsi in maniera
trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e
tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)
Nel
2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il
simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito.
Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura
e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il
grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto
distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.
“nel primo paradiso, gli esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi, chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple, ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel 2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità. Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it )
Tommaso
Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha
dato della poesia una celebre definizione: “la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata,
tra gli altri da Montale.
QUALE TRANS-EDUCAZIONE
APERTA, CRITICA,LAICA E PUBBLICA
POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni
del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere
attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)
e non il passivo dimorare
e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’
(prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse,
ammutolite e omologate istituzione educative europee?
GLI
INCANTESIMI NEO-LIBERISTI
“L’economia è
il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret
Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)
Di Altre Trans-educazioni
abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione
multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana,
trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar
–organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.
E che
sappia denunciare e invertire al tendenza
nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare
e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad
un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta
le conoscenze.
Un
trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non
solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione
letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di
unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava
criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);
tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato
all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione
umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.
IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE COMPETIZIONALE LIBERISTA-MERCANTILE DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA
ED ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE E
ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI INTELLIGENTI E COMPLESSI RENDENDOLI
OGGETTI COMPARABILI AD ALTRE
RISORSE ) ,CHE GENERA PLUS-VALORE
(K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE
MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE INQUIETUDINE ESISTENZIALE ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE IN UN CONTESTO DI MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE
GLI ALGORITMI DELLE PIATTAFORME DOMINATI
OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE
RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE
GENERAZIONI).
MATERIALI
TRANS-EDUCAZIONE PER
PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E
Di fronte ad una visione
impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone
per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al
centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere
l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].
Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte
limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza
viva e differente del
tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge
sull’inedito significa
slargare lo spazio dell’esperire.
Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad
inabissarsi, la vita della
mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si
tratta per questo
di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare,
affinché non sia solo
ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia,
l’obbedire alla necessità
di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare
in una diminuzione
di essere, perché può accadere di moderare le domande di
senso, di cercare
poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla
della necessità
Saggi 57
Conosce re se stessi per ave r cura di sé
di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che
sempre sono (Platone,
La repubblica, 518c); si può
ridefinire il senso di questo rigirare radicale per
intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione
di accettare il
già detto e quel poco che si rende accessibile, per
arrischiare l’inedito e l’ulteriore
rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come
l’arte (Platone,
La repubblica, 518d) del tornare a
stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,
nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di
senso che guidano
la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.
Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima
vada iniziata a
partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti
quei «pesi di piombo»
che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte
quelle cattive abitudini
che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,
519a-)
Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello
Cortina-2019
MEDITAZIONI
SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA
«Se pensi che l’istruzione sia costosa,
prova con l’ignoranza»
Queste parole non sono
state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore
dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel
libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco
per Guanda.
Quest’espressione amara, ironica e di protesta è
ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranza’ nelle piazze
tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi
dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la
regressione che stavamo attraversando.
Però non per riaffermare la visione elitaria e
classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa
prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce
in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni
sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”
“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni
casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la
conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza
competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe
cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine
la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere
umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non
diretti.
Date le caratteristiche della conoscenza, come si
distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in
base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni
degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile,
all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante; gli esseri conoscenti avranno invece
bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati
scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui conoscenza sia stata per varie ragioni
negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e
alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è
anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un
genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e
segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno
conosce. ‘Conoscere porta sì
travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota
per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a
problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò
nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie
felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud
Però come
intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci
nulla:
CHI HA PAURA NON PUÒ
EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.
Non abbiamo assistito
passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli
ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati
(sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via
blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista,
amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita
neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in
tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi
Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da
Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e
dell’edonismo reganiano;
queste vuote ed inondanti
narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo
sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in zone temporaneamente autonome antagoniste, di
punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o
‘libere’.
Ai canali mainstream
della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche
‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a
partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione
culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via
d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche
‘delle competenze’ e e di
condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una
prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari,
e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla
realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi
produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o
economia dei servizi e della conoscenza).
Le scuola e le università che si erano
auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da
ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o
le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e
tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove
generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini
d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali;
sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di
gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università
d’orizzonti ristretti e funzionali
alla
produzione
del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.
Nessun interesse o
passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei
neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero
e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia
naturali che umane;
la mancanza d’attenzione
alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e
sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie
digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro
vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel
benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella
precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e
per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare
affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico
pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.
Chi ha paura non può
educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una
«buona scuola» (il riferimento è alla successiva riforma del governo Renzi, ndr.) che viene
sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento
preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo
sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio
educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della
produttività economica.
neoliberismoIndirizzo di pensiero economico che, in nome delle
riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali
violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche
all’ombra del laissez
faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva
libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà
politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L.
von Mises e il francese J.-L.
Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera
concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato,
ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in
costrizione.
Dizionario – Trecani
capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità
professionali e relazionali possedute in genere
dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica,
ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di
lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate
dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente,
le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione
erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e
a qualificarla, influenzandone i risultati.
Capitale umano come patrimonio
dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte
di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri
dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una
utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e
competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce
anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di
un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli
individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato
come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento
delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione)
degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una
particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli
investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i
redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati
all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta
tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà,
di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo
dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite
compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece
oggetto di scambio sul mercato.
Evoluzione del concetto di capitale
umano. Sebbene indicato con termini diversi,
il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a
partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole
attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G.
Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del
comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica.
Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte
dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli
argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra
crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di
addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo
così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito
dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua
soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi
principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata
risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata
alle esigenze di un Paese a economia avanzata.
TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA
Pensare ed abitare –l’Europa
partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire
pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di
molteplici luoghi e pensieri.
“Ci si è domandati spesso, fin da quando il
modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo
e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea
comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la
strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla
riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse
quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che
da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani-
i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed.
Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in
questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il
vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e
delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto
di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei
razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole
provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che
l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la
discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia
davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove
c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a
sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di
filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere
come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio
inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come
quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un
circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.
……
Altrettanto abbagliante,
e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di
ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e
lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….
…..
O ancora nel misero
bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un
paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani,
vapori neri e mefitici.
….
E ciò che traspare qui è
qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un
modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e
politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non
può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio
agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di questa comunanza di vita ed ideale, oltre che
alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri –
luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi
deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili
stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.
Trans-educazione
bio-politica
‘La conoscenza è un po’
come la libertà, un valore positivo per eccellenza.
L’abbiamo sentito evocare
nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista
pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto
all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di
Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a
ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando
il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna
possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti
Il trans-individuale in
Simondon
G. Simondon è stato un
filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli
anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta
principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e
politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario
intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di
G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert
Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice
bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli
anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e
altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce
ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua
tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta
a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon
divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione
alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse
soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee
transindividualel
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO
Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità
della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi
alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma
anche intravvede la soglia( di relazione).
.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di
plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare
una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto
tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare
o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di
ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione
attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma,
luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma
meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico
o infinitamente complesso e diverso.
Trans-individuale
Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può
aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine
metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a
posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di
tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso
delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica
separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa
(il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore
scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave
incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la
corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta
sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi
quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine.
Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene
scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del
ragionare-deecidere, per non rimanere in
quello stallo di paralisi d’indecisione
narrato in un racconto zen, di un millepiedi
che non sapendosi decidersi con
quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.
Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione
dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma
(idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune
discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al
cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono
strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…
Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo
dell’individuazione psichica e di quella collettiva.
Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della
società rispetto all’individuo.
E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per
comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo,
trans-.culture, trans-umano ecc
Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui
Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione
di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di
tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica
occidentale:
la tesi del processo
d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui
termini della relazione.
Nell’individuazione
psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi
d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico
all’individuo già costituito.
Sia la tradizione sostanzialista
(sostanzialista agg. e s. m. e f.
[der. di sostanziale]
(pl. m. -i). –
Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina,
o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente
sostanziale, oltre ogni apparenza).
()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo
(o ilomorfismo)
s. m. [comp. del gr. ὕλη
«materia» e μορϕή
«forma»]. – Nel linguaggio filos., la
dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una
composizione ontologica di materia e forma).
Sia la dottrina
sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra
loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio
d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di
spiegarla,provocarla e dirigerla.
principio d’individuazione,
criterio o elemento
della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua
unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale
all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come
ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie.
È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande
problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio
ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in
volta interessati.
L’individuo vivente per
Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un sistema che si individua.
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
Tesi sostenute da
Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e
relazionismo.
Il
problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione
tra
materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana
dell’intenzionalità,
e
tale operazione può essere condotta se si approfondisce
lo
spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica
definitoria
dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico
questo
programma è stato delineato da Francisco
Varela
sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di
Maurice
Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa
in
modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in
termini
di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a
Humberto
Maturana, Varela
ha proposto una concezione della natura
in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente
sistemi
biologici capaci di comportamenti cognitivi in
quanto capaci di auto-
riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione
dell’esperienza
propria della metafisica di Whitehead può essere più
proficuamente
esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità
può cioè essere affrontata a partire da una revisione della
nozione di
natura che consenta di
superare il dualismo cartesiano di brentano
senza tornare a una prospettiva spiritualistica
relativamente alla
mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di
indagare
la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che
significa
che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un
problema
squisitamente ontologico.
La relazione non è mai tra
due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla
relazione.
…
Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione
dell’essere e relazione del modo di essere.
Non già mero rapporto tra due termini
che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili
adeguatamente per mezzo dei concetti.
Questa nuova logica non è più
fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto
individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.
Il trans-individuale non è altro che la
categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del
sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra
di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.
La società –scrive Simondon non è il
prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una
realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente
da essi.
La società è l’operazione, è condizione
operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia
la presenza dell’essere individuale isolato.
Un modello di relazione esso stesso
senza centro (complesso e stratificato).
Simondon conclude che non vi è qualcosa
di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare
situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.
Idividuazione attraverso
la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o
concetto ad un altro.
La metastabilità
Simondon ricorre alla
fisica per comprendere quella situazione
che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè
metastabile.
La metastabilità è la
caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso,
diverso
Manifesto dell’educazione diffusa
“Mai più aule tra i muri e
studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”
(La Città educante. Manifesto della
educazione diffusa, Asterios)
L’educazione diffusa è
un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di
rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società
che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e
formativo.
La scuola dove ridursi a una
base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi
aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze
delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi
e bambini stessi.
All’apprendimento chiuso e
iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà
si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze
concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma
educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di
interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I
ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo
emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e
a interrogarsi.
È un atto politico portare
questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di
vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e
il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.
L’educazione diffusa pone al
centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i
sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.
L’educazione diffusa ribalta
l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il
corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento
duraturo.
L’educazione diffusa libera i
bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia
scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i
luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per
offrire il proprio contributo alla società.
L’educazione diffusa è un
reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più
giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano,
danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da
tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.
L’educazione diffusa sradica la
malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali
correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali
solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter
stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e
correggibile
L’educazione diffusa vede gli
insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane,
sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non
nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi
avvizziscono.
L’educazione diffusa chiama
tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi
più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della
sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e
imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.
L’educazione diffusa trasforma
il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di
cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni
logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno
monetario.
Nell’educazione diffusa si
assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile,
finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini
e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti
portatori di un’inconfondibile identità planetaria.
Per iniziare a sperimentare
l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti
appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano
voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere
riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.
Con l’educazione diffusa ognuno
viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di
unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve
fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed
impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità
scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove
l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico,
familiare, religioso, aziendale).
Il Manifesto tradotto in
ucraino (presto la versione in altre lingue)
Azioni di
educazione diffusa
Costruire la rete di Educazione Diffusa e
Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete
può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato
di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe,
mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e
cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali e culturali, professionisti, singoli
cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di
attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le
Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di
istruzione).
Avviare incontri di auto-formazione tra
scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio
circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della
educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione
che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.
Elaborare, come gruppo di supporto della
sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi
individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri,
biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando
l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli
enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate
alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e
costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della
città in educanti.
Avviare la sperimentazione includendo anche
una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad
abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale
orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con
associazioni di genitori e realtà sociali locali.
Monitorare il percorso sperimentale
attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali,
regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le
azioni di educazione diffusa.
Stimolare e promuovere politiche
dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni
settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali,
sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a
definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.
Dedicare parte dei percorsi di educazione
diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di
dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed
ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli
individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo
all’interno della comunità educante.
Realizzare passeggiate cognitive alla
scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi
dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a
prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e
bambine, ragazzi e ragazze.
Strutturare in dettaglio i processi di
partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi
di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei
loro quesiti desiderosi di risposte.
Documentare il percorso con tutti gli
strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi
in modo che siano consultabili da altre scuole e città.
Appunti per un Progetto di
educazione diffusa
Primi firmatari:
Paolo Mottana, Giuseppe
Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi
Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati,
redazione di Comune
MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da
comune-info
Per aderire al Manifesto scrivete
nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net
Condividendone sperimentazione
desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività
tale matifesto e proposta
Pino de March x
comunimappe
trans-umanesimo
Il
significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo
sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In
New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva
coniato il termine già nel 1949[1].
Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane
umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua
natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di
emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il
compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]
Il
filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi
capitale del XIX sec., sostiene che ‘la
macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della
visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.
Tecnica
che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di
quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto
stesso della sua stessa mani-polazione, che
da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile
l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al
vivente).
Queste
considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non
vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè
di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di
quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina
tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno
umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola
cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in
movimento-in fotogrammi distinti- a
detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan,
che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la
nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo
in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più
dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione che ci richiede meno partecipazione-elaborazione
-di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che
operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che
cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci
richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.
Media caldi e media freddi
Una
ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal
concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo
studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media
freddi.
Come
molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di
polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il
concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un
media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media
“caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una
grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che
richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.
Ma
da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari
passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due
elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero
di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di
definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.
Un
medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con
messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione
fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non
richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante
la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di
un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado
di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan
media caldi.
Al
contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando
però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano
spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa
con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore
proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista
sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al
telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV
è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e
funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo
stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non
può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».
Insomma,
anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza
come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal
tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi
percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra
esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di
McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha
riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:
«Sono
“freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della
superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia
consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben
proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere,
tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi”
invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese
di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di
sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a
scapito di altre».
Da
mediamente.rai.it
postumano
(post-umano),
s. m. e agg. Progressiva
alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a
perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive
[George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che
ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza
artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza
estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta
avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse
preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera,
6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il
post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e
inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della
natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò
post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004,
p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere
umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da
fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero
sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo
ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per
definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle
posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la
seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli
estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo
dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle
possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e
dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo
biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del
Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p.
7).
Derivato
dall’agg. umano con
l’aggiunta del prefisso post-.
Già
attestato nel Corriere
della sera
del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).
TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE
CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE
VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE
L’avvento della meritocrazia
“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il
profetico libro – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea
l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni
governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla
ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe
dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e
socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le
classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro
saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente – ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi
come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si
rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel
manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società
senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di
valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza
e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per
la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro
amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni
essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla
luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari
capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto
daMichael Young – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)
‘ Non
esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o
private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne
poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi ,
nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la
mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.
Certamente in una società che premia il demerito appare
del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può
non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le
attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa,
il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è
palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito,
poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo
la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili
i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il
merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi
parametri: tempi in cui si
verifica spazio in cui avviene
contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole. Il merito è una
variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in
senso assoluto) è impossibile.
La meritocrazia è di conseguenza
impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e
costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la
negazione del merito stesso. Tratto da – il feticcio della
Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.
Eppure la
Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti
coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.
Un altro mantra è la valutazione. Valutare vuole
dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel
mercato a qualcosa.
Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza,
autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto
richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di
scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso
di moneta). La valutazione è l’atto
effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di
sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o
stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente
strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)
Come ben sottolinea Angélique del Rey in
questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018),
la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea
del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica
dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la
performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene
discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce
all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la
valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla
loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del
Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito,
sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio
presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in
cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più,
chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio,
così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia,
senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno.
L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre,
comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’,
nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale
umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo
nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad
aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica
bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal
saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità).
Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità
d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi
tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente
finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo
questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’
(Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento
2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle
esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della
performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura
solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa
adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno
all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.
L’esito è il riconoscersi come soggetti
–(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM
di cartesiana memoria.
Insomma, l’idea dominante è che ogni
individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto
che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.
…..
DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA
FORMAZIONE OBBLIGATORIA
Un esempio significativo di tutto questo lo
possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di
trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici
è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido
soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in
contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di
adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).
