Report ed Approfondimenti Storici – Culturali

alla QUARTA (4) FESTA ZIGANA

Ad una giovane ragazza (romni) e alle donne (o romaja)

Essere in festa

Essere noi

Anche se nulla resta

Giovane romni

ball

Fai nostra la vita

Falla girare come una stella

Falla girare tu che sei 

Calda come il sole e sempre bella”.

Frammento poetico tratto dal testo “la giovane romni” della poeta Marcella Colaci, una delle poesie donateci e dedicate ad una giovane (romni) e alle donne (pl.romaja) romanì.

Organizzata dal Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti

in cooperazione con il ‘Centro Sociale la pace -Via del Pratello 53 -Bologna e con Comunimappe- la Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

Testo artistico e -visivo realizzato dal nostro ricerc-a-t-t-ore Raffaele Petrone

Le giornate che hanno preceduto la festa sono state d’intensissima attività per garantire che tutto vada per il meglio,

per raggiungere più gente possibile riprendendo per mano i nostri congelati contatti pre-covid e soprattutto che tutt@ la gente che ci raggiungerà rimanga soddisfatt@ ,

per il cibo biologico e sostenibile che ci siamo procurati (da Rita -drogheria, al 53 di Via Pietralata-Pratello) per soddisfare non solo i nostri palati ma anche la Terra che ultimamente non se la passa bene e noi e gli altri esseri che la popolano tanto meno,

cibo vario e preparato con cura da Francesca Vacanti la nostra ‘cuoca’ appassionata e ricercatrice creativa di gusti e sapori delle varie tradizioni culinarie mediterranee (e per questa volta a suo dire non proprio zigani),

per la musica jazz popolare, contaminata dalle musiche Manush (dall’indiano mànusa o essere umano) francesi, dalla trazione zigana europea, e dal jazz americano degli anni trenta del secolo scorso portato a sintesi dalla genialità di Django Rehinardt, un romanì’ belga-francese;

musica ricercata, elaborata e coinvolgente dal suono semplice e complesso e allo stesso tempo eseguiti con grande passione da tre ricercatori-amici musicisti: i chitarristi Simone Marcandalli e Bruno Balsamo e dal controbbassista Agostino Ciraci,

ed infine per le nostre ricerche e narrazioni culturali (storiche -sociali) sulla presenza plurisecolare (il prossimo anno sono seicento anni di documentata presenza) delle comunità romanì (Rom e Sinte) disperse e marginalizzate da parte di Pino d March, vice-presidente di Mirs e docente e ricer-a-t-tore di Comunimappe,

come le tre volte precedenti in zona ortiva in via Erbosa 17.

Dopo un lungo confinamento che dura da quasi due anni e con l’attuale presenza endemica seppur attenuta del virus, l’idea di fare festa ci intriga parecchio, pur sapendo che quelle danze e quelli slanci vissuti nelle feste precedenti rimangono un sogno, alla stregua del desiderio di tornare a quella calda e forte convivialità che molti di noi hanno già sperimentato.

Ed è subito sabato sera.

Nella prima mezz’ora d’attesa quando tutto era predisposto, in noi si alternavano stati d’animo diversi, da un lato il desiderio di ritrovare quella convivialità perduta e dall’altra la preoccupazione per lo spettro del fallimento della festa-simposio precedente al Centro Costa, però con l’arrivo dei primi ospiti il nostro umore via via si tramuta di segno.

La gioia si fa doppia con l’arrivo dei primi convenuti tra cui molti bambini,

uno per l’arrivo delle persone e due per il fatto che molti tra loro sono nostr@ conoscent@ o amic@ che non vedevamo da molto tempo.

Il nostro staff è rigorosamente ad identità multipla e comunitaria rom-sinto -gagiana, composto da un numero esiguo di persone ma tutte ben motivate: Lucia Argentati, Marina Cremaschi, Fabien F.B, Francesca Vacanti, Tomas Fulli , Aghiran Sibian, Raffaele Petrone ed infine Pino de March, che contribuiranno all’accoglienza, e alla distribuzione dei cibi e vini, a ravvivare la conversazione e le narrazionedell’esperienza nell’assemblea.

Quando il giardino si riempie di persone e tra loro a sorpresa molti bambin@ (che rappresentano per i romanì il futuro) diamo via all’assemblea che abbiamo disposto in forma circolare :

per ribadire l’orizzontalità, la reciprocità e la democraziadi base e partecipata che caratterizza le nostre relazioni sociali,

ma anche per riconfermare la forma circolare, archetipo della convivialità romanì sia quando si mangia, sia quando si conversa, sia quando si danza, sia quando si devono prendere delle decisioni , di solito per i romanì (Rom, Sinti, come per i Manush o i Kalè), questo avveniva e avviene ancor oggi, quando si creano le condizioni di ritrovarsi attorno ad un fuoco dopo il tramonto, con le fiamme sempre vive ad illuminare i volti e e a riscaldare i partecipanti al convivio ‘zigano’.

Numerosi tra i partecipanti alla festa confluiscono nell’agorà in fondo al giardino all’invito rivolto da Tomas Fulli il Presidente di Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti e parte della comunità urbana Sinta,

sarà lui ad aprire la seduta illustrando gli obiettivi dell’associazione che sono in primis quelli di ricreare buone relazioni di convivenza e solidarietà nella nostra città-comune metropolitana tra comunità urbane Rom, Sinti e Gagé,

ma anche di riportare nelle aule scolastiche ed in quelle universitarie, come nelle relative didattiche – cioè programmi ed argomenti trattati nei corsi,

attraverso la cooperazione educativa tra i docenti ed educatori delle varie istituzioni scolastiche ed universitarie ed i nostri ‘mediatori nomadi’ dei laboratori transculturali del Mirs,

non solo azioni informative ed educative comuni per contrastare antiche e perduranti discriminazioni: stigmi e pregiudizi ‘antiziganiverso le individualità e le comunità romanì,

ma soprattutto far conoscere la variegata cultura romanes: storico-linguistica-culturale ai giovani rom e sinti ma anche ai gagi,

culture romanes (e la romanipé, o il divenire della cultura e dell’identità romanì) che hanno contribuito in molti campi dalla musica al cinema,passando per la danza, le arti circensi, la poesia e molti altri campi comprese molte delle attività artigianali: la lavorazione dei metalli, l’allevamento dei cavalli, i cestai ed impagliatori, i lavoratori del legno,la produzione di mattoni, tosatori di animali ecc.,, a cui s’accompagna sempre una loro precisa filosofia della vita: ‘lavorare per vivere e non vivere per lavorare’ , arti e mestieri che hanno contribuito ad arricchire la cultura italiana ed europea,

inoltre porre cura alla condizione esistenziale e sociale dei romanì (Rom e Sinti) urbanizzati, in appartamenti o nelle micro-aree alla periferia della nostra città, micro-aree anche quelle di recente costruzione che richiedono ulteriori interventi di estensione degli spazi, sia quello destinati all’abitare che quelli destinati alla comune utilità,

come quelli residenti in campi – sosta provvisori da troppo tempo ormai, privi di dignitosi servizi alle persone e alla comunità, ma anche verso quei campi improvvisati e dispersi nelle periferie, ove si presentano ancora gravi difficoltà per i minori a raggiungere gli istituti scolastici.

A ruota segue l’intervento di Donatella Ascari di ‘Khetane – insieme’, associazione e movimento presente in tutto il territorio nazionale “contro il razzismo e l’antiziganismo e per la giustizia sociale”, ella illustra gli scopi e gli obiettivi politici e culturali del suo movimento,

il quale mira a portare attenzione sulle culture e le lingue di popolazioni spesso ignorate, abusate e strumentalizzate.

Avvicinarsi a un fenomeno umano, sociale e culturale col preciso fine di cambiare prospettiva, al fine di considerare queste minoranze come parte culturale, linguistica, sociale ed economica per nostro comune-Paese.