Abbiamo
ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a
quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.
DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE
ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE
Ecco perché
in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre
adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio
dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici
dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i
lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare
a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive
dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).
Il futuro del lavoratore (fin da studente)
deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e
soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).
LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE
La pedagogia delle competenze, così come è
delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del
Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del
globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il
sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo
ecc.
Il Consiglio d’Unione Europea adotta una
nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente
(22 maggio 2018)
OTTO COMPETENZE CHIAVE
COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E
TECNOLOGIA
COMPETENZA DIGITALE
IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle
attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare,
utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato
compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i
problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare
rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con
flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera
anche in relazione alle proprie risorse.)
CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI
VALUTATIVI
Tutto ciò si imposto se che governi
nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di
condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che
questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo
movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base
dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e
aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione
dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto
irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di
allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.
Si è così imposta una valutazione che
poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata
e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto
quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie
e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International
Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno
trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e
non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.
Questi sistemi pretendono di misurare ciò
che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una
qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre
concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.
Pertanto non può essere misurata
quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di
fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque
definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti.
Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle
conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle
esperienze pratiche.
Ma dalla fine del XX secolo, questo buon
senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine
‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma
rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze
(qualunque esse siano).
Ciò che caratterizza l’approccio a queste
nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi
educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione.
Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o
comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente
possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro,
per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità
valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si
ritiene tale.
Quindi non solo condizionano le modalità
d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e
rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria
e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza
considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia,
s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello
stile e nei tempi del suo apprendimento.
QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO
L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de
l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi,
abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai
divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà
spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione
dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si
basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la
proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.
La
filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e
plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza
qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la
fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )
La valutazione per competenza si propone di
‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale.
Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la
nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua
riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa
riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique
del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve
performant, La Decouverte, Paris 2013. )
TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE
DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE?
OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.
MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI,
PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO
CHE ALLA COMPETIZIONE.
Ciò che va dunque respinto è quel
dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale
funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato
del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato
sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per
bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)
CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE
DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ,
L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA
CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.
ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO
PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL
PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.
In questo ambito si recupera tutta una tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La valutazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.
Questo testo sopra riportato con alcune mie
note per una riflessione e critica
comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la
tirannia della valutazione, edizione Eleutera.
MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE
Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska
Emi Koyama.
Ultima edizione, 26 Luglio 2001
Testo originale qui. Illustrazione per gentile
concessione di Florent Manelli.
Introduzione
La seconda metà del ventesimo secolo è stata
testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano,
grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo
di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale,
rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno
del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi
di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto
come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più
consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra
debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione
temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive
dell’alleanza.
Ogni volta che alcune donne (precedentemente
ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a
riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali
lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione
dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe,
esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre
prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che
è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista,
espandendo ulteriormente la portata del movimento.
“Trans” è spesso utilizzato come un termine
inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere,
accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e
l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo
manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per
descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno
come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è
l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro
che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che
alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione
metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla
dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in
maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in
comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in
qualche modo utile per le loro lotte.
Il transfemminismo è prima di tutto un
movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria
liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne,
e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer,
intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a
tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e
che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della
loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un
contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia
imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a
fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.
Il transfemminismo non è un tentativo di
impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il
campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e
attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per
la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di
battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche
dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si
sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si
prenderà la briga di farlo.
Principi fondamentali
I principi fondamentali del transfemminismo
sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto
di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti.
Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza
timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto
esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità
politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro
la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi
facciamo.
Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle
dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere
istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o
espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel
contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in
particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la
tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate
dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna
e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria
femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute
come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica
è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega
l’unicità di ogni donna.
Il transfemminismo ritiene che nessun* debba
sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria
identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo.
Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni
personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans,
abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a
“passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover
negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i
nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese
le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i
comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali
comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è
responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la
definizione patriarcale della femminilità.
Le donne non dovrebbero essere accusate di
rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste
scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di
purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come
unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno,
dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti
modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di
prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il
transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono
o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di
incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario –
al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria
libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe,
poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto
patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente
modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di
un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre
al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a
loro disposizione.
La questione del privilegio maschile
Alcune femministe, specialmente le cosiddette
femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere
del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF
(N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una
transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque
beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM
(N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare
una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno
abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio
maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state
usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans
all’interno di alcuni ambienti femministi.
Di fronte a questa argomentazione, la prima
reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia
privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di
essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per
loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i
propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per
esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare
da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state
ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente”
maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di
depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed
esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni
famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.
Tuttavia, come transfemministe dobbiamo
rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio
maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare
che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai
beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate
da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e
hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro,
indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini.
Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans
mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la
transizione.
Questo dimostra che spesso confondiamo
l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del
binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare
che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia
maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il
risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi
derivanti dall’essere trans.
Chiunque abbia un’identità di genere e/o
un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso
assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo
privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per
tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono
intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans
può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha
fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo
subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto
di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più
privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che
le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali
perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.
Spesso nascono tensioni quando le donne trans
tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri
dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta
risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior
parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la
più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro
ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo.
Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più
di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di
sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla
classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans.
Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come
l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da
parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio
privilegio di donne bianche e di classe media.
A partire da questa consapevolezza, le
transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile
negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono
avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre –
nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero
affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede
nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che
accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne
provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si
aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio
privilegio di donne non-trans.
Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi,
come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di
donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla
scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano
degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è
nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.
Decostruire l’essenzialismo inverso
Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia
diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e
sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato
indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione
del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad
abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere
in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla
naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.
Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono
strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è
costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di
genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente
nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato
comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture
discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la
realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più
artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.
La costruzione sociale del sesso biologico è
più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone
intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche
che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker
genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico
del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri
sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o
femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza
di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in
quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici
professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di
solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se
stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni”
chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire
la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia
nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che
nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale
de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola
immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione
non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità
di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva
possibilità di scegliere sul proprio corpo.
Le persone trans sono scontente del sesso che
viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente
semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si
identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato
dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si
identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due.
La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a
prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo
considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e
politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente
assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).
Dal momento che le persone trans cominciano ad
organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista
di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui
essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o
viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione
pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di
un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche
spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto
radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a
queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.
Le persone trans sono spesso state descritte
come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente
o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo
stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona
abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono
menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea
che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle
donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso
quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.
Il transfemminismo sostiene che la propria
identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino,
coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci
relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale
sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla
nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e
rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di
questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso
l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista
secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.
Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista
Noi, in quanto femministe, affermiamo di
sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però,
questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.
Per molte transfemministe, la questione
dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui il nostro bisogno di benessere e sicurezza si
scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio
e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere
nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi
chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità
di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e
possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie
complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.
Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a
procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che
sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia
innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e
politici influenzino le nostre decisioni personali.
Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo
sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono
costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a
questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una
persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la
società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il
genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il
bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere
conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe
del tutto.
Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe
essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri
corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e
alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa
quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il
transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le
quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in
ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di
noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.
Non è contraddittorio lottare contro
l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al
contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per
sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi
tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo sostenere la decisione altrui di modificare
il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari
assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di
noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti
oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli.
La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema
normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi,
l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano
tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.
Violenza contro le donne
Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni
’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi
isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere
soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto
che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici
oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne
che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis,
indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i
cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).
In primo luogo, le donne trans sono prese di
mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è
pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili
quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un
uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire
che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta
ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla
transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di
uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans,
come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico
dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che
lavora come prostituta.
Le donne trans sono anche più vulnerabili agli
abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa
autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un
molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e
pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera
società l’ha sottoposta nel corso degli
anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle
donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze,
aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto
per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri
abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in
caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio
partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.
Inoltre, le donne trans sono prese di mire per
il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone
gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans
sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I
terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono
per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non
corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è
visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o
donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte
persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più
persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans
vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una
società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli
socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da
estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una
combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver
violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.
A causa della situazione di pericolo in cui
viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone
transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare.
Possiamo essere ferit* e restare delus*
dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci
entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente
o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente.
In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia
per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di
prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso
di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri
esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi
esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo
sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è
dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso
più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.
Come transfemministe, non dovremmo richiedere
soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere
noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a
punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza
mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come
consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne
trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di
formazione specifici per il personale.
Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi
di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle
nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da
zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per
l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta
coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze
sessuali.
Dobbiamo anche affrontare il problema della
violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà
perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le
discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno
un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della
transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno
più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo
crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico
quanto sociale e politico.
Salute e scelte riproduttive
Può sembrare ironico che le donne trans, le
quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i
diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione
profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a
scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è
in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le
operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più
spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi
di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a
operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e
vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale
isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù
sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le
donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio
comune, un campo di battaglia.
Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne
trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne
non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione
d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans,
condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la
disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans
devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano
a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il
controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda
soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la
resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne
meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto
a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le
persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di
identità personale.
Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero
cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché
considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è
esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome
riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa
vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle
organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di
scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla
gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta
degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano
coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere
gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di
riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che
temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.
Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare
dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di
salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è
nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione
collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente.
Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far
fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute,
il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere
prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans.
Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute
delle donne ed espanderlo.
Richiamare le analogie con il movimento per la
salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione
dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di
loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo
dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni
trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la
patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi
di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e
nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla
medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo
standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la
patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni,
gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha
costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni
esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità
non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro
dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi
contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia
reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo
dell’identità di genere”.
È ora di agire
Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più
del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro
che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe,
lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile
discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella
categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.
Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni,
aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne,
l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le
donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo
le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo
bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come
transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate
femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.
Il transfemminismo è convinto che una società
che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta
equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene
vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con
questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità
reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva,
ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte
di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si
tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini
auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno
ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una
visione del mondo più inclusiva.
Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo
Ho scritto il Manifesto Transfemminista
nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a
Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a
esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di
essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto
che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti
anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo
conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come
attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una
teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse
radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.
Tuttavia, questo manifesto presenta dei
problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho
fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori,
ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza
riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano
questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi, di più ampia portata, sono:
– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone
trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come
transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con
un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria
maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno
spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto
che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le
persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno
incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al
tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il
focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo
avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi,
come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli
uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso
ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese
delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.
– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il
manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e
oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si
intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa
riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne
bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le
donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho
esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo
scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre
femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria
femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc.
che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo
manifesto è incompleto.
Sebbene si tratti di critiche molto diverse
tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano
occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni
donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il
classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la
battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli
uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è
visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne
svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa
all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni
razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi
sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a
sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho
ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È
stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre
potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità,
che ho potuto liberarmi da questo timore.
Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per
affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la
sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad
altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.
Bonus: femminismo razzista alla National
Women’s Studies Association
Emi Koyama
28 giugno 2008
A marzo mi è stato chiesto di intervenire al
“tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle
opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi
sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata
scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e
nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche
Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California
College of the Arts).
Sono entrata per la prima volta in contatto
con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di
college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi
articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune
riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la
maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed
eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile
identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse.
Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo
conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo
in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.
Verso la fine del semestre una settimana venne
dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di
colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo;
nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire,
in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella
bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana,
evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This
Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo,
uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi
erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in
connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che
prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana,
su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di
concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi
articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s
Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider,
non so se oggi sarei una femminista.
Eppure una settimana non è stata sufficiente
per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando
mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano
ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste,
causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e
di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno
un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore
la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a
responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.
Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a
Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita
adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una
donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere
alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza
domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia
complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito
al progetto.
Eppure mano a mano che conoscevo Diana,
scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al
contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da
incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi
aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call
Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana
era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta
dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito
una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così
le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione
chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però
un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di
alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce
che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse
denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.
Proprio in reazione a questo clima generale
scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia
Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory
Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come
la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le
donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle
preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che
contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così
diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista
(o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire
delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans
potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano
contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia
stato un successo.
Tuttavia, il Manifesto presentava degli
aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali
e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e
delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come
“donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche
di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni
transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo –
inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si
ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni
— come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne
transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo
presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa
che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come
l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme
di oppressione.
Il fatto è che, quando scrissi questo saggio,
mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora
completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che
riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies.
Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in
discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i
diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella
che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che
bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo
sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione
delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li
passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la
giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza
necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le
famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi
silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.
L’invito a parlare durante il panel istituito
per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s
Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla
conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza.
Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà
coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un
contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo
per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e
chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo
nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la
quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di
più”.
Cominciai a parlarne con alcune componenti del
Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da
portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica.
Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra
attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia
sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della
indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.
Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a
quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno,
gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro
senza nessuna contestazione. Decisi di fare qualcosa di diverso: scrissi alla
WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di
iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla
NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io
potessi partecipare alla conferenza.
In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di
offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla
direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più
accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la
co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del
Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la
situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò
alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una
camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata
disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose
femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e
avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA
solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora
a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).
Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la
maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute
panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde,
quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente
leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che
scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo
riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia
posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto
fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di
Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum
tradiva la sua eredità.
Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata
ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a
condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non
era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi
delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa
se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla
conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente
illegittimo.
Audre stessa affrontò circostanze simili nel
1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda
conferenza sul sesso, tenutasi alla New
York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse
rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe
commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle
donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo
significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e
delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non
smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto
famoso quanto poco compreso.
Quando Audre parlava degli “strumenti del
padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche,
etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne
in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a
cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non
solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli
organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si
aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che
molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e
omofobico prosperi.
In un altro testo, anche questo parte di
Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo
alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho
dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte
della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di
parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e
delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se
ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha
coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se
inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.
Nel corso dell’assemblea delle delegate il
giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice
esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il
che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la
conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che
l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio
conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella
stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un
capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di
alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore
della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché
un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di
tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata
vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.
TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI
FLUSSI
Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un
terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo
paradiso rappresentato da Pisotoletto
Dalle relazioni tra
partecipate differenze (sottostanti
duali)della Candiotto alle
molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)
Un modo nuovo per intendere la
“dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo
e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a
pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un
monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma
di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è
cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.
Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.
Studiosa di Platone e
dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia
contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico
socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di
Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in
unive.academia.edu/LauraCandiotto
Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto,
Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé,
Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca
Vasiliu, Mario Vegetti.
Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS
‘Per superare il dualismo è necessario
“aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos
matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione
degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso
riprende il ruolo dello thymos,
a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto
dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento.
Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia
platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo
sforzo di Platone di comporre il dualismi.
Sulla
centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del
dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di
relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo
luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe
nza
dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e
sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico
tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine
il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene”
e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di
mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è
pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta
proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza
dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo
tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare
nella separatezza.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed
epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito
metafisico contemporaneo.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di
illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa
anche per il dibattito metafisico contemporaneo-
— in modo da conservare solo il
sostantivo “molteplicità”
Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.
La
magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e
“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo
“molteplicità” … Tale
operazione
rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte
del
dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno
del
dualismo
è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché
oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono
divisibili.
Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo
come
aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.
Così
che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il
sostantivo
“molteplicità”,
nella forma: non c’è niente che sia uno,
niente che sia multiplo, tutto è
molteplicità. In questo momento, si vede bene la
forte identità di monismo e
pluralismo
nella forma di un processo di immanenza che non può essere né
interessato
– ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né
esasperato.
Il processo di immanenza è anch’esso,
cioè, una molteplicità che designa
un campo di immanenza popolato da una
molteplicità.
Penso
a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana
storia, in
fondo
siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso –
il
lettore
è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non
è
ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero
occidentale
non funziona più intensamente; la differenza è altrove.
Ciò
che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente
differente:
non
è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da
nessun
piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di
un
impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa
che
esso
non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale,
ossia
come
emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come
estrarre
la
sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere
o
orgasmo,
questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la
sua
esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza
dubbio,
occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di
sospensione
come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.
Hanno
una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso
modo:
l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché
è
esauribile.
Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia
femminile
inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può
succedere?
I
flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il
flusso
femminile,
seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso
maschile,
lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio
nella
sua immanenza come processo.
Si prende in prestito un flusso, si assorbe un
flusso, si definisce un puro campo di immanenza del
desiderio, in relazione a cui
piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni
reali o interruzioni.
Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del
desiderio, ma al contrario
un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio
dalla sua stessa immanenza,
dalla sua proprio produttività.
Tutto
ciò ci interessa nella misura in cui, in tale
pensiero,
il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col
piacere,
l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un
flusso,
esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa
una
molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in
soggetto
d’enunciato
e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra
macchina
girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il
soggetto
del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del
piacere
e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.
Ciò
vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del
cogito
non è solo metafisica.
L’intera
storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel
correlare
il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del
godimento,
e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto
dell’enunciato.
E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i
lacaniani,
ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e
retroattivamente
diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto
d’enunciato.
Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il
desiderio
al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il
desiderio
al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla
mancanza
o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste
perfettamente
questa corrotta teoria del desiderio,
parola per parola.
È
in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena
apprensione
dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del
proprio
campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo
popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un
campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.
TRANS-POETICA
La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini
Nota di Lucio Marini
Tra i libri di poesie
“civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più
significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la
straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in
questa raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e
dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e
di ruolo, del poeta. E si indica in
questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota
a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche
principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera. Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e
dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce,
credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere
di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio). Peraltro, anche nella nota sopra citata, si
conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è
indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così
dire, verso la prosa. Ma non ci viene
però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un
grande libro di poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le
avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è
il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che
viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad
esprimerla. Ne Le ceneri di Gramsci o
L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la
tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte
dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno
civile. Il verso dunque, pur lontano dal
formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché
evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia
artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse.
Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini
(espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos,
1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione
e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione. E per far questo egli abbandona, nella
poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso
fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue
ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte
quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa. Che cos’è il verso, infatti, se non
convenzione? qualcosa che si è
sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili
trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia? E se il verso è convenzione, cosa impedisce
al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra
nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del
calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della
poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo
statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla
a un ruolo mimetico della realtà). La
poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si
impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non
può essere costretta dentro un canone.
La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua
verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione. Ed è in questo luogo soltanto che è possibile
riscattarsi dalla massificazione. Siamo
quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il
sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo
senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema
stesso. Anche qui, dunque, siamo dentro
una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo
massificante. Ed è qui che viene messa a
nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello
stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche. Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo
contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le
mistificazione dell’umano troppo umano.
E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande
poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci? quel gusto di sondare i nodi più profondi e
più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da
Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica? Pasolini non fa altro che riscrivere quelle
tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando
la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la
banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte. Se infatti lo spirito della grecità e quello
di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della
convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel
verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale,
unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di
senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante,
sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo. Mentre la poesia greca costruisce la
tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione
anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta
nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da
dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno
strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o
un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).
E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli
rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa
(ma quale poesia?). Egli stesso infatti
dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la
vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di
consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto,
come respirare). L’utilità ne sancirebbe
dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un
sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar
non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime
la sua crisi poetica. E’ invece un
libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual
“grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non
poteva essere scritto in altro modo che in quello. Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito
se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere,
senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che
“poesia” e “identità” sono la stessa cosa.
Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia
come la scrisse in precedenza. Troverei
infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse
potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con
metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi
di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una
farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.
Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le
molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non
più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie,
sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose). Le poesie della raccolta infatti sono
scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971. In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato,
e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene,
anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un
cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato”
in riferimento a qualche massimo sistema).
Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato
dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma
si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a
nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per
poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del
PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi
capire. Pasolini si difende
dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo
tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del
poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i
fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del
filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi). Ed in questo ruolo di artista-critico o
artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua
identità. Non dunque l’artista che
sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange,
ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo. Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a
parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass
media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court
a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente
attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di
quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che
lo sente da poeta. La poesia di
Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare
poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò
che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di
trombone. Trasumanar è prima di tutto un libro appassionato, che
in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze
del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti,
ecc. Per questo riesce ad essere un
libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente
tradizionale della poesia) la prosa. In
questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un
altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo
che l’artista ci propone.
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il
“tono” della poesia. C’è invece un tono,
ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere
con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con
passione. Ho scritto sopra che egli non
poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di
queste liriche che si giustifica l’affermazione. Pasolini evita il tono nasale della lirica
tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o
avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli
sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire. Ma soprattutto non sono congeniali a una
lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle
ragioni, convincere, toccare nel segno.
Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano,
accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per
così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un
dialogo che lo vuole parte attiva. Per
scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia
dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è
quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua
di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella
sensibilità del lettore. Possiamo dire
che sia questa un’operazione anti-letteraria?
Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i
paradossi stanno nel termine stesso.
Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei
“professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche
non classificabile. A me pare che
Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della
seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni
di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se
qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e
ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate
nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che
cosa davvero significhi “verso”). Ecco
dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che
“ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più
profonde. Il tradimento della poesia è
infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti)
una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole
“spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza
dell’artista.
Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale,
dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di
insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie
(anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili
da smascherare. E per la poesia, in
qualunque forma si manifesti.
TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO
trans- [dal lat. trans, trans- «al di là,
attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un
termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in
parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da
tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.;
si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate
dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere,
trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi,
soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di
«al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di
«attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade,
ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare.
In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine
(transfinito), attraversamento di un corpo,
scambio, spostamento; in medicina indica per
lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio
transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di
trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale
metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione
di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla
spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di
estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si
propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant.
con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando
le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.
transindividualeagg. Che
attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la
filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo:
l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo
Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una
quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene
oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi
e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella
relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed
entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca
oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41,
Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura
(Alfredo Giuliani).
prefisso di
parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns
‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa,
quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’
presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno
presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo
elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti
della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi
>>> tra-].
transumare v. intr. [dal fr. transhumer,
comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere
o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della
transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche
come agg.: greggi transumanti.
“la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”.
SIMPOSIO SULLE
TRANS-EDUCAZIONI
IL
BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..
A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA
SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …
CI
SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e
ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)
DOMENICA 19
MAGGIO 2019
ALLA ZONA
ORTIVA
VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per
arrivare:scendere alla fermata autobus 11
c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi,
in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo
punto da lì girate a dx, e dopo aver passato sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il
campo Sinto ci siete …)
INIZIAMO ALLE ORE
10
ALLE 13 PAUSA
PRANZO COMUNE
ALLE 14 RIPRESA
ATTIVITA’ FINO ALLE 16
ACCORDA: PINO
DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
RESPONDENS
(INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO
2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA
SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI
E VALENTINA MILLOTTI DOCENTE E
RICERCATRICE –CESP-COBAS
4 – ESPERIENZE
DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI –
DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA
5 – LA TRASAVANGUARDIA
NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE
6– EDUCARE ALLE
DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA
TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA – NELLE
SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA,
FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE
7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE DI FILOSOFIA
8 – TRANS-SAPERI:
STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI –
RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO
DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE,
RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
TRANS-EDUCAZIONE-EUROPA-TRANSNAZIONALE
Con questo convivio
trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin
qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche
delle competenze (saper fare ‘performativo
e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper
essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere
performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle
cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista,
umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue
ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali,
e trans-femministi e di ritrovati limiti
e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione
del vivente tutto (trans-umani).
Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:
– un saper-essere (soggetto
attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico,e non soggetto-oggetto, assoggettato,
inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),
un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti
eco-sociali)
ove emerge il primato
delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato (per parafrasare Simondon nella sua complessa
esplicazione della trans-individualità),
che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra
pari, e pensieri incarnati.
Il prefisso trans-indica in
primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni
ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani),
binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili
(infatti
‘nell’uomo ad una dimensione’ il filosofo
H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto
il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e
la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni,
relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.
-e secolari
dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana
smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal
neuroscienziato portoghese Damasio ),
il binarismo sessuale (maschile-femminile,
ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).
Un verso poetico-musicale
in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non
esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra
mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze
naturali e scienze umane ecc.).
Attivarsi in maniera
trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e
tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)
Nel
2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il
simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito.
Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura
e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il
grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto
distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.
“nel primo paradiso, gli
esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano
in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal
voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati
ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di
quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato
oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere
umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A
quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a
degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso
di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che
pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi,
chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra
artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple,
ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela
artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine
biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria
metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire
il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel
2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela
reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con
l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità.
Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con
il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno
matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi
forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due
volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano
tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio
entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi
congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo
paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della
conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto
dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto
edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it )
Tommaso
Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha
dato della poesia una celebre definizione: “la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata,
tra gli altri da Montale.
QUALE TRANS-EDUCAZIONE
APERTA, CRITICA,LAICA E PUBBLICA
POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni
del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere
attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)
e non il passivo dimorare
e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’
(prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse,
ammutolite e omologate istituzione educative europee?
GLI
INCANTESIMI NEO-LIBERISTI
“L’economia è
il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret
Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)
Di Altre Trans-educazioni
abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione
multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana,
trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar
–organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.
E che
sappia denunciare e invertire al tendenza
nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare
e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad
un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta
le conoscenze.
Un
trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non
solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione
letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di
unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava
criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);
tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato
all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione
umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.
IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE COMPETIZIONALE LIBERISTA-MERCANTILE DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA
ED ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE E
ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI INTELLIGENTI E COMPLESSI RENDENDOLI
OGGETTI COMPARABILI AD ALTRE
RISORSE ) ,CHE GENERA PLUS-VALORE
(K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE
MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE INQUIETUDINE ESISTENZIALE ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE IN UN CONTESTO DI MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE
GLI ALGORITMI DELLE PIATTAFORME DOMINATI
OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE
RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE
GENERAZIONI).
MATERIALI
TRANS-EDUCAZIONE PER
PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E
Di fronte ad una visione
impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone
per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al
centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere
l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].
Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte
limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza
viva e differente del
tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge
sull’inedito significa
slargare lo spazio dell’esperire.
Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad
inabissarsi, la vita della
mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si
tratta per questo
di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare,
affinché non sia solo
ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia,
l’obbedire alla necessità
di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare
in una diminuzione
di essere, perché può accadere di moderare le domande di
senso, di cercare
poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla
della necessità
Saggi 57
Conosce re se stessi per ave r cura di sé
di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che
sempre sono (Platone,
La repubblica, 518c); si può
ridefinire il senso di questo rigirare radicale per
intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione
di accettare il
già detto e quel poco che si rende accessibile, per
arrischiare l’inedito e l’ulteriore
rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come
l’arte (Platone,
La repubblica, 518d) del tornare a
stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,
nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di
senso che guidano
la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.
Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima
vada iniziata a
partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti
quei «pesi di piombo»
che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte
quelle cattive abitudini
che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,
519a-)
Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello
Cortina-2019
MEDITAZIONI
SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA
«Se pensi che l’istruzione sia costosa,
prova con l’ignoranza»
Queste parole non sono
state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore
dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel
libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco
per Guanda.
Quest’espressione amara, ironica e di protesta è
ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranza’ nelle piazze
tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi
dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la
regressione che stavamo attraversando.
Però non per riaffermare la visione elitaria e
classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa
prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce
in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni
sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”
“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni
casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la
conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza
competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe
cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine
la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere
umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non
diretti.
Date le caratteristiche della conoscenza, come si
distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in
base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni
degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile,
all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante; gli esseri conoscenti avranno invece
bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati
scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui conoscenza sia stata per varie ragioni
negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e
alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è
anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un
genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e
segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno
conosce. ‘Conoscere porta sì
travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota
per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a
problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò
nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie
felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud
Però come
intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci
nulla:
CHI HA PAURA NON PUÒ
EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.
Non abbiamo assistito
passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli
ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati
(sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via
blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista,
amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita
neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in
tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi
Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da
Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e
dell’edonismo reganiano;
queste vuote ed inondanti
narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo
sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in zone temporaneamente autonome antagoniste, di
punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o
‘libere’.
Ai canali mainstream
della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche
‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a
partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione
culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via
d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche
‘delle competenze’ e e di
condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una
prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari,
e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla
realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi
produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o
economia dei servizi e della conoscenza).
Le scuola e le università che si erano
auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da
ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o
le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e
tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove
generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini
d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali;
sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di
gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università
d’orizzonti ristretti e funzionali
alla
produzione
del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.
Nessun interesse o
passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei
neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero
e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia
naturali che umane;
la mancanza d’attenzione
alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e
sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie
digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro
vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel
benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella
precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e
per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare
affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico
pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.
Chi ha paura non può
educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una
«buona scuola» (il riferimento è alla successiva riforma del governo Renzi, ndr.) che viene
sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento
preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo
sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio
educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della
produttività economica.
neoliberismoIndirizzo di pensiero economico che, in nome delle
riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali
violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche
all’ombra del laissez
faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva
libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà
politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L.
von Mises e il francese J.-L.
Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera
concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato,
ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in
costrizione.
Dizionario – Trecani
capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità
professionali e relazionali possedute in genere
dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica,
ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di
lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate
dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente,
le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione
erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e
a qualificarla, influenzandone i risultati.
Capitale umano come patrimonio
dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte
di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri
dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una
utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e
competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce
anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di
un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli
individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato
come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento
delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione)
degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una
particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli
investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i
redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati
all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta
tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà,
di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo
dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite
compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece
oggetto di scambio sul mercato.
Evoluzione del concetto di capitale
umano. Sebbene indicato con termini diversi,
il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a
partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole
attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G.
Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del
comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica.
Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte
dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli
argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra
crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di
addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo
così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito
dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua
soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi
principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata
risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata
alle esigenze di un Paese a economia avanzata.
TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA
Pensare ed abitare –l’Europa
partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire
pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di
molteplici luoghi e pensieri.
“Ci si è domandati spesso, fin da quando il
modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo
e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea
comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la
strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla
riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse
quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che
da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani-
i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed.
Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in
questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il
vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e
delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto
di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei
razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole
provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che
l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la
discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia
davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove
c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a
sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di
filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere
come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio
inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come
quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un
circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.
……
Altrettanto abbagliante,
e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di
ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e
lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….
…..
O ancora nel misero
bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un
paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani,
vapori neri e mefitici.
….
E ciò che traspare qui è
qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un
modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e
politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non
può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio
agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di questa comunanza di vita ed ideale, oltre che
alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri –
luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi
deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili
stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.
Trans-educazione
bio-politica
‘La conoscenza è un po’
come la libertà, un valore positivo per eccellenza.
L’abbiamo sentito evocare
nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista
pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto
all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di
Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a
ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando
il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna
possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti
Il trans-individuale in
Simondon
G. Simondon è stato un
filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli
anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta
principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e
politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario
intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di
G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert
Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice
bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli
anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e
altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce
ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua
tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta
a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon
divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione
alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse
soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee
transindividualel
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO
Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità
della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi
alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma
anche intravvede la soglia( di relazione).
.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di
plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare
una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto
tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare
o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di
ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione
attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma,
luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma
meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico
o infinitamente complesso e diverso.
Trans-individuale
Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può
aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine
metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a
posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di
tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso
delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica
separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa
(il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore
scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave
incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la
corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta
sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi
quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine.
Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene
scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del
ragionare-deecidere, per non rimanere in
quello stallo di paralisi d’indecisione
narrato in un racconto zen, di un millepiedi
che non sapendosi decidersi con
quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.
Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione
dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma
(idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune
discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al
cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono
strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…
Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo
dell’individuazione psichica e di quella collettiva.
Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della
società rispetto all’individuo.
E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per
comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo,
trans-.culture, trans-umano ecc
Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui
Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione
di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di
tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica
occidentale:
la tesi del processo
d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui
termini della relazione.
Nell’individuazione
psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi
d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico
all’individuo già costituito.
Sia la tradizione sostanzialista
(sostanzialista agg. e s. m. e f.
[der. di sostanziale]
(pl. m. -i). –
Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina,
o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente
sostanziale, oltre ogni apparenza).
()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo
(o ilomorfismo)
s. m. [comp. del gr. ὕλη
«materia» e μορϕή
«forma»]. – Nel linguaggio filos., la
dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una
composizione ontologica di materia e forma).
Sia la dottrina
sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra
loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio
d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di
spiegarla,provocarla e dirigerla.
principio d’individuazione,
criterio o elemento
della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua
unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale
all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come
ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie.
È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande
problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio
ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in
volta interessati.
L’individuo vivente per
Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un sistema che si individua.
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
Tesi sostenute da
Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e
relazionismo.