L’attività degli associati a ‘Khetane -insieme’ è quella di:

aumentare quantitativamente e qualitativamente l’intervento e l’analisi scientifica in chiave divulgativa della conoscenza delle minoranze romanì che non possedendo i requisiti costituzionali dell’addensata territorialità, essendone disperse o presenti a macchia di leopardo in molti altri territori regionali, urbani o metropolitani, non possono ancora godere delle stesse tutele costituzionali delle minoranze territorializzate,

– di supportare le decisioni della Politica istituzionale e delle politiche socio-sanitarie, culturali ed urbanistiche ecc,,

– d’intrecciare relazioni politiche e culturali con gli attori sociali nei territori ove risiedono in forma stabile o provvisorio popolazioni romanì.

La Costituzione Repubblicana pur prevedendo forme di garanzia e tutela verso tutte le minoranze linguistiche e culturali italiane territorializzate, in pratica non prevede, per una probabile limitata conoscenza dei Costituenti (all’Assemblea Costituente) della condizione socio-abitativa e culturale dei cittadini/e italiani/e romanì(Rom e Sinti), comunità che rappresentavano una specificità ed eccezionalità sociale e culturale non solo in Italia anche in altri stati europei ove vivono a milioni le comunità romanì;

realtà di minoranza tra le minoranze, oscurata da lungo tempo ormai, per le cause più diverse: in primis l’assenza di rappresentanti politici alla Costituente, che potevano focalizzare lo sguardo sull’eccezionalità della condizione esistenziale, sociale e culturale dei romanì, per secolari motivi pregiudiziali, nonostante che numerosi tra i ‘romanì’ (Rom, Sinti, Manush, Kalè ecc), abbiamo partecipato alla Resistenza anti-fascista e alla rinascita della Repubblica democratica italiana e delle altre repubbliche in Europa.

La Costituzione repubblicana italiana non prevede ancora misure adeguate allo scopo per quelle comunità disperse o nomadi, ma al giorno d’oggi in larga parte urbanizzate in forma stabile in case o appartamenti o provvisorie in campi-sosta,se non quella dell’inserimento nelle classi di ogni ordine e gradi di individualità nomadi o sedentarie romanì, ma questa misura seppur di civiltà, non provvede e non prevede verso questi cittadini/e scolarizzati romanì, l’uguaglianza di trattamento previsto per le altre minoranze territorializzate: francesi, tedesche, slovene ed altro, cioè il riconoscimento, la trasmissione -memoria e l’apprendimento della loro specificità linguistica e cultura romanes;

una variegata cultura e lingua romanes per secoli orale, che era comune alla moltitudine di altri strati popolari europei, ma aggravata nel periodo dell’obbligo all’alfabetizzazione di massa alla cultura nazionale maggioritaria, dal non riconoscimento delle specificità culturali minori, e sottoposta a processi di colonizzazione o alfabetizzazione forzata, subita da tutte le culture -lingue minori (ebraica, romanes, slovena, albanese, bretone, sarda ecc) fino alla metà del secolo scorso da parte di quelle maggioritarie dei paesi di residenza o di transito;

però la negazione e la colonizzazione istituzionale(nelle scuole ed università)delle culture romanes è ancora presente, non certo nella dimensione del privato-sociale (nel mondo delle associazioni romanì;

le culture minore romanes con la sua storia, lingua e cultura minore nello specifico ora possiedono una versione standard o scritta, lingua e culturada considerare a tutti gli effetti neo-indiana,derivata da una lingua volgare (dialettale-popolare) e non sacerdotale (come quella sanscrita), che però ora si può considerare a tutti gli effetti parte delle lingue e culture europee, essendo parlata da milioni di cittadini romanì in Europa.

Segue ‘intervento di Raffaele Petrone,docente e ricercatore artistico -visivo e socio del Mirs, che si è focalizzato sulla realizzazione della mostra ‘Porrajmos (divoramento in lingua rom-romanes) ,e Samudaripen (grande morte nella variante linguistica sinta-romanes) e sul suo ruolo artistico e visivo di ricerca negli archivi storici e visivi per trarre le foto relative allo sterminio seriale, sistematico ed industriale delle genti romanì in Europa, durante il tragico periodo totalitario dei regimi nazisti come di quelli complici e collaborazionisti fascisti in Europa;

inoltre sostiene che la mostra illustra anche la motivata, sofferta e larga partecipazione delle genti romanì alla Resistenza, sia nelle brigate organizzate dai partigiani gagè che nelle loro brigate composte prevalentemente da Sinti ed altre di Rom :n Piemonte, Veneto e Friuli come in molte altre parti d’Italia ed in Europa.

La mostra fotografica esposta all’interno del Centro Sociale durante la festa zigana e negli anni precedenti nomade in molte scuole, centri sociali e spazi comunali di quartiere, ribadisce che non è semplicemente una mostra fotografica sui tragici avvenimenti di quelli anni, ma soprattutto un documento visivo importante che accerta e testimonia quelli eventi tragici per le genti romanì e non solo;

nella sequenza fotografica si evidenziano nel primo tratto di essa i fenomeni di anti-ziganismo e discriminazione precedente al costituirsi dei regimi nazi-fascisti (nel primo come nel secondo Reich in Germania come in molti altri stati liberali europei), e poi nelle sequenze fotografiche successive l’intensificarsi nel Terzo Reich nazi-fascisti (1933-45) come negli altri stati fascisti della persecuzione, deportazione, sterminio, oppressione, torture, vivisezioni, atroci sperimenti

“scientificidei romanì, come delle culture minori, di tutti gli oppositori democratici dai monarchici agli anarchici, passando per cattolici, liberali, radicali, comunisti e socialisti, di tipo matrice politica o religiosa,delle classi subalterne e proletarie, degli atri generi lgbtq, dei pazienti psichiatrici come dei portatori di handicap. Nelle ultime immagini si evidenziano dalle mappe storiche europee il progressivo restringersi dei territori fascistizzati e il chiaro apparire di territori liberati (tra essi molte piccole repubbliche partigiane) sotto la pressione popolare armata della straordinaria e gloriosa Resistenza dei Romanì come di tutti gli altri popoli di maggioranza come di minoranza in tutta Europa.

Brunella Guida interviene su invito del Presidente presentandola come amica delle comunità urbane Rom e Sinte della nostra città, apre il suo discorso presentandosi come attivista di Coalizione civica, oltre che consigliera uscente e ricandidata nel nuovo consiglio di Quartiere Navile nelle liste di Colazione-Civica-Centro Sinistra;

nel suo intervento sottolinea che la sua attività politica ed amministrativa, si è caratterizzata per l’attenzione posta ai bisogni del territorio, cercando sempre di stabilire un rapporto stretto con i cittadin@ e in particolare con la comunità Sinta della nostra periferia est, presente ormai da decenni, cioè dal tempo dell’assassinio di due componenti la comunità Sinta, Patrizia della Santina e Rodolfo Bellinati da parte di una banda armata ‘razzista-fascista di poliziotti, i fratelli Savi dell’A1 -Bianca, nella notte del 23 dicembre 1990;

in quell’occasione il Sindaco Imbeni della giunta di sinistra della città decise di concedere in comodato il territorio corrispondente al campo sosta di Via Erbosa in Bolognina,per sottrarli ad altre possibile rappresaglie e promettendo loro una successiva soluzione abitativa;

Brunella nella sua attività politica non solo è presente ai diversi simposi rom-sinto-gagiani di Comunimappe e del Cesp-Cobas -Centro Studi per la Scuola Pubblica (corsi di auto-formazione dei docenti ed educatori), ma ne condivide il dramma e la precarietà del campo sosta di Via Erbosa, le difficoltà di inclusione scolastica relativa alla scolarizzazione delle nuove generazioni delle comunità urbane Rom e Sinte, ed inoltre nei suoi diversi incontri con alcuni componenti le comunità Sinta e Rom ha riscontrato la solida umanità che in esse ha ritrovato, e soprattutto lo sguardo non comune e non scontato per quanto riguarda le condizioni che costringono alla marginalità, giovani e meno giovani sia essi rom, sinti o gagi;

ella pure condivide da sempre le proposte sia del Mirs che di Kethanè sulla condizione relativa all’abitabilità e l’accesso alla casa, denunciando la presenza di molti fabbricati pubblici e privati in abbandono nelle nostre periferie, fabbricati che a suo parere potrebbero essere riutilizzati sia per uso abitativo, che da ri- destinare a nuove attività, come luoghi di raccolta e del riuso dei materiali che nello stesso tempo potrebbero anche valorizzare alcune specifiche professionalità (raccolta di ferro, metalli ed altri oggetti riutilizzabili) delle popolazioni Rom e Sinte, e come primo passo per avviare un’economia circolare che accompagni la transizione ecologica delle città;

ma anche da destinare come spazio di documentazione – memoria culturale romanes, oltre che a lungo d’incontro e socialità tra romanì , migranti e dei gagi;

riprende le proposte di Tomas relative alla necessaria presenza della cultura romanes nelle didattiche scolastiche (programmi) ma soprattutto insiste sulla necessità di disporre di spazi specifici: un centro delle culture romanes che potrebbe fungere da luogo di documentazione storica-culturale,ma anche dove si può svolgere in presenza attività per far rivivere la cultura e la lingua romanes, ma anche ove organizzare dibattiti,presentazioni di libri e materiali visivi, corsi di musica e di ballo, per tutti e tutte, ma soprattutto spazio di una nuova socialità tra nuove generazioni rom, sinti,migranti e gagè.

come militante di coalizione civica mi sono sempre battuta per favorire un auto-rappresentazione politica diretta delle comunità tutte da quelle migranti fino a quelle urbane delle genti Rom e Sinte; per questo motivo io stessa avevo proposto a Tomas Fulli di candidarsi nella nostra lista, proposta che lui ha declinato, non perché fosse irricevibile, ma sostenendo invece di non essere ancora preparato per un tale importante incarico.

Aghiran Sibian, socio fondatore di MIRS e parte della comunità urbana Rom-romani

Pino de March presenta all’assemblea il progetto:

BOLOGNA1422-2022: Seicento anni di documentata presenza di genti “romanì”(Egiziani o cingari) in Italia.

ll prossimo anno 2022 intendiamo ricordare come Mirs -Mediatori Rom e Sinti, ma anche come di Comunimpappe, la libera Comune Università pluriversità della Bolognina, con varie iniziative pubbliche nella nostra città, per ricordare i 600 anni che intercorrono tra quel 18/7/1422 e di prossimo 18/7/2022;

passaggio e permanenza documentata di genti ‘egiziane’ (antenati dei nostri romanì -rom e sinti)

in un Cronaca del tempo deposta nel nostro Archivio di Stato -Città di Bologna;

la presenza di un nutrito gruppo nomade (circa un centinaio) proveniente dal Nord -Europa e diretta a Roma sotto la guida del duca Andrea del Piccolo Egitto si presentarono alle autorità pubbliche laiche e religiose della nostra città come genti provenienti dall’Egitto, e con un salvacondotto dell’imperatore dei Romani (ultimo del Sacro Romano Impero) Sigismondo d’Ungheria e di Boemia, ottenendo dalla città una generosa accoglienza ed ospitalità per alcune settimane nel portico del castello pontificio di Porta Galliera (lato autostazione).

Il documento presente nel nostro archivio di Stato della città di Bologna, documenta la

prima cronaca italiana che racconta della presenza di un vasta comunità d’ egiziani, da parte di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis“), del loro arrivo e della loro permanenza a Bologna nel luglio del 1422:

«A dì 18 de luglio venne in Bologna uno ducha d’Ezitto, lo quale havea nome el ducha Andrea, et venne cum donne, puti et homini de suo paese; et si possevano essere ben cento persone (…) si demorarono alla porta de Galiera, dentro et fuora, et si dormivano soto li portighi, salvo che il ducha, che stava in l’albergo da re (presso il Bentivoglio); et (…) gli andava de molta gente a vedere, perché gli era la mogliera del ducha, la quale diseva che la sapeva indivinare e dire quello che la persona dovea avere in soa vita et ancho quello che havea al presente, et quanti figlioli haveano et se una femmina gli era bona o cativa, et s’igli aveano difecto in la persona; et de assai disea il vero e da sai no (…)Tale duca aveva rinnegato la fede cristiana e il Re d’Ungheria prese la sua terra a lui. Dopodiché il Re d’Ungheria volle che andassero per il mondo 7 anni e che si recassero a Roma dal Papa e poscia tornassero alloro Paese.»
(in Ludovico Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Milano, typ. Societatis palatinae, 1731, tom. XVIII, cc. 611-612)

La ragione prima del loro ‘pellegrinaggio’ verso Roma di questi insoliti ‘egiziani’ fu quella di cercare una protezione più universale , che solo il Papa li poteva concedere, dopo che Sigismondo d’Ungheria e di Boemia, li avesse accusati d’apostasia, ovvero di avere rinnegato alcuni principi della fede cristiana, cioè di ritenere ‘l’esistenza di un dio buono e di uno cattivo’, allontanandosi non solo dai principi cattolici ma anche alla fede dell’Imperatore Sigismondo, a cui ogni suddito deve esserne soggetto; Sigismondo era considerato un riformatore e fedele sostenitore dell’antipapa Giovanni XXIII, fino al Concilio di Costanza;

(Con il Concilio di Costanza 1414-18 si pose fine allo scisma d’occidente, ove si stabilì la dimissione dei tre papi regnati:Gregorio XII a Roma, Benedetto XIII ad Avignone e Giovanni XXIII a Pisa (Bologna le Romagne), e di comune accordo di tutti i cardinali, vescovi e regnanti cattolici si procedette all’elezione di Martino V, un Papa che conciliava tutte le varie posizioni di fede e di potere).

Per questa sospettata apostasia Sigismondo sottrasse agli ‘egiziani’ la protezione e le terre dove dimoravano, costringendoli prima a ribattezzarsi, e poi di andare in giro per il mondo per sette anni come atto di penitenza oltre che recarsi in pellegrinaggio a Roma dal Papa, se volevano ri-ottenere da Lui,la protezione e le terre;

per questo ‘pellegrinaggio settennale’ l’Imperatore dei Romani’ Sigismondo concesse loro un salvacondotto che consisteva nel ‘riconoscimento imperiale che obbliga città e stati visitati all’ospitalità e ad una certa benevola giustizia ‘nel caso sottraessero beni necessari alla loro sopravvivenza, inoltre erano liberati dal pagare gabelle o tasse per i loro transiti.

Nelle varie cronache come in questa del 1422,quando si racconta dell’incontro con queste comunità di “pellegrini“, un importante aspetto che viene rimarcato delle loro principali attività sembra essere legato al dono della divinazione o della predizione del futuro, così come del commercio dei cavalli, che questi pellegrini “antenati dei nostri romanì” accompagnavano alle loro richieste di aiuto. Le stesse cronache, allo stesso tempo, sono anche le prime a testimoniare dell’insorgere dei pregiudizi nei confronti di questi ‘pellegrini, i quali vengono spesso accusati di furti, che riguardano prevalentemente la sottrazione di beni di stretta necessità, ma nella maggioranza dei casi in molte città che attraversarono o dimoravano, non solo venivano accolti in spazi pubblici (a Bologna sotto i portici del Castello del legato pontificio)ma venivano donati anche beni per la loro permanenza e al fine di continuare il viaggio.

Sia a Bologna (luglio 1422) che a Forlì(agosto 1422), oltre che per i tratti somatici che ne caratterizzavano l’appartenenza ad una diversa etnia, (gli egiziani) furono notati soprattutto per l’aspetto rude ed “inselvatichito” dalla fame e dalle difficoltà del viaggio.