Il
problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione
tra
materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana
dell’intenzionalità,
e
tale operazione può essere condotta se si approfondisce
lo
spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica
definitoria
dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico
questo
programma è stato delineato da Francisco
Varela
sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di
Maurice
Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa
in
modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in
termini
di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a
Humberto
Maturana, Varela
ha proposto una concezione della natura
in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente
sistemi
biologici capaci di comportamenti cognitivi in
quanto capaci di auto-
riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione
dell’esperienza
propria della metafisica di Whitehead può essere più
proficuamente
esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità
può cioè essere affrontata a partire da una revisione della
nozione di
natura che consenta di
superare il dualismo cartesiano di brentano
senza tornare a una prospettiva spiritualistica
relativamente alla
mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di
indagare
la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che
significa
che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un
problema
squisitamente ontologico.
La relazione non è mai tra
due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla
relazione.
…
Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione
dell’essere e relazione del modo di essere.
Non già mero rapporto tra due termini
che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili
adeguatamente per mezzo dei concetti.
Questa nuova logica non è più
fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto
individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.
Il trans-individuale non è altro che la
categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del
sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra
di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.
La società –scrive Simondon non è il
prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una
realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente
da essi.
La società è l’operazione, è condizione
operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia
la presenza dell’essere individuale isolato.
Un modello di relazione esso stesso
senza centro (complesso e stratificato).
Simondon conclude che non vi è qualcosa
di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare
situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.
Idividuazione attraverso
la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o
concetto ad un altro.
La metastabilità
Simondon ricorre alla
fisica per comprendere quella situazione
che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè
metastabile.
La metastabilità è la
caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso,
diverso
Manifesto dell’educazione diffusa
“Mai più aule tra i muri e
studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”
(La Città educante. Manifesto della
educazione diffusa, Asterios)
L’educazione diffusa è
un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di
rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società
che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e
formativo.
La scuola dove ridursi a una
base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi
aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze
delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi
e bambini stessi.
All’apprendimento chiuso e
iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà
si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze
concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma
educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di
interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I
ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo
emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e
a interrogarsi.
È un atto politico portare
questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di
vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e
il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.
L’educazione diffusa pone al
centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i
sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.
L’educazione diffusa ribalta
l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il
corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento
duraturo.
L’educazione diffusa libera i
bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia
scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i
luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per
offrire il proprio contributo alla società.
L’educazione diffusa è un
reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più
giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano,
danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da
tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.
L’educazione diffusa sradica la
malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali
correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali
solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter
stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e
correggibile
L’educazione diffusa vede gli
insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane,
sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non
nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi
avvizziscono.
L’educazione diffusa chiama
tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi
più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della
sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e
imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.
L’educazione diffusa trasforma
il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di
cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni
logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno
monetario.
Nell’educazione diffusa si
assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile,
finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini
e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti
portatori di un’inconfondibile identità planetaria.
Per iniziare a sperimentare
l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti
appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano
voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere
riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.
Con l’educazione diffusa ognuno
viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di
unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve
fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed
impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità
scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove
l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico,
familiare, religioso, aziendale).
Il Manifesto tradotto in
ucraino (presto la versione in altre lingue)
Azioni di
educazione diffusa
Costruire la rete di Educazione Diffusa e
Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete
può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato
di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe,
mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e
cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali e culturali, professionisti, singoli
cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di
attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le
Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di
istruzione).
Avviare incontri di auto-formazione tra
scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio
circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della
educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione
che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.
Elaborare, come gruppo di supporto della
sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi
individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri,
biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando
l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli
enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate
alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e
costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della
città in educanti.
Avviare la sperimentazione includendo anche
una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad
abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale
orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con
associazioni di genitori e realtà sociali locali.
Monitorare il percorso sperimentale
attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali,
regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le
azioni di educazione diffusa.
Stimolare e promuovere politiche
dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni
settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali,
sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a
definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.
Dedicare parte dei percorsi di educazione
diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di
dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed
ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli
individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo
all’interno della comunità educante.
Realizzare passeggiate cognitive alla
scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi
dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a
prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e
bambine, ragazzi e ragazze.
Strutturare in dettaglio i processi di
partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi
di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei
loro quesiti desiderosi di risposte.
Documentare il percorso con tutti gli
strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi
in modo che siano consultabili da altre scuole e città.
Appunti per un Progetto di
educazione diffusa
Primi firmatari:
Paolo Mottana, Giuseppe
Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi
Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati,
redazione di Comune
MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da
comune-info
Per aderire al Manifesto scrivete
nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net
Condividendone sperimentazione
desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività
tale matifesto e proposta
Pino de March x
comunimappe
trans-umanesimo
Il
significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo
sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In
New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva
coniato il termine già nel 1949[1].
Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane
umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua
natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di
emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il
compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]
Il
filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi
capitale del XIX sec., sostiene che ‘la
macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della
visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.
Tecnica
che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di
quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto
stesso della sua stessa mani-polazione, che
da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile
l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al
vivente).
Queste
considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non
vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè
di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di
quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina
tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno
umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola
cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in
movimento-in fotogrammi distinti- a
detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan,
che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la
nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo
in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più
dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione che ci richiede meno partecipazione-elaborazione
-di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che
operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che
cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci
richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.
Media caldi e media freddi
Una
ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal
concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo
studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media
freddi.
Come
molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di
polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il
concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un
media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media
“caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una
grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che
richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.
Ma
da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari
passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due
elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero
di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di
definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.
Un
medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con
messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione
fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non
richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante
la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di
un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado
di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan
media caldi.
Al
contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando
però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano
spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa
con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore
proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista
sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al
telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV
è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e
funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo
stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non
può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».
Insomma,
anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza
come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal
tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi
percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra
esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di
McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha
riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:
«Sono
“freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della
superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia
consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben
proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere,
tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi”
invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese
di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di
sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a
scapito di altre».
Da
mediamente.rai.it
postumano
(post-umano),
s. m. e agg. Progressiva
alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a
perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive
[George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che
ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza
artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza
estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta
avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse
preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera,
6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il
post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e
inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della
natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò
post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004,
p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere
umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da
fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero
sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo
ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per
definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle
posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la
seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli
estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo
dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle
possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e
dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo
biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del
Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p.
7).
Derivato
dall’agg. umano con
l’aggiunta del prefisso post-.
Già
attestato nel Corriere
della sera
del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).
TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE
CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE
VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE
L’avvento della meritocrazia
“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il
profetico libro – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea
l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni
governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla
ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe
dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e
socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le
classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro
saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente – ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi
come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si
rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel
manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società
senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di
valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza
e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per
la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro
amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni
essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla
luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari
capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto
daMichael Young – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)
‘ Non
esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o
private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne
poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi ,
nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la
mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.
Certamente in una società che premia il demerito appare
del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può
non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le
attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa,
il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è
palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito,
poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo
la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili
i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il
merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi
parametri: tempi in cui si
verifica spazio in cui avviene
contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole. Il merito è una
variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in
senso assoluto) è impossibile.
La meritocrazia è di conseguenza
impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e
costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la
negazione del merito stesso. Tratto da – il feticcio della
Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.
Eppure la
Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti
coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.
Un altro mantra è la valutazione. Valutare vuole
dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel
mercato a qualcosa.
Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza,
autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto
richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di
scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso
di moneta). La valutazione è l’atto
effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di
sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o
stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente
strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)
Come ben sottolinea Angélique del Rey in
questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018),
la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea
del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica
dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la
performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene
discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce
all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la
valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla
loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del
Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito,
sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio
presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in
cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più,
chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio,
così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia,
senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno.
L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre,
comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’,
nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale
umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo
nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad
aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica
bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal
saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità).
Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità
d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi
tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente
finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo
questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’
(Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento
2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle
esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della
performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura
solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa
adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno
all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.
L’esito è il riconoscersi come soggetti
–(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM
di cartesiana memoria.
Insomma, l’idea dominante è che ogni
individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto
che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.
…..
DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA
FORMAZIONE OBBLIGATORIA
Un esempio significativo di tutto questo lo
possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di
trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici
è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido
soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in
contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di
adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).
Abbiamo
ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a
quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.
DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE
ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE
Ecco perché
in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre
adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio
dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici
dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i
lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare
a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive
dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).
Il futuro del lavoratore (fin da studente)
deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e
soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).
LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE
La pedagogia delle competenze, così come è
delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del
Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del
globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il
sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo
ecc.
Il Consiglio d’Unione Europea adotta una
nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente
(22 maggio 2018)
OTTO COMPETENZE CHIAVE
COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E
TECNOLOGIA
COMPETENZA DIGITALE
IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle
attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare,
utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato
compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i
problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare
rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con
flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera
anche in relazione alle proprie risorse.)
CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI
VALUTATIVI
Tutto ciò si imposto se che governi
nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di
condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che
questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo
movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base
dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e
aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione
dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto
irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di
allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.
Si è così imposta una valutazione che
poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata
e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto
quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie
e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International
Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno
trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e
non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.
Questi sistemi pretendono di misurare ciò
che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una
qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre
concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.
Pertanto non può essere misurata
quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di
fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque
definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti.
Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle
conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle
esperienze pratiche.
Ma dalla fine del XX secolo, questo buon
senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine
‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma
rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze
(qualunque esse siano).
Ciò che caratterizza l’approccio a queste
nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi
educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione.
Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o
comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente
possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro,
per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità
valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si
ritiene tale.
Quindi non solo condizionano le modalità
d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e
rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria
e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza
considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia,
s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello
stile e nei tempi del suo apprendimento.
QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO
L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de
l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi,
abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai
divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà
spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione
dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si
basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la
proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.
La
filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e
plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza
qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la
fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )
La valutazione per competenza si propone di
‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale.
Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la
nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua
riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa
riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique
del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve
performant, La Decouverte, Paris 2013. )
TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE
DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE?
OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.
MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI,
PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO
CHE ALLA COMPETIZIONE.
Ciò che va dunque respinto è quel
dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale
funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato
del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato
sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per
bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)
CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE
DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ,
L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA
CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.
ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO
PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL
PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.
In questo ambito si recupera tutta una
tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate
anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e
fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per
intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento
di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare
anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e
un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in
pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che
l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La
vantazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e
perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è
funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori
si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un
punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni
valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile
ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad
essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.
Questo testo sopra riportato con alcune mie
note per una riflessione e critica
comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la
tirannia della valutazione, edizione Eleutera.
MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE
Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska
Emi Koyama.
Ultima edizione, 26 Luglio 2001
Testo originale qui. Illustrazione per gentile
concessione di Florent Manelli.
Introduzione
La seconda metà del ventesimo secolo è stata
testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano,
grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo
di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale,
rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno
del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi
di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto
come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più
consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra
debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione
temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive
dell’alleanza.
Ogni volta che alcune donne (precedentemente
ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a
riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali
lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione
dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe,
esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre
prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che
è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista,
espandendo ulteriormente la portata del movimento.
“Trans” è spesso utilizzato come un termine
inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere,
accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e
l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo
manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per
descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno
come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è
l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro
che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che
alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione
metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla
dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in
maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in
comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in
qualche modo utile per le loro lotte.
Il transfemminismo è prima di tutto un
movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria
liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne,
e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer,
intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a
tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e
che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della
loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un
contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia
imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a
fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.
Il transfemminismo non è un tentativo di
impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il
campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e
attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per
la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di
battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche
dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si
sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si
prenderà la briga di farlo.
Principi fondamentali
I principi fondamentali del transfemminismo
sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto
di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti.
Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza
timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto
esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità
politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro
la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi
facciamo.
Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle
dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere
istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o
espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel
contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in
particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la
tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate
dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna
e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria
femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute
come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica
è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega
l’unicità di ogni donna.
Il transfemminismo ritiene che nessun* debba
sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria
identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo.
Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni
personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans,
abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a
“passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover
negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i
nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese
le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i
comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali
comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è
responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la
definizione patriarcale della femminilità.
Le donne non dovrebbero essere accusate di
rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste
scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di
purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come
unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno,
dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti
modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di
prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il
transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono
o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di
incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario –
al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria
libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe,
poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto
patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente
modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di
un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre
al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a
loro disposizione.
La questione del privilegio maschile
Alcune femministe, specialmente le cosiddette
femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere
del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF
(N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una
transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque
beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM
(N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare
una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno
abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio
maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state
usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans
all’interno di alcuni ambienti femministi.
Di fronte a questa argomentazione, la prima
reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia
privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di
essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per
loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i
propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per
esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare
da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state
ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente”
maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di
depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed
esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni
famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.
Tuttavia, come transfemministe dobbiamo
rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio
maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare
che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai
beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate
da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e
hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro,
indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini.
Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans
mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la
transizione.
Questo dimostra che spesso confondiamo
l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del
binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare
che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia
maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il
risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi
derivanti dall’essere trans.
Chiunque abbia un’identità di genere e/o
un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso
assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo
privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per
tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono
intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans
può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha
fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo
subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto
di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più
privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che
le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali
perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.
Spesso nascono tensioni quando le donne trans
tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri
dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta
risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior
parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la
più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro
ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo.
Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più
di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di
sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla
classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans.
Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come
l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da
parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio
privilegio di donne bianche e di classe media.
A partire da questa consapevolezza, le
transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile
negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono
avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre –
nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero
affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede
nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che
accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne
provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si
aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio
privilegio di donne non-trans.
Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi,
come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di
donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla
scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano
degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è
nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.
Decostruire l’essenzialismo inverso
Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia
diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e
sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato
indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione
del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad
abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere
in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla
naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.
Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono
strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è
costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di
genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente
nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato
comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture
discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la
realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più
artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.
La costruzione sociale del sesso biologico è
più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone
intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche
che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker
genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico
del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri
sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o
femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza
di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in
quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici
professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di
solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se
stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni”
chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire
la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia
nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che
nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale
de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola
immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione
non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità
di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva
possibilità di scegliere sul proprio corpo.
Le persone trans sono scontente del sesso che
viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente
semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si
identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato
dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si
identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due.
La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a
prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo
considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e
politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente
assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).
Dal momento che le persone trans cominciano ad
organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista
di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui
essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o
viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione
pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di
un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche
spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto
radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a
queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.
Le persone trans sono spesso state descritte
come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente
o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo
stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona
abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono
menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea
che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle
donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso
quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.
Il transfemminismo sostiene che la propria
identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino,
coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci
relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale
sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla
nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e
rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di
questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso
l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista
secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.
Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista
Noi, in quanto femministe, affermiamo di
sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però,
questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.
Per molte transfemministe, la questione
dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui il nostro bisogno di benessere e sicurezza si
scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio
e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere
nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi
chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità
di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e
possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie
complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.
Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a
procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che
sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia
innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e
politici influenzino le nostre decisioni personali.
Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo
sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono
costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a
questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una
persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la
società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il
genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il
bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere
conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe
del tutto.
Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe
essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri
corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e
alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa
quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il
transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le
quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in
ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di
noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.
Non è contraddittorio lottare contro
l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al
contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per
sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi
tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo sostenere la decisione altrui di modificare
il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari
assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di
noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti
oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli.
La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema
normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi,
l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano
tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.
Violenza contro le donne
Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni
’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi
isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere
soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto
che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici
oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne
che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis,
indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i
cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).
In primo luogo, le donne trans sono prese di
mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è
pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili
quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un
uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire
che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta
ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla
transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di
uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans,
come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico
dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che
lavora come prostituta.
Le donne trans sono anche più vulnerabili agli
abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa
autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un
molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e
pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera
società l’ha sottoposta nel corso degli
anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle
donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze,
aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto
per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri
abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in
caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio
partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.
Inoltre, le donne trans sono prese di mire per
il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone
gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans
sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I
terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono
per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non
corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è
visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o
donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte
persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più
persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans
vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una
società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli
socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da
estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una
combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver
violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.
A causa della situazione di pericolo in cui
viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone
transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare.
Possiamo essere ferit* e restare delus*
dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci
entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente
o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente.
In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia
per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di
prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso
di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri
esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi
esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo
sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è
dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso
più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.