A partire dal 1448, alcune comunità di “egiziani” si insediarono nell’Italia settentrionale, nel territorio compreso tra Ferrara, Modena, Reggio e Finale Emilia. Stazionavano in aree di confine, spesso gravitando intorno ai principali luoghi di mercato dove potevano commerciare in cavalli, utensili di rame e di ferro fabbricati da loro stessi, e le donne si dedicavano al vaticinio del futuro. A volte in seguito definiti Cingari militarono come mercenari al soldo dei signori, come nel 1469 per gli Estensi di Ferrara, o per il Bentivoglio di Bologna nel 1488. In quegli stessi anni le cronache riportano il loro arrivo a Napoli. Questi egiziani o cingari (antenati dei romanì) recavano lettere – salvacondotti firmate dal Papa, uno dei primi che essi dissero d’incontrare fu Martino V (1423) sulla cui autenticità permangono forti dubbi, attraverso queste si chiedeva alle autorità laiche o religiose delle città in cui giungevano. protezione e libertà di prendere le cose necessarie alla sopravvivenza (vissute dai sedentari come furti).

Per quasi un secolo ricorreranno nelle varie e sporadiche cronache attestanti la presenza dei primi gruppi egiziani o cingari nella penisola.

La cronaca della città di Fermo riporta che era stato esibito un documento del Papa “che permetteva loro di rubare impunemente“.

Di eventuali lettere firmate dal Papa non è stata trovata traccia negli archivi vaticani, anche se un documento che attesta la presenza dei romanì a Napoli nel 1435 lascerebbe aperta l’ipotesi che alcune di queste comunità Egiziane o Cingare siano passate realmente per Roma.

Tra il 1470 ed il 1485 è riportata notizia che “conti del Piccolo Egitto” circolavano nel modenese, provvisti di passaporto del signore di Carpi.

È tuttora in dubbio l’origine dei gruppi di “Egiziani” che arrivarono in Italia nel XV sec., se essi venissero via terra dall’Europa Centrale o dal nord, oppure se essi siano venuti via mare dai Balcani già durante la caduta dell’Impero Bizantino. La possibile origine egiziana o cingara di un pittore abruzzese, Antonio Solario, detto lo “Zingaro pittore“, lascerebbe supporre che l’arrivo dei romanì in Italia andrebbe datato precedentemente, cioè il 1422. Sicuramente vi furono diverse ondate sia dal Nord,che dal sud, dalla costa della Dalmazia come dai Balcani.

Attraverso l’Adriatico e lo Ionio, spesso uniti a dalmati e greci in fuga dall’avanzata dei turchi nei Balcani, diverse comunità cominciarono ad insediarsi nell’Italia Centrale e meridionale, specialmente in Abruzzo e Puglia, provenienti principalmente da Ragusa, l’attuale Dubrovnik,prima città in Europa in qualità di libera Repubblica Marinara ad abolire la schiavitù 1416 , crocevia obbligato tra le strade dei Balcani e quelle dei mari, incentivati da vantaggi fiscali concessi dagli Aragonesi (Regno di Napoli).

Movimenti analoghi si ebbero nello stesso periodo anche verso la Sicilia, dove già nel XV sec. il nome “cingari”(eteronimo) viene registrato negli atti dei notai di Palermo e nei regni Siciliani e dalla cancelleria della città Messina, nella quale i “Cingari”, ritenuti provenienti dalla Calabria, erano equiparati ad una Universitas ( uno specifico ente, comune o comunità che si autogoverna entro certi ambiti e con determinati poteri tradizionali, in dipendenza però di un’autorità superiore) e inoltre godevano di autonomia giudiziaria.

Secondo alcuni studiosi la successiva migrazione verso le coste sudorientali della Spagna, insieme ad altri profughi greci, sarebbe partita dalla Sicilia, e sarebbe provata, già dalla metà del XV secolo, dalla presenza dei “zinganos” in Sardegna e Corsica, isole situate lungo la rotta commerciale con la penisola iberica.

Un altro documento interessante è datato 1506 e riferisce del seppellimento ad Orvieto di tale “Paolo Indiano, capitano dei cingari“, che aveva prestato servizio nell’esercito veneziano.

La prima testimonianza scritta di lingua romanes in Italia è datata al 1646 e si trova in una commedia di Florido de Silvestris, nella quale è riportata la frase “tagar de vel cauiglion cadia dise” (ritrascrivibile in: “t(h)agar devel, k aviljom kadja disë“), che significa “Signore Iddio, che sono giunto (in) questa città”.

infine la poeta Marcella Colaci del ‘Gruppo donne e poesia di Bologna ha letto e distribuito due poesie, una delle quali è la seguente:

Ad una giovane Romni (Zingarella eteronimo(attribuito dai gagi) ed invece romni Etnonimo(attributo proprio) sing. femminile di donna in romanes)

Una giostra in riva al mare

Una festa di colori

Intorno al fuoco, con i fiori 

E tu che mi fai ballare

In rosso, in verde 

E il giallo che non mente 

Gira la ruota, la gonna vola

Suona il tamburello

Il bimbo sorride, che bello !

Poi la fisarmonica

Con le dita sovrasta

È pronta anche la pasta

Piove o sarà bello

Non importa 

Importa essere uniti

Essere in festa

Essere noi

Anche se nulla resta

Giovane romni

balla 

Fai nostra la vita

Falla girare come una stella

Falla girare tu che sei 

Calda come il sole e sempre bella.”

La poeta Marcella Colaci ci dona una delle sue poesie dedicate ad una giovane (romni) e alle donne (pl.romaja) romanì.

REPORT redatto con approfondimenti storici-culturali da Pino de March

(Settembre pandemico 2021)

QUARTA FESTA ZIGANA 2021

Una sera intorno al fuoco, bocche per parlare, indispensabili al mondo”. Joska Fontana,poeta sinto – romanì

Sabato 25 settembre 2012

dalle ore 18,30 alle 21,30

AL CENTRO SOCIALE DELLA PACE- VIA DEL PRATELLO 53 -BOLOGNA

MOSTRA FOTOGRAFICA -PORAJMOS, LO STERMINIO NAZI-FASCISTA DEI ROMANì IN EUROPA

(Testi: ricerca visiva e grafica di Raffaele Petrone, ricerca storica e didascalie di Matteo Vescovi)

Piccoli cuori morivano

“Nella foresta senz’acqua,

senza fuoco,

è la fame.

Dove dormiranno i bambini?

Non c’è un focolare!

Accendere il fuoco nella notte è impossibile.

La luce ed il fumo danno l’allarme ai nazi-fascisti.

Come possiamo vivere con i bambini nel duro inverno?

I fiocchi di neve cadono sulla terra, sulle mani come piccole perle.

Occhi neri si gelavano.

Piccoli cuori morivano. Papuzsa,una poeta partigiana romanì polacca.

Erano gli annni delle persecuzioni, dei rastrelallamenti, delle fucilazioni quotidiane e del Samudaripen (grande morte nella varante linguistica sinta-romanes) e Porajmos (grande divoramento nella variante lingustica rom-romanì), da parte delle truppe nazifasciste occupanti la Polonia. Allora, per sottrarsi a tutto questo orrore, le genti romanì si nascondevano nei boschi; però là in quei nascondgli, sopravvivere non era facile, e di con seguenza questa povera gente per non farsi avvistare o catturare dalle continue perlustrazioni nazi-fasciste, non dovevano accedere fuochi nè di giorno nè di notte, per ritrovarsi tutti e tutte a fine giorno attorno ad un fuoco, o per riscaldarsi in queste condizione estreme da inverni rigidi e freddi, accadeva che bambini ed anziani romanì morissero in gran numero per freddo e fame.

Attività di Cooperazione trans-culturale per la realizzazione dell’evento- Quarta festa zigana 2021:

Testo redatto da Pino de March, ricerc-a-t-tore poetica e psico-relazionale di Comunimappe e vice-presidente del Mirs- Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Testo grafico redatto da Raffaele Petrone, ricerc-a-t-tore visivo di Comunimappe e socio del Mirs-Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Francesca Vacanti ricerc-a-t-trice cucina creativa di Comunimappe e socia e segretaria del Mirs-Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Tomas Fulli, Mediatore per comunità urbana Sinta di Bologna e Presidente del Mirs- Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Aghiran, Mediatore per al Comunità urbana Rom di Bologna e socio del Mirs – Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Marina Cremaschi, ricer-a-t-trice intersezionale di Comunimappe e socia responsabile comunicazione del Mirs -Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Lucia Argentati, docente e attivista Cobas-Scuola e socia del Mirs – Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Bologna città aperta e nuovi processi di trans-culturazione: simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale stuzzicheria accompagnata da un buon vinobio-rosso con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherdò in romanes), frantumate(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

         “                                                                  

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco “aner”, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale api-cena con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione: www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI di dom,lom o rom                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

simposio romsintogagiano d’autunno

“I frutti puri impazziscono”

James Clifford, etnografo surrealista, titolava così un suo saggio,

riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP

– Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI TRANS-CULTUR-AZIONE TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

al CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “zone di contatto o di transculturazione”

ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente le molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte disconosciute, disperse e discriminate e per far conoscere le attività educative e di trans-cultur-azione di MIRS

-CESP-COMUNIMAPPE portate in questi anni nelle scuole e nei colorati e meticci territori periferici.

 I percorsi pluriennali condivisi sono molteplici:

A) Memorie attive ove documentiamo, con una mostra visiva che si compone di 45 fotogrammi, il

Porrajmos (o divoramento nella lingua romanes) e, in modo circostanziato, la persecuzione, la

deportazione nei lager, gli atroci esperimenti sui corpi inermi trattati indegnamente come cavie ed

infine destinati allo sterminio: lo sterminio per molto tempo dimenticato delle Genti Romanì. Tra

500.000 e 800.000 il numero degli sterminati nei lager nazi-fascisti e tra essi molti gli assassinati

durante le occupazioni delle truppe naziste-fasciste allargatesi a macchia d’olio nei territori

dell’ovest come dell’est europeo. In ogni fotogramma esposto viene comprovato con informazioni

storiche tratte dagli archivi dei musei questa “unicità storica”, il gelido orrore seriale e

tecnico-industriale nazista, e le evidenti complicità trasversali degli ambienti “scientifici” e dei

governi fascisti di tutta Europa; in questo originale scavo nel tempo emergono i nomi dei fotografi e

i luoghi dei tragici accadimenti riportati. La ricerca è stata realizzata con il contributo del Professore

Raffaele Petrone nella parte artistica-fotografica e del Professore Matteo Vescovi nella parte

storico-culturale descrittiva(entrambi docenti ed attivisti del Cesp-Centro studi per la Scuola

Pubblica).

B) Laboratori di trans-cultur-azione : svolti nelle classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado delle periferie bolognesi che ci hanno ospitato e cooperato nell’autoproduzione di attività didattiche interdisciplinari appropriate. Insieme ci siamo avvalsi dell’uso del “brainstorming” che permette l’emergere del negativo cioè gli stigmi, i pregiudizi, gli stereotipi e le credenze discriminanti che accompagnano e pregiudicano non solo  i Rom e Sinti, ma anche altri gruppi minori quali: migranti, profughi, clandestini, lgbtqi, su cui poi operare un’analisi critica e argomentativa circolare tra meditatori,ricercatori, docenti e studenti, per contrastare l’anti-ziganismo , le rom-fobie, le xeno-fobie, le trans-omofobie, le semplificazioni e le criminalizzazioni generalizzanti ed ogni altra forma di esclusione e marginalizzazione;

discriminazioni senza fine che continuano a subire le genti romanì (sia dei Rom e Sinti italiani che

delle altre minoranze europee della stessa area linguistica-culturale) anche in tempi di relativa pace

e democrazia.

Altro nostro orizzonte è far ri-conoscere la cultura disconosciuta e dispersa e i contributi culturali significativi che gli appartenenti a queste variegate Genti romanì hanno apportato alla comune cultura europea ed internazionale: dallo sport al cinema, alla musica, alle arti circensi, alla poesia ed anche alla scienza (tra loro si annovera un premio Nobel) ed ai rari mestieri praticati nel tempo; apporti raramente citati nei libri di storia, di scienze e delle varie antologie letterarie che circolano nelle nostre scuole di ogni ordine e grado o nei Mass-Media; solo nei New Media o Social, accanto alle “bufale”, al disprezzo e agli insulti, si possono trovare informazioni storico-culturali che riguardano le variegate culture romanì, così pure all’Università esistono corsi, seppur rari, sull’argomento, corsi che in rarissimi casi danno origine a crediti formativi, a differenza di quanto avviene per le attività di ricerca verso altre minoranze territoriali linguistico-culturali presenti in Italia(slovena, francese, tedesca, ladina, sarda,grecale, ecc.).

I laboratori con attività di brainstorming e soprattutto di transculturazione: processi d’interazione

tra individui o gruppi in “zone di contatto” attraverso i quali emergono divergenti visioni di vita e

mondo ma anche condivisione di proprie storie, esperienze e valori, sono stati condotti in

cooperazione educativa tra i docenti delle varie classi, mediatori interculturali prima

dell’associazione Amirs(Associazione Mediatori Interculturali Rom e Sinti), con la presenza musicale

di Raducan Ljonel, racconti, favole o paramicie zigane di Aghiran e di conversazioni sulle difficoltà

della vita quotidiana romanì, ieri nomade e dispersa ai margini delle città e oggi periferica e

urbanizzata di Milan e Tomas Fulli; ora del Mirs (Mediatori Interculturali Rom e Sinti) con Tomas

Fulli e Aghiran, coordinati dal docente in pensione, psicologo delle relazioni umane

(esistenziale-situazionale) e ricercatore-attivista di trans-cultur-azione – Pino de March – di Comunimappe-libera comune università pluriverisità Bolognina.

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La lista include personaggi famosi aventi origine rom e sinta da parte di uno dei due genitori.

Banderas Antonio: attore di origini kalé

Brynner Yul: attore, rom da parte del nonno materno. Acquistò il titolo di Presidente Onorario dei Rom

Caine Michael: attore di etnia rom romanichael (gipsy)

Cansino Antonio: ballerino creatore del flamenco moderno, kalé spagnolo

Chaplin Charles: attore, rom romanichael(gipsy) da parte di madre ed ebreo da parte di padre

Ciganer Cécilia: meglio nota come ex-moglie di Nicolas Sarkozy. Suo padre è rom

Cortés Joaquìn: ballerino di flamenco, kalé spagnolo

Giménez Malla Ceferino: kalé spagnolo beatificato nel 1997

Goddard Stuart Leslie: noto come Adam Ant. Cantante glam inglese (post-punk). Sua nonna è romanichael(gipsy)

Hayworth Rita: attrice, nipote del ballerino di flamenco kalé Antonio Cansino

Hoskins Bob: attore americano di origine sinta

Ibrahimovic Zlatan: calciatore, rom bosniaco da parte paterna

Krogh August: scienziato e premio nobel per la medicina, di etnia rom

Kubitschek De Oliveira Juscelino: ex presidente del Brasile, di origine rom

Müller Gerhard: ex calciatore e vincitore Pallone d’Oro. Ha origini rom e sinte

Olasunmibo Ogunmakin Joy : nome d’arte Ayo. Cantantautrice tedesca con madre rom romena

Orfei Liana: artista circense e attrice, sinta italiana

Orfei Moira: artista circense e attrice, sinta italiana.

Presley Elvis: cantante di padre sinto e madre romanichael(gipsy)

Redzepova Esma: nota cantante rom macedone

Reinhardt Jean-Baptiste: musicista jazz conosciuto col nome di Django Reinhardt. Sinto eftavagarya

Spinelli Santino Alexian: professore universitario e musicista rom abruzzese

Solario Antonio: pittore rom Abruzzese, detto “lo zingaro”, vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo.

Approfondimenti di Martina Zuliani ricercatrice ed attivista interculturale e trans-nazionale dell’inclusione sociale e dei diritti

umani

Ed anche altri che aggiungiamo come ricerc-attivisti di comunimappe:

BronislawaWais detta Papusza:poeta romanì (area polacca)

Rasim Sejdic – poeta xoraxane-bosniaco Marko

Aladin Sejdic –poeta e mediatore in terculturale in Germania (figlio di Rasim)

Johann Trolmann –Ruekeli –pugile – a cui la Germania nazista rifiutò di riconoscere il titolo di vincitore dei pesi medio-massimi,

perché uno “zingaro” non poteva rappresentare la Germania nazista alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928; assassinato da uno

dei Kapò nazisti per vendetta e di nascosto, dopo averlo deriso e sfidato ma fu battuto da Ruekli, malgrado il suo corpo fosse

terribilmente debilitato ed esausto dai quotidiani lavori forzati .