Come transfemministe, non dovremmo richiedere
soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere
noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a
punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza
mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come
consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne
trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di
formazione specifici per il personale.
Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi
di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle
nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da
zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per
l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta
coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze
sessuali.
Dobbiamo anche affrontare il problema della
violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà
perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le
discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno
un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della
transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno
più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo
crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico
quanto sociale e politico.
Salute e scelte riproduttive
Può sembrare ironico che le donne trans, le
quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i
diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione
profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a
scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è
in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le
operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più
spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi
di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a
operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e
vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale
isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù
sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le
donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio
comune, un campo di battaglia.
Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne
trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne
non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione
d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans,
condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la
disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans
devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano
a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il
controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda
soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la
resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne
meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto
a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le
persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di
identità personale.
Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero
cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché
considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è
esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome
riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa
vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle
organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di
scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla
gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta
degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano
coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere
gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di
riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che
temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.
Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare
dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di
salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è
nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione
collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente.
Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far
fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute,
il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere
prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans.
Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute
delle donne ed espanderlo.
Richiamare le analogie con il movimento per la
salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione
dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di
loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo
dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni
trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la
patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi
di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e
nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla
medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo
standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la
patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni,
gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha
costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni
esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità
non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro
dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi
contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia
reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo
dell’identità di genere”.
È ora di agire
Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più
del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro
che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe,
lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile
discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella
categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.
Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni,
aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne,
l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le
donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo
le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo
bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come
transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate
femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.
Il transfemminismo è convinto che una società
che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta
equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene
vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con
questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità
reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva,
ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte
di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si
tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini
auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno
ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una
visione del mondo più inclusiva.
Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo
Ho scritto il Manifesto Transfemminista
nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a
Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a
esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di
essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto
che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti
anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo
conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come
attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una
teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse
radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.
Tuttavia, questo manifesto presenta dei
problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho
fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori,
ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza
riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano
questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi, di più ampia portata, sono:
– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone
trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come
transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con
un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria
maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno
spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto
che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le
persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno
incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al
tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il
focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo
avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi,
come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli
uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso
ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese
delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.
– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il
manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e
oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si
intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa
riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne
bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le
donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho
esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo
scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre
femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria
femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc.
che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo
manifesto è incompleto.
Sebbene si tratti di critiche molto diverse
tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano
occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni
donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il
classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la
battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli
uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è
visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne
svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa
all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni
razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi
sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a
sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho
ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È
stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre
potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità,
che ho potuto liberarmi da questo timore.
Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per
affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la
sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad
altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.
Bonus: femminismo razzista alla National
Women’s Studies Association
Emi Koyama
28 giugno 2008
A marzo mi è stato chiesto di intervenire al
“tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle
opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi
sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata
scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e
nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche
Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California
College of the Arts).
Sono entrata per la prima volta in contatto
con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di
college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi
articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune
riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la
maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed
eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile
identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse.
Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo
conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo
in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.
Verso la fine del semestre una settimana venne
dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di
colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo;
nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire,
in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella
bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana,
evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This
Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo,
uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi
erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in
connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che
prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana,
su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di
concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi
articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s
Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider,
non so se oggi sarei una femminista.
Eppure una settimana non è stata sufficiente
per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando
mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano
ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste,
causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e
di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno
un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore
la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a
responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.
Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a
Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita
adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una
donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere
alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza
domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia
complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito
al progetto.
Eppure mano a mano che conoscevo Diana,
scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al
contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da
incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi
aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call
Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana
era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta
dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito
una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così
le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione
chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però
un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di
alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce
che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse
denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.
Proprio in reazione a questo clima generale
scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia
Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory
Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come
la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le
donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle
preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che
contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così
diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista
(o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire
delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans
potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano
contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia
stato un successo.
Tuttavia, il Manifesto presentava degli
aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali
e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e
delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come
“donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche
di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni
transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo –
inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si
ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni
— come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne
transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo
presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa
che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come
l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme
di oppressione.
Il fatto è che, quando scrissi questo saggio,
mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora
completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che
riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies.
Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in
discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i
diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella
che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che
bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo
sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione
delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li
passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la
giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza
necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le
famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi
silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.
L’invito a parlare durante il panel istituito
per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s
Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla
conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza.
Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà
coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un
contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo
per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e
chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo
nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la
quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di
più”.
Cominciai a parlarne con alcune componenti del
Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da
portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica.
Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra
attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia
sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della
indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.
Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a
quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno,
gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro
senza nessuna contestazione. Decisi di fare qualcosa di diverso: scrissi alla
WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di
iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla
NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io
potessi partecipare alla conferenza.
In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di
offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla
direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più
accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la
co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del
Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la
situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò
alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una
camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata
disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose
femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e
avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA
solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora
a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).
Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la
maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute
panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde,
quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente
leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che
scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo
riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia
posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto
fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di
Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum
tradiva la sua eredità.
Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata
ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a
condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non
era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi
delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa
se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla
conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente
illegittimo.
Audre stessa affrontò circostanze simili nel
1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda
conferenza sul sesso, tenutasi alla New
York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse
rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe
commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle
donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo
significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e
delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non
smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto
famoso quanto poco compreso.
Quando Audre parlava degli “strumenti del
padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche,
etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne
in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a
cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non
solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli
organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si
aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che
molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e
omofobico prosperi.
In un altro testo, anche questo parte di
Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo
alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho
dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte
della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di
parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e
delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se
ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha
coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se
inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.
Nel corso dell’assemblea delle delegate il
giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice
esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il
che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la
conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che
l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio
conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella
stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un
capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di
alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore
della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché
un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di
tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata
vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.
TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI
FLUSSI
Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un
terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo
paradiso rappresentato da Pisotoletto
Dalle relazioni tra
partecipate differenze (sottostanti
duali)della Candiotto alle
molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)
Un modo nuovo per intendere la
“dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo
e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a
pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un
monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma
di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è
cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.
Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.
Studiosa di Platone e
dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia
contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico
socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di
Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in
unive.academia.edu/LauraCandiotto
Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto,
Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé,
Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca
Vasiliu, Mario Vegetti.
Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS
‘Per superare il dualismo è necessario
“aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos
matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione
degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso
riprende il ruolo dello thymos,
a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto
dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento.
Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia
platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo
sforzo di Platone di comporre il dualismi.
Sulla
centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del
dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di
relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo
luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe
nza
dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e
sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico
tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine
il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene”
e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di
mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è
pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta
proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza
dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo
tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare
nella separatezza.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed
epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito
metafisico contemporaneo.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di
illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa
anche per il dibattito metafisico contemporaneo-
— in modo da conservare solo il
sostantivo “molteplicità”
Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.
La
magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e
“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo
“molteplicità” … Tale
operazione
rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte
del
dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno
del
dualismo
è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché
oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono
divisibili.
Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo
come
aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.
Così
che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il
sostantivo
“molteplicità”,
nella forma: non c’è niente che sia uno,
niente che sia multiplo, tutto è
molteplicità. In questo momento, si vede bene la
forte identità di monismo e
pluralismo
nella forma di un processo di immanenza che non può essere né
interessato
– ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né
esasperato.
Il processo di immanenza è anch’esso,
cioè, una molteplicità che designa
un campo di immanenza popolato da una
molteplicità.
Penso
a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana
storia, in
fondo
siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso –
il
lettore
è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non
è
ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero
occidentale
non funziona più intensamente; la differenza è altrove.
Ciò
che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente
differente:
non
è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da
nessun
piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di
un
impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa
che
esso
non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale,
ossia
come
emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come
estrarre
la
sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere
o
orgasmo,
questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la
sua
esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza
dubbio,
occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di
sospensione
come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.
Hanno
una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso
modo:
l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché
è
esauribile.
Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia
femminile
inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può
succedere?
I
flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il
flusso
femminile,
seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso
maschile,
lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio
nella
sua immanenza come processo.
Si prende in prestito un flusso, si assorbe un
flusso, si definisce un puro campo di immanenza del
desiderio, in relazione a cui
piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni
reali o interruzioni.
Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del
desiderio, ma al contrario
un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio
dalla sua stessa immanenza,
dalla sua proprio produttività.
Tutto
ciò ci interessa nella misura in cui, in tale
pensiero,
il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col
piacere,
l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un
flusso,
esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa
una
molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in
soggetto
d’enunciato
e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra
macchina
girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il
soggetto
del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del
piacere
e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.
Ciò
vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del
cogito
non è solo metafisica.
L’intera
storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel
correlare
il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del
godimento,
e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto
dell’enunciato.
E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i
lacaniani,
ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e
retroattivamente
diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto
d’enunciato.
Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il
desiderio
al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il
desiderio
al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla
mancanza
o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste
perfettamente
questa corrotta teoria del desiderio,
parola per parola.
È
in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena
apprensione
dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del
proprio
campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo
popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un
campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.
TRANS-POETICA
La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini
Nota di Lucio Marini
Tra i libri di poesie
“civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più
significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la
straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in
questa raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e
dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e
di ruolo, del poeta. E si indica in
questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota
a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche
principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera. Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e
dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce,
credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere
di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio). Peraltro, anche nella nota sopra citata, si
conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è
indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così
dire, verso la prosa. Ma non ci viene
però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un
grande libro di poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le
avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è
il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che
viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad
esprimerla. Ne Le ceneri di Gramsci o
L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la
tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte
dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno
civile. Il verso dunque, pur lontano dal
formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché
evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia
artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse.
Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini
(espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos,
1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione
e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione. E per far questo egli abbandona, nella
poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso
fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue
ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte
quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa. Che cos’è il verso, infatti, se non
convenzione? qualcosa che si è
sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili
trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia? E se il verso è convenzione, cosa impedisce
al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra
nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del
calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della
poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo
statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla
a un ruolo mimetico della realtà). La
poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si
impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non
può essere costretta dentro un canone.
La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua
verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione. Ed è in questo luogo soltanto che è possibile
riscattarsi dalla massificazione. Siamo
quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il
sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo
senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema
stesso. Anche qui, dunque, siamo dentro
una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo
massificante. Ed è qui che viene messa a
nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello
stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche. Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo
contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le
mistificazione dell’umano troppo umano.
E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande
poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci? quel gusto di sondare i nodi più profondi e
più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da
Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica? Pasolini non fa altro che riscrivere quelle
tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando
la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la
banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte. Se infatti lo spirito della grecità e quello
di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della
convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel
verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale,
unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di
senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante,
sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo. Mentre la poesia greca costruisce la
tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione
anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta
nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da
dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno
strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o
un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).
E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli
rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa
(ma quale poesia?). Egli stesso infatti
dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la
vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di
consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto,
come respirare). L’utilità ne sancirebbe
dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un
sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar
non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime
la sua crisi poetica. E’ invece un
libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual
“grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non
poteva essere scritto in altro modo che in quello. Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito
se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere,
senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che
“poesia” e “identità” sono la stessa cosa.
Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia
come la scrisse in precedenza. Troverei
infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse
potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con
metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi
di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una
farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.
Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le
molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non
più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie,
sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose). Le poesie della raccolta infatti sono
scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971. In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato,
e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene,
anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un
cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato”
in riferimento a qualche massimo sistema).
Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato
dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma
si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a
nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per
poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del
PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi
capire. Pasolini si difende
dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo
tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del
poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i
fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del
filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi). Ed in questo ruolo di artista-critico o
artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua
identità. Non dunque l’artista che
sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange,
ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo. Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a
parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass
media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court
a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente
attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di
quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che
lo sente da poeta. La poesia di
Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare
poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò
che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di
trombone. Trasumanar è prima di tutto un libro appassionato, che
in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze
del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti,
ecc. Per questo riesce ad essere un
libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente
tradizionale della poesia) la prosa. In
questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un
altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo
che l’artista ci propone.
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il
“tono” della poesia. C’è invece un tono,
ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere
con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con
passione. Ho scritto sopra che egli non
poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di
queste liriche che si giustifica l’affermazione. Pasolini evita il tono nasale della lirica
tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o
avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli
sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire. Ma soprattutto non sono congeniali a una
lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle
ragioni, convincere, toccare nel segno.
Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano,
accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per
così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un
dialogo che lo vuole parte attiva. Per
scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia
dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è
quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua
di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella
sensibilità del lettore. Possiamo dire
che sia questa un’operazione anti-letteraria?
Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i
paradossi stanno nel termine stesso.
Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei
“professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche
non classificabile. A me pare che
Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della
seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni
di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se
qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e
ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate
nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che
cosa davvero significhi “verso”). Ecco
dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che
“ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più
profonde. Il tradimento della poesia è
infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti)
una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole
“spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza
dell’artista.
Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale,
dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di
insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie
(anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili
da smascherare. E per la poesia, in
qualunque forma si manifesti.
TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO
trans- [dal lat. trans, trans- «al di là,
attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un
termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in
parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da
tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.;
si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate
dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere,
trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi,
soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di
«al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di
«attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade,
ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare.
In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine
(transfinito), attraversamento di un corpo,
scambio, spostamento; in medicina indica per
lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio
transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di
trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale
metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione
di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla
spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di
estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si
propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant.
con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando
le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.
transindividualeagg. Che
attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la
filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo:
l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo
Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una
quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene
oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi
e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella
relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed
entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca
oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41,
Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura
(Alfredo Giuliani).
prefisso di
parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns
‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa,
quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’
presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno
presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo
elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti
della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi
>>> tra-].
transumare v. intr. [dal fr. transhumer,
comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere
o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della
transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche
come agg.: greggi transumanti.
La libera comune università pluriversità bolognina in cooperazione con – laboratorio poetico – orti di poesia della Zona Ortiva – via erbosa 17
Progetto :ORTO IN POESIE
“PIANTIAMO PAROLE E
RACCOGLIAMO POESIE”
Ripartiamo
con il primo incontro organizzativo della seconda edizione del progetto
“Piantiamo parole nascono poesie”, sabato 13
aprile 2019ore 16:00 presso il
tendone degli orti-zona ortiva – via erbosa 17 (arcoveggio- fermata 11 c – ippodromo proseguire su una traversa
a sx – Fratelli Cervi arrivate alle
scuole Grosso tasso girata a dx passate sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt
dopo il campo sinto ci siete …
Vi aspettiamo numerosi per condividere – idee, modalità organizzative e raccogliere proposte.
contatti – laboratorio poetico – orti in poesia
Walter 329946896
Sabina 3492425042
Per
molti l’orto rappresenta un luogo dell’anima, luogo in cui la terra, lavorata
nutrita, dà i suoi frutti che alimentano sensazioni ed emozioni.
Vorremo
tradurre queste sensazioni, queste emozioni, in parole, quelle che ognuno di
noi dice a se stesso silenziosamente.
E’
nostro auspicio far nascere nuove e
fruttifiche parole condensandole nella
forma più pura e più significante che è la poesia, lasciandoci suggestionare da
tutto ciò che potrà essere pensato e condiviso.
Un
progetto aperto a quanti coraggiosamente esenza alcuna distinzione, vogliano
piantare parole per raccogliere poesie.
Siamo certi che essere insieme in questa esperienza creativa possa far crescere un senso di rinnovata appartenenza e di propositività nel rac-cogliersi attorno a ciò che la terra nelle sue molteplici forme e modalità ci offre.
“Al vento di primavera/ si spargono/le mie parole./La gente le considererà/una poesia ispirata ai fiori”/. Frammento di poesia del maestro zen Eihei Dogen (1200-1253), tradotte e commentate da Aldo Tollini, edizioni Bompiani. Il presentatore quasi anonimo del libro m.d.c. – con la sua breve recensione – la via buddista si perde nella natura – scrive:”sembrano fiorire sul crinale tra contemplazione e riflessione filosofica, fra immagine lirica ed esperienza della Via. Perché in fondo, l’una confluisce nell’altra senza pausa. Vita e natura si scambiano le parti, la poesia cammina sulla Via:”il cuore/ non una forma/che possa mostrare alla gente:/soltanto sorge (e svanisce)come/ la rugiada e la brina”.
Sono i versi di un maestro giapponese, come se scrivere possa essere considerato non appropriato per lui.