ALTRI ED ALTRE FIGURE SIGNIFICATIVE A NOI GAGI DISCONOSCIUTE E DA ROM DISSIMULATE PER INTROIETTATI

STIGMI

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“I frutti puri impazziscono”

James Clifford etnografo surrealista titolava un suo saggio riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos

Williams: “I frutti puri impazziscono”. Questa espressione diventava per Clifford una metafora poetica e situazionale,

“quel trovarsi tutti in una condizione di modernità etnografica, etnografica perché ci sentiamo spiazzati in mezzo a tradizioni frammentate, e modernità perché lo sradicamento e l’instabilità che ne risulta sono sempre più un destino comune. Siamo presi insomma tra disgregazione culturale locale e un futuro allargato con relazioni d’identità multiple, tra l’altro Clifford non vede come una catastrofe da deprecare e lamentare la perdita di una passata autenticità e purezza. Al contrario la modernità etnografica emerge come indefinita ricomponibilità delle moltitudini di soggetti ed oggetti culturali uscite dalle frammentazione delle varie tradizioni in strutture dotate di nuovo senso”.

Per non impazzire

Come James Clifford anche noi riteniamo che le impure ricombinazioni culturali – come le rovine ricomposte

dall’angelo di Benjamin sospinto dalla tempesta della storia verso il futuro – vanno a costituire futuri anteriori e nuovi sensi e non anomalie o degenerazioni culturali, sia per le singolarità come per le comunanze che si vanno riaggregando nel vortice degli avvenimenti storici e culturali; mutazioni che pervengono seppur a volte tragicamente a sempre nuove esistenziali fenomenologie di ben-vivere e ben-essere. Non esistono culture autentiche o non autentiche, bensì culture in un movimento nella tempesta del divenire storico-culturale; quelle forme che scompaiono, in parte si dissolvono e altre ricompaiono in forme visibile o invisibile, apparendoci però sempre degne di originarietà, pur derivandoci da altre per ricombinazione (o ri-articolazione). Un esempio di questa catastrofica ri-articolazione avviene ed è avvenuta nelle culture romanì, forme di vita che hanno sempre saputo in modo situazionale ed esistenziale cogliere e cedere per transculturazione dai territori attraversati nuove forme di vita e di cultura; talvolta passando attraverso tragiche esperienze di persecuzione, rifiuto ed incomprensione , però conservando sempre uno spirito resilienti, che non perde mai se stessa nella ri-composta romanì(o romanipè) . La derivazione indiana del romanes è stata scoperta solo

alla fine del XVIII secolo (ad opera di Valyi Istvan, nel 1763): fino a quel momento si riteneva che fosse un gergo interamente inventato, un linguaggio cifrato rapportabile a quello dei malavitosi. Nel corso dei loro continui spostamenti, i romanì (o Rom e Sinti Gipsy ecc) sono entrati in contatto con genti diverse fra loro e la matrice indiana (neo-idiana)della loro lingua si è arricchita di neologismi,calchi, prestiti lessicali e ibridi morfologico-sintattici a seconda delle zone di nomadismo e di stanziamento, dando luogo a una miriade di dialetti la cui classificazione è spesso problematica.

AMARI CHIB

Natarada, Khelibnáskro Ráy,

Amaré dirlatuné dàdénge,

Indo-Ien pre xár thabdéla káy,

Bin dinás, kud basavdí, Roménge.

But doryá isí suvnakuné.

Si yavér pre láte rupuné,

Sanskritítkes gilabán saré.

Ne sungól, sâr ’dre gilí andré

Si parsítko, armenítko ’lav,

Thay grzeekítka methodé sunáv,

Vare-káy isí ’lavá vlaxítka,

Si ungrítka, vare-káy slavítka…

Ne saré yoné, vavré-theméngre,

Sig bilón ’dre dhib le Bramanéngri,

1hib, saví si yékh barvalipén,

Kay isí amén ’dro dzivipén.

Vas ’dovrá raknén la, má bistrén,

Amaré dhavénge adhavén!

Leksa Manus

LA NOSTRA LINGUA

Natarajah, il Signore della Danza,

Ai nostri lontani avi,

Dove nella valle scorre il fiume Indo,

Diede il liuto, lo strumento caro ai Roma.

Molte corde sono d’oro,

Al di sopra l’altre sono argentee,

e tutte cantano così come nel sanscrito.

Ma si ode, come dentro nella canzone

Si ha qualche parola persiana od armena,

E le greche odo io là,

Si ha altrove parole valacche,

Ci sono le ungheresi, altrove le slave…

Ma tutte esse straniere

Presto si fondono nella lingua dei bramani,

Nella lingua ch’è la sola ricchezza

Che noi abbiamo nella nostra vita.

Perciò serbatela, non dimenticatela,

Per i nostri bambini conservatela!

Da Lacio Drom, 1987, nº1.

Leksa Manus in grafia romanes e Aleksandr Belugin in lettone,pedagogista, poeta,linguista (Riga,7/02/1942

– Mosca 25/05/1997)

Immanuel Kant e la dignità umana: “Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre come fine, non mai solo come mezzo”                                                                        (I.Kant, frammento dalla critica della ragione umana).

Ritrovarsi al fine di attivare percorsi di reciproco riconoscimento tra genti e singolarità Rom, Sinti e Gagi di disparate e frantumate tradizioni sia nomadi che sedentarie, ora entrambi prevalentemente urbanizzati, e per

riprendere sentieri ininterrotti per far fronte alle emergenti cromofobie (paura delle molteplici espressioni e forme della vita): stigmi, pregiudizi, stereotipi ed avversioni nei confronti di qualsiasi forma di vita cromatica e divergente, alle paranoiche percezioni ed ossessioni radicate in credenze di un passato tradizionalista che non passa , che spingono individui e gruppi all’isolamento etnico,all’inimicizia, all’odio identitario e all’indifferenza, verso chi non viene percepito come simile; noi sappiamo però che il pregiudizio è trasversale a qualsiasi cultura, ideologia o religione, nessuna di esse può essere ritenuta esente dalla presenza di individui e gruppi che al loro interno coltivino visioni fondamentaliste,discriminatorie e “desideri distruttivi o di annientamento dell’ Altro”.

In questo tempo shockante e di transizione verso un domani de-globalizzante (che dovrebbe integrare in

modo-ecologico, culturale e sociale in dimensioni glo-cali, o globali e locali, con genti autoctone e migranti, nomadi e sedentari, il pregiudizio escludente riemerge con un’intensità impressionante da spregiudicati populismi che soffiano sul fuoco dell’inquietudine e del disagio accendendo di risentimento folle reattive, nutrendole di banali semplificazioni e di veleni de-umanizzanti.

Nella storia della nostra specie de-umanizzare serve a pensare l’altro come essere umano incompleto o da

considerare come essere infra-umano, cioè capace di emozioni innate primarie (quali paura, rabbia, aggressività, disgusto ecc), come qualsiasi essere vivente umano ed animale, ma incapace di emozioni secondarie o culturali (vergogna,offesa, pentimento, rimorso, pena, rispetto ecc) proprie di ogni essere umano razionale, e per questo considerati alla stregua di animali o omidi solo adatti al puro sfruttamento.

Tutto queste distinzioni servono per compiere su di loro azioni inconcepibili in un contesto di convivenza pacifica ma possibile in altri contesti sia di guerre esterne contro presunti-nemici che di guerre interne contro presunti-capri espiatori.

Diversificazioni che possono portare alla disumanizzazione ,o alla privazione delle qualità proprie dell’umano, ed così le porte al l’annientamento che diventa un fatto automatico e seriale , senza che comporti alcun

turbamento, compassione, colpa o a sentire responsabilità dei propri misfatti ;

verso l’umanità e certi soggetti per poi passare alla loro totale de-personalizzazione per giustificarne lo sterminio.

Le genti romanì come gli ebrei, gli lgbtq, i disabili, gli oppositori politici, militari non collaborazionisti (600.000 internati militari italiani che non vollero aderire alla repubblica nazifascista di Salò) ed altre comunità minori religiose,hanno subito tutte questo processo abietto   de-umanizzazione-disumanizzazione.

In tutte le aree geografiche europee ove s’estendeva come un ombra nera cromo fobia (la paranoia delle molteplici forme della vita e delle

espressioni di gioia e convivenza pacifica ), la tirannide nazi-fascisti contro i romanì, i Rom e SInti e altre comunità minori furono oggetto di persecuzioni, deportazioni, ed i loro corpi ridotti in schiavitù trasformati in cavie dei più atroci esperimenti pseudo-scientifici come verrebbe da pensare ed invece erano veri e propri paradossali esperimenti scientifici, paradossali perché contrapposti alle logiche più elementari di umanità, ma dimostratesi utili alla feroce ricerca in vari campi della medicina e della scienza(congelamento-raffreddamento prolungato, sterilizzazioni, raggi X e castrazione chirurgica, sui gemelli monozigoti, decompressione per il salvataggio, interruzione di gravidanza con tagli cesarei senza anestesia ecc. ); esperimenti praticati che infliggevano le più atroci mutilazioni e sofferenze

senza la minima preoccupazione di quanto dolore provocasse , violando la dignità delle persone, i codici etici ed deontologici ed il giuramento di Ippocrate. I più noti nazisti processati per genocidio e crimini contro l’umanità al Tribunale di Norimberga (1945-46)furono: Joseph Mengele-genetista, Carl Clauberg-ginecologo, Julius Hallervorden-neuropatologo, Hugo Spatz-psichiatra,Hans Reiter-patologo, Hans Eppiner, Murrad Juussuf Bei,

Eduard Pernkof, Eugene Charles Apert e molti altri ancora.

Per questo l’Università della Sapienza di Roma l’ 08-06-15 chiese di togliere i loro nomi dalla letteratura scientifica ed anche di cancellare le sindromi e le malattie scoperte associate al loro nome);

Nella lingua romanes o nella lingua parlata dei romanì tutte queste atrocità sono chiamate da alcuni “Porrajmos”,divoramento, e da altri “Samudaripen”, grande morte.

In questo terrificante genocidio umano tra il 1939 ed il 1945, più di 500.000 romanì furono sterminati nelle forme più disparate: fucilati davanti alle porte di casa o nelle piazze per la ribellione opposta alle squadre speciali naziste bruciavano i loro villaggi durante le occupazioni dell’Europa dell’Est, soffocati ed affamati nei carri merci della deportazioni, resi esausti dagli esperimenti scientifici nei campi di sterminio e per i lavori da schiavi in altri campi o lager gestiti dagli Ustascia come a Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani, creata dal clerico-fascista Ante Pavelic con il pieno appoggio della Germanianazista,dell’Italia fascista e del Vaticano) e molti altri sterminati nelle camere a

gas.

Va ricordato di queste genti romanì l’eroica ed unica ribellione avvenuta contro i nazisti in un lager:

All’alba del 16 maggio 1944 le SS si trovarono dinanzi a qualcosa d’imprevisto: i rom (per i nazisti gli “zigeuner”)

destinati alle camere a gas, avendo saputo dai loro contatti segreti quale sarebbe stato il loro imminente e

conseguente destino, si erano armati con pietre, spranghe, arnesi da lavoro e strumenti musicali (violini, fisarmoniche) e quanto vi era a portata di mano.

Al momento della verità, quando gli aguzzini , decidono di “liquidare” i settori ove sono rinchiusi uomini, donne e

bambini del campo, le “famiglie zingare” scelgono di combattere, di difendersi fino all’ultimo respiro. Come in un

sogno un gruppo di piccoli detenuti cercano con la forza della disperazione e della fantasia di “far muovere il campo e di trasformare le baracche in cui sono rinchiusi nei carrozzoni di una carovana capace ancora di viaggiare”.

(Note tratte da “La rivolta degli zingari- Auschwitz, 1944” di Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano ed Mursia,

2009). Una vicenda sconosciuta e straordinaria che non si può dimenticare o non lasciare alla memoria attiva da

mantenere tra generazioni di genti libere.

Pino de March per Contrada Solidale ROM SINTI E GAGI di Via Erbosa 13-17 e

per trama di cooperazione formativa, educativa e transculturale:MIRS,CESP,COMUNIMAPPE

Per contatti: referente e ricercatore Pino de March

comunimappe@gmail.com

Per vedere le diverse attività comuni di cooperazione educativa e culturale

www.comunimappe.org

terza festa zigana alla Bolognina

 LA TERZA FESTA ZIGANA (8 GIUGNO 2019)

La festa è promossa dalla contrada solidale dell’Unione Rom, Sinti e Gagè che nasce da una pluriennale cooperazione culturale e sociale tra Amirs ,ora Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti, Cesp-Centro studi per la scuola pubblica(area cobas-scuola), Comunimappe-Libera comune università pluriversità bolognina

La festa si dà in primis come momento conviviale per ricreare legami umani, culturali e sociali  tra gli appartenenti alle comunità territoriali romanì (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) e i gagè, o i non rom (europei, italiani e migranti)residenti nella nostra città , in secondo come benefit (raccolta fondi)per sostenere le disparate attività comuni quali: laboratori interculturali nelle scuole, memorie di stermini dimenticati –porrajmos e di altre minoranze, conoscenza delle variegate culture romanes, intermediazione e relazione tra giovani,donne ed adulti romanì e con le istituzioni pubbliche e il mondo associativo solidale dei gagè) promosse dalla nuova associazione MIRS(Mediatori interculturali Rom e Sinti)che raccoglie l’esperienza di AMIRS

.Ed in terza istanza per sostenere le attività di ricerc-azione  sugli emergenti paradigmi trans-individuali e trans-educazionali di comunimappe – libera comune università pluriversità bolognina(vedi nostra trama attiva e progettuale in fondo a queste pagine.

DALLE ORE 15                                                                                                                             PARAMICIA: laboratori per bambini-e e ragazzi-e Rom,Sinti e Gagè autogestiti da DADA LUPE – CANTASTORIE

SI PARTE DA LETTURE DI RACCONTI E FAVOLE ROMANES E POI IN PICCOLI GRUPPI, PARTENDO DA QUESTE TRACCE SE NE RINVENTANO DI NUOVE. E SI PROSEGUE CON DEI GIOCHI.                                                 

PARAMICIE ROMANES: Sono l’insieme di storie e di narrazioni, racconti affabulanti di vita vissuta dal clan ( o famiglia allargata uniti da vincoli di parentela,solidarietà e mestiere), di sfide, di viaggi, d’amore, di natura,di animali, di fortuna e di sfortuna e di resilienza ecc., con contenuti ed espliciti intenti di generare coraggio, non come semplice non paura, ma come pervicace non sottomissione, raccontati dagli anziani ai bambin-i-e e ragazz-i-e romanì, per rafforzare i valori fondanti ed importanti della loro comunità. Forme d’educazione mitica ed emozionale. Per infondere autostima nell’affrontare la vita, che non è sempre così facile e liscia per un romanì, soprattutto al fine di accrescerla là ove quotidianamente viene demolita dall’ostilità e dalle difficoltà che incontra nell’inserirsi in una società dei gagia che nonostante le dichiarazioni d’inclusione resta fredda, indifferente o diffidente. Ora nelle comunità aperte urbane si sperimenta e si reinventa una romanipè ,cioè una capacità di trasformazione dei fondamentali romanì (mantenimento dei vincoli di solidarietà ma anche trasformazione di alcuni aspetti tradizionalisti e patriarcali -già in atto in molte famiglie urbanizzate che si manifesta apertamente (non più come “fughina”) ma come libertà di scelta dei giovani e delle donne di affermazione di una autonoma vita dentro e fuori la propria comunità nativa ).