Come COMUNIMAPPE- libera comune università
pluriversità –Bolognina – dipartimento della terra -che cooperiamo al progetto –
orto in poesia- proponiamo
di
far ruotare la nostra immaginazione poetica attorno ai simbolici quattro elementi – terra, acqua,
aria e fuoco, elementi materiali che ci compongono ed elementi immateriali che
costituiscono da secoli il nostro immaginario euro-mediterraneo, inoltre di
acquisire chiara consapevolezza della nostra trans-umanità, in quanto parte ed
attraversati del vivente.
‘La
Terra è un animale’ – G. Bruno
Il filosofo Giordano Bruno(1548-1660), arso vivo
sul rogo per eresia nell’anno 1600 dell’era nuova a Campo dei Fiori a Roma, prima
di questo supplizio rimase in carcere per otto lunghi anni a Roma, è là più
volte interrogato dal Santo Uffizio, sempre rifiutò di trattare le sue dottrine. La
fermezza dimostrata nel lungo processo romano e l’intrepidezza con cui salì sul
rogo ne fecero un martire del libero pensiero.
La sua religione fu naturale e la sua etica
razionale.
Nel dialogo ‘De gli eroici furori’ Bruno
esalta il ‘furioso’, cioè il ricercatore eroico della verità, che non obbedisce
ad altri impulsi fuorché a quelli razionali, giungendo a contemplare la natura
in modo ‘panteistico’ nei suoi caratteri di unità ed infinità e identificandosi
con essa.
L religione che Bruno difende è così una
religione puramente razionale e naturale che mira a portare l’uomo alla natura,
e metterlo in contatto con i suoi poteri a divinizzarlo con essa. Egli
considerava ‘le religioni positive’ utili per governare ‘i rozzi popoli’, ma
riteneva che fossero comunque da valutarsi alla luce della religione naturale,
la quale faceva tutt’uno per lui con la filosofia:e dalla diffusione della
filosofia naturale s’aspettava il rimedio per i mali dell’umanità del suo
tempo.
Per Bruno la forma è l’anima universale, la
cui principale facoltà è l’intelletto, il quale muove la materia dal di dentro,
come – fabbro del mondo-, che dall’interno del seme fabbrica ogni corpo. Esso è
talmente intrinseco alla materia da far sì che essa stessa, come – potenza
universale – diventi energia produttrice che manda fuori – emana – le forme dal
proprio seno e se ne riveste. Forma e materia non sono due sostanze, ma
piuttosto due aspetti della stessa sostanza, la natura, di cui Bruno non cessa
di celebrare il carattere divino (come fu una dea madre per le generazioni che
lo precedettero).
Come la dottrina eleatica dell’Uno-Tutto è
paradossalmente unita a quella del flusso eracliteo – del tutto scorre e della
ruota delle nascite di Pitagora, nel quadro di un panteismo dinamico cui sono
frammisti elementi di platonismo rinascimentale e di tradizione ermetica.
A questa visionarietà o intuizione bruniana soggiace l’idea dell’unità e dell’infinità della natura che all’origine della sua accettazione entusiastica della teoria di Copernico. La sua immagine dell’universo è poi aperta. Questo universo infinitamente grande e infinitamente piccolo coincidono, e così pure la generazione e la corruzione o la distruzione, e l’amore che unisce e l’odio che divide’. Anche Adonis, nato in Siria ed ora parigino, uno dei maggiori poeti viventi, autore di una raccolta di poesia in pubblicazione -‘Prendimi, caos, nelle tue braccia’, traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi, dall’Edizione Guanda, in un’intervista ‘soltanto l’uomo può salvare se stesso’ –di Stefano Montefiori -per la Lettura -7 aprile 2019, dirà a proposito di una via d’uscita alle religioni positive e ai loro risvolti fanatici: ‘ Quella dei mistici, il sufismo. I mistici hanno cambiato la nozione di dio, che loro non è una forza esterna al mondo, Dio per loro è immanente (come lo era per Bruno). Ma questa corrente è condannata dai mussulmani integralisti, tanti sufi sono stati uccisi, sgozzati, torturati, marginalizzati, a seconda delle leggi locali (non differentemente dai nostri eretici,donne sagge o streghe o LGBTQ per il cattolici integralisti di ieri come di oggi.) Al Convegno sulle famiglie a Verona (30 marzo 2019 )si potevano incontrare nell’oggi molti di quei rinascenti integralismi cattolici.
Con i furori e la visione cosmica di
Giordano Bruno
La
terra è un animale
La
terra e qualsiasi altro astro composto da parti eterogenee è un animale;
lo
mostrano lo stesso moto ,la vita ed ogni suo atto, come deduciamo dallo
spirito, dalla vita e dal moto dell’animale.
Lo
mostrano parimenti le parti composte del suo medesimo corpo, dal momento che
distinguiamo nel corpo di qualsiasi animale le vene, le arterie, i nervi, le
fibre, le ossa:
è
stolto ritenere esseri animali solo quelli dotati di una specie corporea come
la nostra e di sangue;
nelle
piante il sangue è la stessa linfa;
le
ossa, la stessa sostanza più resistente;
i
nervi, i loro filamenti che vengono tesi;
le
vene quelli occulti passaggi attraverso cui l’umore, che puoi paragonare al
sangue, s’espande per tutto il composto.
Una
specie diversa è nelle mosche, nei ragni, nei vermi;
tuttavia
in tutti costoro si ritrovano le parti del nostro corpo che armonizzano secondo
una proporzionalità di condizione.
Non
è necessario che nella terra il sangue sia dello stesso colore del nostro o più
tenue, che le ossa siano della medesima specie o una inferiore, le vene della
stessa qualità o di una migliore.
In
questo modo dobbiamo aver chiarito l’ordine di tutti questi animali, come
quello degli animali più piccoli.
Tanto
grande divinità si manifesta solo agli occhi acuti e nobili.
Tanta
divinità si muove di per sé, di gran lunga meglio e più liberamente di come noi
ci muoviamo, come precedentemente abbiamo dimostrato.
Non
un dio o un’intelligenza esterna(trascendente) fanno muovere intorno e guidano:
più adeguato appare infatti un principio interno di moto(immanente), che
coincide con la propria natura, con la propria specie, con l’anima propria che
hanno tutti gli esseri che vivono nel grembo della natura e sono vivificati dal
suo spirito universale, corpo, anima e natura; [mi riferisco a tutti] gli
esseri animati, alle piante, alle pietre, ad ogni essere, insomma, composte
dalle medesima simmetria di complessione, secondo il genere, sebbene ciascuno
sia distinto secondo i numeri della specie
Chi non direbbe le pietre parti della
terra?
I
sassi frammenti della terra?
In
essi ritroviamo la vita, la sensibilità e i primordi della ragione.
Una pietra (nel proprio genere
non è (credi) senza anima e senza sensibilità;
se
più o meno felice di noi non può essere stabilito da chi non ha esperienza di
entrambi i generi di vita o da coloro che non lo tengono a mente(giacché spesso
non ricordano neppure il corso della vita che viviamo noi).
Crediamo
che la felicità, la perfezione, il bene siano riposti in ciò che noi in cui noi
sperimentiamo di essere felici, di esseri più completi, di trovarci meglio e
meglio conservarci:
l’uomo sapiente sa che si tratta di una felicità relativa alla specie e non
estesa a tutto il genere;
perciò
fu cosa comune presso i popoli che dio fosse rappresentato e onorato nella
forma e nella figura umana.
Tuttavia
i sapienti sanno che egli non ha bisogno di mani, di piedi, di occhi, di moto,
di estensione corporea e di tutte quelle membra di cui siamo dotati e che
abbiamo felicemente.
Il
volgo non può concepire come la terra, madre e progenitrice, conservatrice e plasmatrice
degli umani(dalle cui viscere sono generate le nostre viscere e dal cui umore
siamo alimentati, il cui spirito respiriamo) possono essere un animale dotato
di sensibilità e di intelligenza, poiché un corpo sprovvisto degli organi
propri di quelle azioni e passioni di cui sono dotati gli animali più comuni.
Testo
tratto da “il triplice minimo e la misura” di Giordano Bruno
Testi tratti da ricerca progetti da Pino de March di Versitudine
per la 5 camminata
poetica sul sentiero di RilkE. (DUINO-SENTIERO DI PACE E DI POESIA)
Referente: pino de march
Là dove c’è eros dispiegato in sensi multidimensionali (e multitudinari) c’è una vivente civiltà che incontra il suo futuro anteriore: tempestoso e gioioso; e non sono solo sogni ma segni dei tempi che mutano vorticosamente i codici culturali e il divenire dei mondi di vita, dei generi, delle esistenze e delle socialità.
Dopo le maree primaverili di marzo -(si) apri-le porte ad una comune trans-dimensionalità che prova a chiudere con le banali uni-dimensionalità autoritarie sovraniste (emerse)di oggi come con quelle (sommerse )nazi-fasciste, razziste, sessiste di ieri, ma anche alle (ormai plurisecolari)distruzioni del vivente (ecocidi)e dell’umanità(genocidi).
E questo marzo ormai alle spalle è stato un sorprendente, stravagante e visionario contro-trans-fert ai nichilisti domini capitalisti, patriarcali e all’andro-cenica apocalittica era, in un’insorgenza generazionale di trasversali moltitudini in un’anticipata primavera. E le strade di nuovo rioccupate dai sogni e da empatiche ed erotiche relazioni trans-individuali, transnazionali, transfemministe, transculturali .
TRANS intesi come nuovi passaggi tempestosi di mutazioni del vivente e delle umane forme di vita empatiche e di relazione emergenti con altra separata/negata, ed ESODI verso un comune ed unico pianeta (non c’è un pianeta B, ne tanto meno umanità di serie B ), ma esseri viventi necessitati a convivere ed esseri umani liberi di scegliersi e di costruirsi IN TRANS-NAZIONALI E TRANS- CULTURE MIGRANTI IN TRANS-UMANE RELAZIONI TRA VIVENTI, UMANI E MACCHINE IN TRANS-GENERI E CONVIVENZE NON BINARIE IN TRANS-INDIVIDUALI COOPERAZIONI TRA ESSERI UGUALI,SOCIALI ED UMANI IN TERZI SPAZI D’AUTONOMIE E DI UGUAGLIANZE CONSAPEVOLI CHE LÀ DOVE C’È EROS DA SEMPRE PROSPERANO MULTIVERSE GIOIOSE CIVILTÀ
EMERSIONE DI NUOVE SAPIENS TRANS-UMANE E TRANS-FEMMINISTE
Alcuni scatti per raccontare più di mille parole, la straordinaria giornata a Verona.150..000 persone e anche molte di più ad illuminare la città transfemminista
Ho appena partecipato a un immenso corteo, e ho scritto su un foglietto
le parole che ho letto sui cartelli fatti a mano da migliaia di ragazzini, di
studenti, di insegnanti, di mamme e di nonne.
“Fra cinquanta anni voi sarete morti ma non vorremmo esserlo anche
noi”
“Salviamo la terra dalle crudeltà umane”
“Se la terra fosse una banca l’avrebbero già salvata”
“Lo smog puzza più delle scoregge” (striscione portato da una
scolaresca delle elementari).
“Brucia il padrone non il carbone”
“Chi cavolo è Rita Pavone”
“Cool kids saving hot world”
“What capitalism does not understand is that there is no economy in
a dead planet”
“Alziamo la voce non il livello dei mari”
“Ci avete rotto i polmoni”
“Non serve lavorare in un mondo che muore”.
Penso che questo sia l’inizio di un fenomeno assolutamente inedito e
destinato a durare nei decenni. Ma già nelle prossime settimane questo evento è
destinato a proliferare, a portare sulla scena una nuova generazione culturale.
Ma – indipendentemente dai tempi di maturazione di questo movimento, che
possono essere lunghi e dolorosi – è bene cominciare a immaginarne le
evoluzioni prossime. A questo scopo voglio fissare alcune considerazioni a
caldo, mentre gli strilli non hanno ancora smesso di risuonare nelle strade di
uno spudorato giorno di sole.
Prima osservazione: il movimento nato dall’azione di una ragazza che non
distingue le sfumature ha carattere irreversibile perché ha già creato un senso
comune generazionale, e uno stile: lo stile è definito da due gesti.
Primo gesto: I want you to panic. Rifiuto di ogni priorità della ragione politica e della ragion
economica, primato all’esplosione panica che permette alla generazione
autistica di uscire dal silenzio.
Secondo gesto: O bianco o nero. O abolite subito le cause dell’avvelenamento
o non le abolite.
Le decine di milioni di bambini e ragazzini che hanno percorso oggi le
strade di centinaia di luoghi urbani, e hanno fatto con le loro mani cartelli e
striscioni, hanno iniziato un processo di auto-identificazione culturale che non
può dissolversi perché non ha carattere politico ma etico, estetico e
culturale.
Seconda osservazione: questo movimento ha carattere assolutamente
radicale e anticapitalistico. Anche se la coscienza di questo emergerà nel
tempo, l’incompatibilità tra crescita-profitto-competizione e respirazione del
polmone collettivo è lampante.
Il Bundestag ha bocciato ieri una proposta di legge che vieta i diesel
nei centri cittadini. La politica non sceglierà mai la vita contro il profitto,
perché l’orizzonte della politica è il capitalismo. Occorrerà abbandonare a se
stessa la politica, disertarla. Occorrerà re-inventare la politica come
funzione di abolizione del capitalismo.
Al corteo cui ho partecipato, a Bologna, ho preso nota dei contenuti di
decine di cartelli. Solo quattro dicevano: Ambientalismo= anticapitalismo,
Destroy capitalism e così via. Solo quattro. Ma la crescita del movimento non
potrà che portare alla scoperta che il capitalismo si fonda sulla priorità
assoluta e indiscutibile dell’economia di crescita e di profitto. E l’economia
di crescita e di profitto è incompatibile con la vita sulla terra.
Il capitalismo è morto e noi viviamo dentro un cadavere, senza trovare
la via d’uscita.
Terza osservazione: questo movimento è destinato a scoprire ben presto
che la devastazione dell’ambiente è irreversibile, perché le sostanze tossiche
si depositano nell’atmosfera nei venti anni successivi alla loro emissione, e
perché sono ormai in atto processi di feedback positivo che non si possono
interrompere o rovesciare. L’apocalisse non è più evitabile, e questo movimento
nasce nell’apocalisse.
Ma tutti i movimenti che hanno cambiato il corso della storia (per
esempio il 1968, che ebbe caratteri generazionali molto simili a questo, e che
rapidamente si radicalizzò su posizioni anticapitaliste) si propongono
inizialmente obiettivi “irrealistici”. Non c’è bisogno di un
movimento per realizzare obiettivi realistici, i movimenti nascono proprio per
porre all’ordine del giorno l’impossibile, e nella fase di maturazione attivano
risorse (intellettuali, tecniche, psichiche, politiche) che non esistevano
prima del manifestarsi del movimento.
Questo movimento contiene le energie intellettuali del prossimo
passaggio evolutivo, che passerà attraverso lo smantellamento e
riprogrammazione della Mega-Macchina.
Questa generazione è nata nella Mega-Macchina, questo movimento le insegnerà come smontarla e riprogrammarla.
Testo di Franco Berardi (Bifo Sepsi)
E DI MARZO DIVENIRE ANIMALE , VEGETALE , UMANO TRANS-NAZIONALE E DONNA TRANS-FEMMINSTA
Testo
tratto da “Il triplice minimo e la misura” di Giordano Bruno
La terra è un animale
La terra e qualsiasi altro astro composto da parti eterogenee è un animale;
lo mostrano lo stesso moto ,la vita ed ogni suo atto, come deduciamo dallo
spirito, dalla vita e dal moto dell’animale. (negli uragani il suo agitato
respiro, nei terremoti l’inquieto esistere, nei vulcani la passionalità che lo
abita)
Questa marea gretiana planetaria con la sua empatica partecipazione al
vivente, le sue diffuse riflessioni incarnate nei volti, bracci, mani dipinte
da nativi e nei cartelli di cartone
riciclato agitati può autodeterminare l’inizio di una nuova individuazione di
singolarità e comunanze emergenti con la piena consapevolezza di essere
terrestri e parte del vivente.
In questa condivisa pre-visionaria socio-analisi di Franco Berardi non
va tralasciato di comprendere lo stato del desiderio divenuto nel nostro tempo
tossico che spinge in modo incontrollabile,autodistruttivo e confuso dall’inconscio
individuale e collettivo, facendo re-agire noi compulsi antropocenici o
abitanti di questa nuova era geologica).
pl.
-i
l’era
geologica attuale, in cui l’uomo e le sue attività sono le principali cause
delle modifiche ambientali e climatiche
Etimologia: ← voce coniata
dal chimico olandese premio nobel paul crutzen (1933), comp. di antropo-
e -cene.
E questi indotti bisogni e
persuasione occulte si direbbe una volta non sono più tali anzi a tutti e tutte
esplicitamente manifesti e desiderati (i loghi sulle magliette o tshirt ne sono
una prova come l’albero –abete rosso sitka – il più solo al mondo dell’isola di
campbell in Nuova Zelanda attesta il picco dorato o golden spike o l’inizio di
nuova era geologica ). Altrettanto evidente in questo tempo liquido e
frammentato è la tragica condizione di sussunzione di larga parte della stessa specie umana ed
il resto del vivente come risorsa nella produzione-riproduzione di segni-valore-profitto
della sistemica mega-macchina planetaria divenuta un automa apocalittico nel
capitalcene, epoca geo-economica ove operano automatismi tardo-capitalisti che
orientano incessantemente al valore di scambio in ogni luogo o non luogo del
pianeta una ‘distruzione creativa di valori d’uso di corpi d’umani, di terra,
di acqua e di aria.
Però tra noi sapiens smarriti e affetti da molteplice dipendenze restano
conservate nella mente tracce di memorie, e tra esse indicazioni dell’oracolo scolpite
secoli fa a Delfi, che ci può ancora suggerire e guidare come bussola- critica
in questo millenario viaggio di conoscenza ed esistenza umana;
noi Ulissi – travolti in tempeste emozionali ed illusioni e trasformati
da algoritmi di magiche Circi in
porci-consumisti, anche quando i consumi si contraggono, mutiamo giorno dopo
giorno e notte dopo notte in esseri-hubris (arroganti e tracotanti) dentro a
passioni tristi e mondi infernali , possiamo spiccare il volo come angeli di Klee-Benjamin
spinti da tempeste climatiche (e movimenti ed onde gretiane ) verso un atteso
paradiso terrestre, tendendo lo sguardo fisso all’ingiù o al passato del
vivente, e raccogliere significative
macerie separandole dalle immondizie che ormai coprono e soffocano l’intero
globo, per costruire mondi futuri d’anteriorità (sarà stato che Greta e noi
saremmo stati colti da visioni di mondi possibili trans-capitalisti -e
trans-nazionali). Per tornare all’oracolo di Delfi è a noi noto il frammento
‘conosci te stesso’ ma non è dato di conoscere un altro frammento che in
qualche modo lo completa ‘niente di troppo’; non si tratta però di un’
ingiunzione moralista ma piuttosto di un ricercato e consapevole limite che
ognuno deve riscoprire, “non procedendo in modo lineare e per definizioni ma
andando a sbattere da una parte all’altra alla maniera di un cane che esplora
con metodo geometrico per intervalli e salti” come sosteneva Spinoza nella sua
etica, astenendoci dall’ascolto della coppia infernale del despota e del prete,
terribili giudici della vita che ci hanno ammalato. Seguendo poi le indicazioni
e i suggerimenti di Deleuze attrverso Spinoza, ‘selezionare segni e affetti,
come prima condizione per la nascita di un concetto, non implica solo uno
sforzo personale che ognuno deve fare di sé(la ragione), ma una lotta
passionale, un combattimento affettivo memorabile, con il rischio di morire, in
cui i segni affrontano i segni e gli affetti si scontrano con gli affetti,
perché si salvi un po’ di gioia di vita e di terra, e ci faccia uscire
dall’ombra e cambiare …’. Noi generazione
desiderante che prefiguravamo corpi senza organi con Artaud-Deleuze, sfondando
limiti siamo andati cercando e sperimentando per ragioni e passioni conoscitive oltre ogni confine o
limiti imposti dai domini di classe, di genere e di culture e altro di volontaria
servitù, trascurando a volte arrogantemente le osservazioni critiche di Lacan
(che ci invitava a riflettere su quel ‘niente di troppo’ di memoria delfiana)
indicandoci che il desiderio è anche mancanza, non solo affermazione di vita di
una vita piena di gioia a cui la metafisica forma platonica ci impediva
d’accedere; in questo confuso ed incompreso desiderio si è inserita una macchina
mediatica e pubblicitaria distruttiva e tossica che attraverso vetrine ed
agenzie territoriali, ed ora anche in modo più complice tracciando profili
attraverso calcoli o algoritmi predisposti come trappole dalle piattaforme virtuali commerciali del capitale
post-industriale. Profili e calcoli che
alimentano senza sosta l’incessante produzione-riproduzione, fabbriche di
precarietà e schiavitù operano distruzioni creative nelle lunghe
periferie-filiere , ed un narcisistico consumo-riconoscimento
d’effimere identità liquide nei centri metropolitani . Anche Pasolini sosteneva
che la televisione aveva generato una neo-lingua e distrutto ogni forma di
convivialità e giocosa produzione nelle borgate come nei più remoti paesi di
linguaggi –gerghi autentici. Paradossalmente andava sostenendo che la pubblicità e la televisione avevano distrutti
mondi di vita e relazione in modo più scientifico delle truppe nazi-fasciste
durante l’occupazione nazi-fascista.
Per Lacan infatti ‘la stessa esperienza del desiderio ipostatizza l’assenza:è l’esperienza di un’insoddisfazione, di una perdita di padronanza, di perdita d’identità”. Nasce in relazione al desiderio dell’altro ma tende ad introdurre una separazione. Alla fine si rivela come desiderio di niente perché nessun oggetto può essere adeguato a soddisfarlo. Ma allora, in certo senso, l’assenza è l’oggetto. Nei termini di Lacan, il desiderio è la metonimia della mancanza-a-essere :il suo motore è la mancanza, l’assenza dell’oggetto, cerca di saturarla ma è nell’impossibilità di farlo.”(Lacan tra presenza e assenza di Sergio Sabbatini)
Dalla super-egoica interdizione/proibizione all’imperativo dominate al godimento illimitato
“Ebbene, ora noi possiamo cogliere come tutto ciò sia in se stesso il sintomo di un’epoca, il sintomo dell’Altro interdittore e proibitore. L’epoca dell’Altro che non è più quello attuale, perchè ora questo Altro non esiste più (E’ stato spazzato via dalle rovuoluzioni culturali che hanno seguito in ondate differenti il ’68 (1968, la priomavera del ’77,il punk, cyberpunk, la Pantera ). Il suo declino, iniziato da molto tempo, è più che mai realizzato. Ora infatti noi siamo confrontati non più con l’Altro sociale della proibizione, ma l’Altro che ci spinge, nel senso opposto, alla soddisfazione, ci spinge e ci impone, in un certo senso, la soddisfazione, ci spinge alla liberazione delle pulsioni e nient’affatto ce lo interdice. Ora la nostra è l’epoca strutturata da questo nuovo super-io, che spinge al godimento, come aveva preannunicato Lacan, già nei primi anni settanta. L’epoca attuale è da questo punto di vista quella in cui la spinta innarrestabile alla soddisfazioni pulsionali più disparate, la spinta ai diritti al godimento di ciascuno installa in seno al sociale una follia generalizzata (una tossicità generalizzata). il sociale mai come oggi è stato investito e segnato al suo interno da questa dimensione, mai come oggi appare frantumato e frammentato dalla spinta ai godimenti particolari e non più limitabili, dai godimenti che la rete discorsiva sociale e le sue istituzioni faticano a contenere. Oggi sulla scia dell’imperativo super-egoico del godimento che prende corpo, sostanza dall’inesitenza dell’Altro proibitore (o per dirla Winnicott che contiene), il nesso tra follia (trasgressione) e libertà, si pone non alla periferia bensì al centro del sociale, dove si manifesta nient’affatto la presenza del limite ma al contrario la follia (l’illimitato, la tossicità) di una pura assenza del limite”. (F.de Andrè: l’anrchia non è solo rompere i limiti ma innanzittutto darsi i propri limiti). Tra parentesi note dell’autore del testo, pino de march), mentre il testo è tratto alle pgg-129-130 da “prospettive di psicoanalisi lacaniana, di M.Mazzotti,edizioni Borla 2009.
Altre visioni deleuziane quali il
divenire animale, vegetale ieri e avantieri donna si potevano percepire nelle
empatiche onda gretiane e di non una di meno che hanno attraversato le città di
ogni parte del globo terrestre occidentalizzato; questi nostri divenire erano ben
espressi con i corpi, cartelli e grida che rimbalzavano da una parte all’altra
delle maree. Una messa in discussione della separazione dal vivente e dai corpi
che ha caratterizzato grande parte della modernità, denunciato come grave ‘errore cartesiano’ dal neuro-scienziato
portoghese Damasio; separazione che ha prodotto nel corso del tempo un’alienata
rappresentazione del vivente e dei corpi, ritenuti a torto res extensa, cosa
estesa ed inanimata, un’insieme indistinto di corpi di donne, di nativi, di
terra, di animali, di vegetali e d’aria mondi viventi assoggettati ad un
dominio coloniale e patriarcale, antropocentrico ed etnocentrico millenario. Con
il divenire animale, Bruno come Deleuze,
riaffermano una inseparabile relazione empatica con quei corpi predati, sottomessi
e resi oggetti-cose; il divenire animale o nello specifico gatto signifca gattizzare,
o divenire vegetale significa rizomatizzare, divenire donna significa femministizzare.
Non più identità chiuse e separate ed alienate, dentro un vortice di
sopraffazione e violenza identitaria, ma identità migranti aperte ed
interconnesse trans-nazionali e trans-femminste, incarnazioni che rendono
soggetti d’amore e di comune appartenenza ogni genere, ogni cultura ed ogni
altra specie. Lo scontro tra il Capitale e la specie, lo ha analizzato,
dichiarato, combattuto e vissuto in uno scontro mortale fino al suicidio il
visionario e situazionale Cesarano in ‘apocalisse e rivoluzione’. Altri ed
altre hanno partecipato a questa lotta vitale e culturale è tra questi nostri/e
contemporanei vanno menzionalti l’ecologista sociale – murray bookchin e
l’ecologia della libertà, e le femministe Angela Davis con il suo
concetto-affetto dell’interconnessioni
dei domini e dell’intersezionalità dei dominati/e generi lgibtq,culture minori
e migranti, classi sociali subordinate e precarie e di Carla Lonzi con sputiamo
su Hegel, che invitava a partire da sé e dalla propria condizione d’oppressione
per cogliere poi in modo empatico e chiaro l’oppressione degli altri dominati o
dominate.
Divenire gatto per Deleuze ha anche un significato etico, lui stesso si
lasciava crescere delle lunghe unghie per manifestare tale immedesimazione, e andava
affermando che un’etica nuova doveva
saper ricombinare la selvatichezza del gatto con un etica appagante e
sobria spinoziana. Nessuno può stabilire sugli altri tristezza ed afflizione, diminuzione
di potenza di gioia, o fare promesse di gioie future dell’al di là, a sacrificio
della gioia presente, e tantomeno oscurare il mondo, o estinguere a nostra
discrezione antropocentrica-etnocentrica, di parti di altre culture o di altre specie
viventi sulla base di quello che riteniamo oggi utile od inutile. Questa
discrezionalità predatoria razzista, ecocida e specista è eticamente
inaccettabile. Questo perché siamo con molta probabilità come umanità, oggi
prevalentemente predatoria, una realtà emergente dal vivente come tutte le
altre specie; ed sistemi di dominazione umana – gerarchia e supremazia -non
sono un dato natura, ma imposti da culture antropocentriche, patriarcali,
etnocentriche. A noi è dato per cultura eco-femminista ed umana ritrovata il
senso di responsabilità, di empatia, e di presa in cura del vivente nella sua
complessità e non semplificato nelle visioni separate, dominanti ed
identitarie.
Sentio ergo sum- pino del march
Testo di riflessioni, emozioni e condi-visioni di Pino de March
Le origini mitiche d’Europa, le varie
interpretazioni del mito e l’attualità che il mito offre per ri- inventare oggi
l’Europa a partire dai suoi antichi – legami
Mediterranei ‘migranti’ e di segno lunare ‘matrista( O mater lineare )
Il MITO ANTICO D’EUROPA
Il mito d’Europa ha avuto diverse
narrazioni,ma fra tutte un ruolo dominante importante per conservarne la
memoria nel corso del tempo lo ebbe il poeta e scrittore latino Ovidio,
rinnovellandolo in una delle sue opere “Le Metamofosi”;
e sarà questa narrazione poetica che
influirà maggiormente nell’immaginario antico latino prima e rinascimentale
poi, giungendo fino a giorni nostri, oscurando altri lati diremmo lunari dello
stesso mito.
Scrittori ed artisti ripresero questo
testo ovidiano, cercando ognuno a suo modo di ripensarlo, ri-interpretarlo e
ri-immaginarlo.
Come del resto continueremo a fare noi.
Perché il valore del mito non è tanto nella sua veridicità, di cui nemmeno i
greci credevano, ma piuttosto sulla potenza che ha la retorica antica
(L’arte di ridisporre le cose e di
ricombinarle per ritrovare nuove comprensioni e possibilità di presenti che per
noi sono futuri anteriori)
di trarre da ogni mito il presente, e
quella potenza di invenzione comparabile con le favole di oggi come di ieri di
agire sull’immaginario dell’infanzia come dell’adolescenza, e non solo, per educare
a quella rara facoltà umana intellettiva che è l’immaginazione;
facoltà di prefigurare, di pre-visione
non realistica ma visionaria.
Educarci alle visioni e non alle
immagini, che veicolano ciò che ognuno può banalmente vedere;
infatti gli indovini del mondo antico
erano in prevalenza non vedenti,fra essi il più noto era Tiresia;
i non-vedenti per questa tragica
infermità, veniva attribuita loro, l’arte della pre-visioni che i vedenti non
avevano, quell’arte di scrutare e visionare il futuro.
Mito di Tiresia
Un giorno Zeus ed Era si trovarono
divisi su una controversia:chi potesse provare in amore più piacere:l’uomo o la
donna. Non riuscendo a giungere ad una conclusione, poiché Zeus sosteneva che
fosse la donna mentre Era sosteneva che fosse l’uomo, decisero di chiamare in
causa Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolvere la disputa ch
li divideva, essendo stato sia uomo che donna. Interpellato dagli dei, rispose
che il piacere si compone di dieci parti:l’uomo ne prova solo una e la donna
nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un
uomo. La dea Era, infuriata perché Tiresia aveva svelato un tale segreto, lo
fece diventare cieco, ma Zeus per ricompensarlo del danno subito, gli diede la
facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni:quindi
la decisione dell’una come dell’altro(di Era di accecarlo e di Zeus di renderlo
indovino per sette generazioni) diventava definitiva,
perché gli dei greci, non potevano
cancellare ciò che altri dei hanno deciso.
In questo tempo di cui tutti e tutte
siamo vittime sacrificali di un iper-realismo digital-distopico, che ci rende
incapace di generare visioni di mondi possibili, queste mitiche ed inusuali
visioni è ciò di cui tutti e tutte abbisogniamo.
I surrealisti poi sostenevano che anche attraverso
il sogno possiamo cogliere l’essenza intima della realtà.
Del resto una delle parole d’ordine del
più vasto movimento di liberazione europeo quello del’68 del secolo scorso, che
ha trasformato radicalmente la cultura autoritaria e tradizionalista, le
istituzioni totali residuali del fascismo, ma in particolare le relazioni tra
generazioni e generi, e di seguito nell’anno successivo 1969 con le lotte
ispirate ad un operaismo non determinista, ha mutato radicalmente le relazioni delle
classi subalterne nella fabbrica e nei distretti industriali, e non solo;
era l’immaginazione al potere che
significava rendere concrete le visioni dei mondi emergenti dalla ricerc-azione e dalla lotte, e attraverso il personale che
si faceva politico mettere in comune lotte ed esistenze.
Il testo che resiste nel tempo e
resterà per lungo il più conosciuto è quello delle Metamofosi di Ovidio(43-17
dell’era nuova).
L’EUROPA ED IL MEDITERRANEO
“.. La figlia del Re di Tiro in Libano (ma
anche di Libia e dei fenici
)Agenore
la cui beltade
non ebbe pari al mondo in quella
etade.
La figlia Europa ebbe si volto lo
sguardo
che accese al suo amor l’alto
motore divino.
Per lascivo pensiero, per troppo amore.
Fuori di ogni dignità e d’ogni
decoro.
Prese per troppo amore Zeus
l’aspetto del toro bianco.
(Tratto dalle Metamorfosi di
Ovidio).
Il racconto mitologico narra che Europa
era una principessa fenicia, figlia di Agenore e di Telefessa.
Zeus, avendola vista in spiaggia a raccogliere
fiori di croco(o di zafferano)insieme alle sue compagne se ne invaghisce, tanto
da chiedere ad Ermes di far avvicinare i buoi del padre di Europa verso quel
luogo,il litorale libanese, per non insospettire nessuno.
Il padre degli dei si trasformò in un
bellissimo e bianco toro che emanava profumo di rose, si avvicinò a carponi alla
fanciulla per nulla intimorita e si stese ai suoi piedi.
Ammirandone la mansuetudine e non
pensando minimamente che dietro potesse esserci un inganno, Europa gli salì
sulla groppa.
Appena egli avvertì che ella lo
cavalcava come una amazzone, Zeus se ne partì e la rapì attraversando il grande
mare mediterraneo trasportandola fino a Cnosso, sull’isola di Creta.
La fanciulla da Zeus generò tre figli,
tra i quali Minosse, re di Creta, Radamanto, giudice degli inferi e Serpedonte.
I tre figli vennero adottati dal marito
‘mortale’ della giovane Europa,Asterio,convinto da Zeus prima di ritornarsene
nell’Olimpo.
Ed Europa gravida ed infelice di questo
materno peso della riproduzione perse per sempre il suo desiderio-di potere di
volare come lo era per la dea luna e anche il potere di scegliere tempi e spazi
per sé, condivisi con il suo compagno di vita toro solare e di volare tra
oriente ed occidente.
Europa lunare e ‘migrante’
Con questo mito si rappresenta in
primis la migrazione da Oriente ad Occidente d’Europa, e al suo nome in seguito
vengono attribuiti tutti i territori occidentali;
Ed Europa si caratterizza per la sua
permanente de-territorializzazione,
non
resterà solo il nome dei territori ad occidente della Grecia antica , ma
assumerà il
simbolo dei vari transiti di genti e
culture dai continenti prossimi e conosciuti, Asia ed Africa . I culti dei
bovini e della luna che si riscontrano nel mito, anche loro accompagnarono
queste costanti migrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa verso la Grecia;
un altro aspetto celato del mito come
ci è stato tramandato da Ovidio, è che nelle corna del toro oltre alla potenza dominate
del virile-maschile, si riscontrano altri significati la stessa forma della
falce della luna,che collega, questo simbolo ad altri culti misterici
pre-ellenici della dea luna.
Questo raccontatoci da Ovidio non è un
mito qualsiasi ma è anche uno di quei miti che
segnano il passaggio da una cultura
matrista della dea luna e della grande madre, alla cultura patriarcale tout
court.
Con questo rapimento-filiazione Zeus, divinità
dominante maschile, vuole porre un definitivo dominio sul femminile,la terra e
i mari, interrompendo quella compresenza concreta ed immaginaria di culti
maschili e femminili.
In ogni caso il ratto d’Europa seguito
dalle nozze con la divinità e dai figli con essa concepiti, divenne emblematico
del nuovo destino che si vuole dare alla donna e all’unione di essa con il
maschile, che non sarebbe avvenuto più solo tra conterranei ma tra individui di
origini e specie diverse, anche animali.(Donna, non più signora della propria
esistenza-Dea Luna, ma semplice figura subalterna di riproduzione e
ricombinazione naturale e sociale)
Parsifae
moglie del re Minosse e regina di Creta quasi per contro significare l’accoppiamento
D’Europa con Zeus, sarà lei ad accoppiarsi ad un toro bianco donato da Poseidone
re del mare al re di Creta Minosse per punirlo, e da questa perversa unione
nascerà il Minotauro – un mostro vorace
di giovani e fanciulle, quotidianamente sacrificate che per acquietare la sua
feroce insazietà. Sarà poi Arianna, figlia di Parsifae ad riprendere il filo
della narrazione lunare indicando all’amato Teseo il modo per raggiungere ed
uccidere il feroce Minotauro, ma qeul filo donatogli gli permetterà di
ritrovare la via del ritorno alla
superficie, difficile per chiunque fino a quel momento, data la lunga oscura e
labirintica cavità ove il mostro era incatenato;
l’uccisione del mostro portavo un
grande significato di liberazione,quale quello di porre fine a riti barbarici sacrificali
di giovani e donne che ancora sopravvivevano in quelle terre.
Emergeva dal rapimento d’Europa e da questa
unione di lei con Zeus una nuova stirpe cretese di dominio reale patriarcale
sulle donne.
Però r-esisteva un’altra narrazione simile
a quella d’Europa compresente e precedente a quella del rapimento .
Dipinti pre-ellenici, raffigurano
Europa su di un toro, che racconta probabilmente un’altra storia quella della
Dea Luna trionfante in groppa al toro solare, che lei invece seduce, non
rapisce e non inganna, ma ne strappa il consenso.
Anche dall’etimologia della parola
Europa emerge questo legame matrista- lunare,
un nome composto di due parole greche:
Eurus –ampio
ed Ops occhio
O ampio sguardo, che sta anche per luna
piena ed è associata alla fertilità e libertà della grande madre.
In questo mito lunare di un’Europa non
dominata sono presenti altri tre elementi importanti:
l’ambivalenza delle corna del TORO:Non
solo il rapporto inscindibile tra gli esseri umani la natura, ma in modo vario,
e con più versioni e interpretazioni nei secoli, all’immagine del toro e delle
sue possenti corna è collegato lo spicchio della luna. Alla luna in qualche
modo si congiunge anche la figura di Europa, che secondo alcune interpretazioni
della parola stessa avrebbe il significato di “quella dal grande occhio”, ovvero
ancora una volta la luna o dell’ampia visione lunare.
La lunare femminilità’: La donna Europa che viene rapita con l’inganno, alla
fine sarà lei a prevalere sulla cultura violenta,virile ed ingannatrice del suo
rapitore e sullo stesso mare mediterraneo da lei attraversato.
Sarà lei ora Europa con la sua femminilità
pacifica e con quell’interculturalità mediterranea che porta con sé, propria da
quel vasto bacino d’acque ove molte culture s’affacciarono e s’interfacciarono,
nella sua secolare deriva territoriale
verso il Nord fino alle terre scandinave,
ad influenzare e meticciare tutte le culture
incontrate;
resta nella memoria condivisa
mediterranea l’esperienza cosmopolita della civiltà plurilingui sta e e
culturale ellenista, una cosmopoli con capitale culturale Alessandria al centro
del mediterraneo costruita da Alessandro Magno su una riva del Nilo,inoltre in
questa meravigliosa città sorgerà una delle biblioteche più importanti del
Mediterraneo.
E solo nel secondo Novecento sarà lei con
la sua potenza de-territorializzante a far ritrovare ad un continente devastato
ed impoverito da due tragiche guerre ri-territorializzanti fratricide
nazionaliste , con dieci e più milioni di esseri sterminati nei campi
nazi-fascisti, ed altrettanti nel molti campi di battaglia sparsi in ogni
angolo d’Europa quell’armonia e quella civiltà umanista e mediterranea perduta.
Lo stesso Manifesto per l’Europa, e non
è un caso, è stato pensato da un confino in un’isola quella di Ventotene che
non è certo un ‘isola del mare del nord ma del Mediterraneo.
E là che Spinelli, Rossi ed altri compagni prigionieri
dei fascisti,bagnati da quelle acque del sud e con la trionfante ed eroica resistenza
diffusa in ogni angolo del contenente, a cui aderirono molte donne in qualità
di staffette e partigiane, ma non solo ma anche genti di ogni minoranza
oppressa e soppressa(ebrei, sloveni, romanì, comunisti, socialisti,anarchici,
liberali, cristiano-sociali, libertari, lesbiche e omosessuali e altri ancora )
a ridare luce ad una gioiosa Europa pluriculturale
(L’Inno alla gioia di Bethoven ne attesta
l’emozione comune)
. Per molte/i di noi un’aspirazione su
tutte: che l’Europa, pur con tutte le critiche e le modifiche necessarie alle
sue politiche, consolidi la sua unità come luogo di giustizia, libertà pace e
civiltà.
Si presenta chiaro anche il diverso
rapporto dell’uomo e della donna rispetto alla seduzione o alla fascinazione.
(Baudrillard ci aiuta a dispiegarsi
all’interno di questi due concetti spesso ambigui o usati come sinonimi.)
Nella relazione di conquista amorosa con
Europa l’atteggiamento di Zeus (simbolo di maschilità antica)si base
sull’inganno, il dominio e la fascinazione;
per fascinazione s’intende strappare o
condurre con violenza ed inganno verso di sé l’amata privandola del suo sé o
del suo consenso.
Mentre l’atteggiamento d’Europa che
cavalca il toro solare in un’altra raffigurazione, parte da un gesto di
seduzione, di reciprocità ove i sé amanti s’incontrano in consenso, un sé-durre
o condursi a sé.
Infatti il toro solare della lettura
lunare del mito, accoglie l’amata sulla
sua groppa e lei acconsente a questa traversata e ne condivide il viaggio, le
mete ed ogni altra decisione.
Infatti la Luna con i suoi influssi conduce a sé le acque dei mari e
oceani e le lei va verso quelle acque, come tutti gli altri elementi ove
esercita questa sua potenza attrattiva amorosa.
E sarà ancora lei Europa in un
continente tra le macerie delle città bombardate, a condurre a sé ed ognuno
versò sé le genti stremate dalla guerra, dalla prigionia e dai campi di
sterminio a chiamarle ad una pacifica convivenza e pattuire con tutte quelle
genti de-territorializzate un patto di non belligeranza.
IL MARE Mediterraneo: Il movimento, la
fonte della vita.
Richiama all’itinerario migrante della
storia del nostro continente : il rapporto tra le genti, l’idea del
Mediterraneo come elemento aggregante ed interculturale.
Un drammaturgo Davide Enia in una sua
opera teatrale Abisso riprende il mito d’Europa attualizzandolo.
ENIA RACCONTA DI COME EMERGE LA TRAMA DEL
SUO RACCONTO NEO-REALISTA
Il primo sbarco l’ho visto a Lampedusa
assieme a mio padre.
Approdarono al molo in tantissimi, ragazzi e
bambine, per lo più era la Storia quella che ci era accaduta davanti.
La
Storia che si studia nei libri e che riempie le pellicole dei film e dei
documentari.
Ho trascorso molto tempo sull’isola per provare a costruire un dialogo con i
testimoni diretti: i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i
residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori.
Durante i nostri incontri si parlava in
dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi
secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli.
Ne L’abisso si usano i linguaggi propri del teatro (il gesto, il canto,
il cunto) per affrontare il mosaico di questo tempo presente.
Quanto sta accadendo a Lampedusa non è soltanto il punto di incontro tra
geografie e culture differenti. È per davvero un ponte tra periodi storici
diversi, il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a oggi e quello che potrà
essere domani. Sta già cambiando tutto. E sta cambiando da più di un quarto di
secolo.
Davide Enia si è fatto conoscere per la forza
trascinante delle sue parole, per il gesto sempre vibrante e mai eccessivo, per
i testi dove la drammaturgia esplode con forza su tutto l’apparato
scenotecnico. E’ anche il caso de L’Abisso,
lo spettacolo tratto dal suo ultimo testo Appunti per un naufragio edito
dalla Sellerio, andato in scena al Teatro
India.
Un viaggio prima di tutto interiore alla
riscoperta delle proprie radici, proprio nel mezzo di un incontro-scontro con
masse d’uomini e donne che quelle radici sono stati loro malgrado costretti a
sradicare.
Ed è il mare che lega in qualche modo i destini
di Davide a quelli dei suoi amici lampedusani, a suo padre, all’amato zio, un
mare lungo, lento, ma anche crudele, il Mediterraneo, sopra il quale continuano
a galleggiare corpi, irrimediabilmente inghiottiti e poi per sempre sospesi
nell’abisso. Si parte da qui, dal pianto composto di un enorme sommozzatore che
ogni giorno quei corpi li raccoglie dall’acqua come una nera messe, dove ogni
stagione, senza sosta, porta il suo macabro raccolto.
Davide Enia e Giulio Barocchieri ne L’Abisso
Non è facile parlare di un tema ostico e
controverso come quello degli sbarchi in Sicilia, a Lampedusa, un’isola
diventata crocevia umano di destini, non sempre facili a intrecciarsi, ma Enia
lo fa con garbo, raccontando il suo di naufragio. E’ un racconto emozionale, ma
non da lacrimuccia facile studiata a tavolino, custodisce piuttosto il fascino
di un’antica nenia, accompagnato con altrettanta maestria dalle corde di Giulio Barocchieri, tanto che si
potrebbe quasi chiudere gli occhi e semplicemente ascoltare. Ma non è facile
l’ascolto di certe vite spezzate, violate, strappate quasi all’anima con una
brutalità che stentiamo a riconoscere come “umana”, Enia ci racconta allora il
suo di disagio, quello di naufrago perso anche lui fra quelle vite così
defraudate, di come la strana reazione al dolore lo porti a fare marmellate e a
trincerarsi dietro quello stesso mutismo che lo aveva allontanato dagli affetti
più cari. Perché l’essere umano è una strana macchina, facile a incepparsi.
Ma Davide Enia è maestro della parola e
attraverso il suo discorso di uomo che si riscopre figlio, in un improvvisato
viaggio con suo padre da cui è diviso da un silenzio profondo quanto quel mare,
riesce a unire i punti di quella sospensione galleggiante, di parole non dette,
di approdi mai raggiunti. Questo ponte fra il vissuto personale dell’artista e
il volto cambiato di una terra investita dalla disperazione d’altri ci porta a
camminare con lucida consapevolezza su quel ponte, ancora impreparati forse, ma
decisi almeno a non aggrapparci più alle corde del pregiudizio. Un monologo
intenso, bellissimo, nudo e crudo nel suo allestimento volutamente povero, dove
a vincere, nel bene e nel male, è solo la storia, non tanto quella che il
Davide uomo ci ha raccontato, ma piuttosto quella che abbiamo deciso di
ascoltare.
TRAMA
Europa
in fuga con la sua gente dalle città in fiamme per le guerre che devastano il
continente asiatico ed africano, come Enea dalla città di Troia, e dopo una
lunga traversata del deserto con le sue donne, bambini, giovani e uomini
stremati per la sete e per la fame lasciandosi alle spalle vecchie e non che
non hanno retto la traversata, giungono in una notte di luna piena su litorale
libico mediterraneo. Affamati e terrorizzati per quanto ancora li può accadere
di incontrare dalle narrazioni di altri profughi giunti fino là:
trafficanti
senza scrupoli di corpi, di organi e pericolose traversate del mediterraneo su
fatiscenti barche e barconi (vele della fame direbbe Pasolini in Profezia)e la più
inquietante per tutti , la guardia costiera libica che li può catturare e
condurre in campi di schiavitù, concentramento e detenzione senza fine ove le
percosse, le violenze, gli stupri e le torture sono quotidianità di ogni
prigioniero nell’Auschwitz del Mediterraneo(sosteneva Franco Berardi una sua
opera ‘maledetta’), ed invece a sorpresa là su quel litorale che inquieta ogni
profugo appare alle prime luci dell’alba un grande toro bianco disteso e
mansueto, ma seppur tal immagine non generasse paura, pur tuttavia i profughi
ne temono l’inganno.
Una
volta che loro sono là di fronte a questa nuova realtà quasi chimerica, il toro
spalanca la sua bocca, come la balena bianca per pinocchio, e all’interno
appare una grande barca e molti bianchi e bianche pescatrici, che li invitano a
salire. Loro salgono e con grande gioia dopo giorni di mare approdano a Cnosso
nell’isola di Creta accolti come fratelli e sorelle degli abitanti del luogo.
AD ENEA UN ALTRO MIGRANTE DA GUERRE ED
IN FUGA DALLA SUA CITTA’ IN FIAMME, ACCADRA’ MOLTI SECOLI PRIMA LO STESSO
DRAMMA E VIAGGIO, ED E’ TRA COLORO CHE CONTRIBUIRANNO ENORMEMENTE ALLA NOSTRA
CIVILTA’ MEDITERRANEA
Per quanto possa sembrare curioso né
Virgilio né Orazio parlano d’Europa. Enea nel poema virgiliano sembra incarnare
una fusione tra Oriente ed Occidente,dove non si marcano le differenze ma i
punti di contatto, tra l’Europa del suo futuro e l’Asia del suo passato.
EUROPADALL’INDENTITA’ MULTIPLA FIN
DALL’INIZIO DELL’ERA NUOVA
Alla ricchezza di tradizioni, di beni,
di popolazione dell’Europa allude il geografo latino Strambone(60 era antica e
24 era nuova), quando afferma che “ essa ha grande varietà di forme , è
popolata di regni politici di valore, è stata per il mondo la grande
dispensatrice di beni, che le erano propri. Senza contare che è abitabile nella
sua totalità ad eccezione di una piccola frazione disabitata per via del gelo
al confine con i popoli che vivono nei carri ossia nomadi. E’ qui è ben
evidenziata la sua estensione tra le acque del Mediterraneo e i ghiacci dei
paesi nordici.
Nel Novecento non mancò
un’interpretazione nazista del mito dell’Europa, con questo mito voleva dimostrare
che gli europei avessero un’antica origine ariana, essendo Europa una
principessa orientale. Gli ideologi nazisti nelle loro ossessioni razziste e
mono-culturali pare non conoscessero esattamente l’origini territoriali di
Europa, che non era figlia di un principe indiano d’ascendenze indo-europee ma
di Agerone Re di Tiro, antica città fenicia(attuale Libano).
Questa improbabile interpretazione non
trovò molto spazio tra gli intellettuali e gli scienziati del tempo, ma
piuttosto le mote altre interpretazioni la raffigurano come una migrante da
oriente ad occidente.
Tante le spiegazioni e le teorie che spiegano perché Europa divenne il nome del nostro continente, ma tutte richiamano il legame profondo fra le varie civiltà mediterranee -medio-orientali, egiziana, greca, etrusca romana che in modi diversi arrivarono a meticciare per vie differenti la storia culturale del nostro continente. Relazione di Pino de March al seminario di Labas-comunimappe su una mitica Europa lunare e migrante