DALLE 18 ALLE 22

ALLA SALA INTERNA DELLA CASETTA AGLI ORTI: MOSTRA SUL PORRAJMOS O STERMINIO DIMENTICATO DEI ROMANI’ (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) DALLE 18 ALLE 20

TOMAS FULLI PER MIRS: APERTURA FESTA

BREVE  RACCONTO DELLE ATTIVITA’ INTERCULTURALI NELLE SCUOLE E NELLA CITTA’ CONTRO STIGMI E PREGIUDIZI ANTIZIGANI E DI MEMORIA ATTIVA SVOLTE IN COOPERAZIONE CON  LA CONTRADA SOLIDALE DELL’UNIONE ROM, SINTI E GAGE’

RAFFAELE PETRONE E MATTEO VESCOVI DEL CESP:BREVE STORIA SULLA RICERCA DELLE FONTI PER RENDERE LA MOSTRA DOCUMENTO STORICO-CULTURALE FOTOGRAFICO SUL PORRAJMOS

PINO DE MARCH DI COMUNIMAPPE: 16 MAGGIO 1944: RIVOLTA DEI ROMANI’ AD AUSCHWITZ

ALLE ORE 20: Presentazione di Fabio Bassetti                                       DEL FILM: LIBERTE’                                                   Segue  quella del portavoce del GRUPPO MUSICALE DJANGO GYPSY JAZZ

DALLE ORE 20:                                            MUSICA E CENA ZIGANA (ONNIVORA, VEGETARIANA E VEGANA)

DALLE 22 ALLE 24: AGHIRAN CON MAESTRIA ANIMA DANZE E BALLI ZIGANI               

“LIBERTE’”, Film sulla libertà di Tony Gatlif

Gli zingari durante la seconda guerra mondiale

(in Romani e in francese, + sottotitoli in francese) Il film, della durata di 1 ora e 45 minuti,

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2016 – dopo molti anni si è deciso di costruire un monumento alla memoria dei caduti Rom e Sinti   a Montreuil – Bellay (F)

Una scheda sintetica del film “Liberté” di Tony Gatlif che riflette il destino degli zingari in Francia durante la seconda guerra mondiale.

PREMESSA:

Per via di una ricognizione topografica per la costruzione di un asse stradale ad ampia circolazione, si scopre in un vasto campo erboso, delle basi di cemento volte a sostenere dei grandi capannoni, e una specie di cella semi-interrata con delle feritoie orizzontali ad altezza del suolo, non volte alla difesa e troppo sottili per passarci. Fortunatamente, prima dell’inizio dei lavori della strada che avrebbe definitivamente sepolto questo reperto, si diffondono le voci e qualcuno si ricorda ancora della previa esistenza di un grande campo di concentramento per Rom e Sinti ed altri gruppo romanì durante la seconda guerra mondiale, tenuto dalle zelanti autorità francesi anti-zigane e fasciste del governo di Vichy, governo collaborazionista con l’occupante nazi hitleriano. Oltre alla sede in cemento dove poggiavano i capannoni in legno, si scopre che la “trappola” semi-interrata serviva a racchiudere i bambini e le bambine più piccoli, per fare in modo che gli adulti non avessero più voglia di tentare le evasioni.

Viene rapidamente avvertito Tony Gatlif che assieme ad altri illustri umanisti francesi, organizzano in gran pompa magna una conferenza stampa e poi una cerimonia per evitare che venga cancellato questo scomodo reperto della recente storia xenofoba francese, riuscendo a far deviare il percorso originario della strada in costruzione..

Il 29 ottobre 2016, il Presidente della Repubblica, François Hollande, ha inaugurato un memoriale in onore degli Zingari internato nel campo di concentramento di Montreuil-Bellay, nel Maine-et-Loire, durante la seconda guerra mondiale. 

IL FILM:
Il regista, Tony Gatlif, si è ispirato alla storia di Toloche, uno zingaro internato in questo campo di Montreuil-Bellay, per renderlo il personaggio principale del suo film “Liberté” nel 2010. Il film evoca anche il ruolo dei Giusti e della Resistenza come Yvette Lundy la cui lotta partigiana ha ispirato il personagio. dell’impiegata del piccolo comune ed insegnante nel film.

Il riassunto del film
Nel 1943, Theodore, veterinario e sindaco di un micro villaggio nella zona occupata, raccolse un orfano P’tit Claude, arrivato assieme ad una famiglia di zingari che ciclicamente passa annualmente a vendere i suoi servizi al villaggio. Il sindaco e l’impiegata Miss Lundi, umanista e repubblicana, convincono inizialmente gli zingari a fermarsi sul terreno di questo villaggio, per via della repressione delle leggi francesi che non permettono più l’esistenza di ambulanti sulle strade e nelle campagne. Con la buona accoglienza dimostrata, i due impiegati comunali convincono anche gli adulti a mandare i loro figli a scuola. Con loro, si unisce anche Taloche, un quarantenne di Boemia con l’anima di un bambino

Taloche rappresenta “lo spirito libero dei viandanti” che appartengono in modo profondamente esistenziale alla terra e agli elementi che attraversano nei viaggi. A differenza della cultura cartesiana occidentale che si ostina a pensare ad una terra che gli “appartiene”…e che ha il diritto anche di rovinare.


Purtroppo la repressione di Vichy continua ad intensificarsi contro gli Zingari che un giorno decidono di riprendere comunque la loro strada di sempre, pur sapendo i rischi che corrono.

Questo film, a differenza di altri film di Tony Gatlif, non fu distribuito nelle sale italiane

Buona visione

Fabien Bassetti per gli amici gadgi

Fabinath Sapera per gli amici zingari rajasthani

https://www.pedagogie.ac-nantes.fr/medias/photo/sigot-j-noms-d-internes-dans-le-monument-2-_1478420932718-jpg


473 nomi di zingari internati sono incisi sul memoriale, incluso quello di Toloche. 
Foto di Jacques Sigot.
).

MEMORIE DI STERMINI E RIVOLTE ZIGANE (OGGI ROMANI’) DIMENTICATE

Era il 16 aprile 2015 e per la prima volta in Italia e a Bologna con una partecipata manifestazione nazionale dei Rom e dei Sinti si ricordava : il 16 maggio 1944 – giornata in memoria della rivolta dei Rom e Sinti nel lager di Birkenau – Auschwitz contro i nazisti che li detenevano come schiavi-prigionieri.

Tra gli invitati la Presidente della Camera Laura Boldrini, il giornalista Gad Lerner , gli artisti Moni Ovadia e Alessandro Bergonzoni, l’attore Ivano Marescotti. Presenti anche i senatori Sergio lo Giudice e il senatore Luigi Manconi (del PD),Presidente quest’ultimo della Commissione straordinaria per i diritti umani. Sergio del Giudice invece, senatore e presidente dell’ARCI-GAY e attivista per i diritti delle persone LGBT.

Quel giorno un folto corteo di Rom, Sinti e Gagè è partito da via Gobetti del Quartiere Navile, luogo dell’eccidio dei due Sinti (la notte del 1990- Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina, di 30 e e 34 anni, vennero trucidati, cono loro ferite gravemente una bimba sinta di 6 anni e una rom slava)da parte di nazi-poliziotti (i fratelli Savi) della A1 Bianca (la band dell’A-Uno bianca seminò una lunga scia di sangue e crimini tra il 1987 e il 1994, terrorizzando Bologna, la Romagna e le Marche, lasciando dietro di sé 24 morti ed oltre un centinaio di feriti); la meta di quel lungo corteo fu Piazza XX settembre.

Ed in quel giorno e in quella piazza (per la nostra città piazza della laicità, per via di quel XX settembre 1870, data che ricorda la breccia sulle mura di Porta Pia, la sconfitta dei soldati pontifici, la presa di Roma e la fine del potere temporale della Chiesa),il Presidente Davide Casadio della “Federazione nazionale Rom e Sinti insieme”, a sorpresa propose agli amministratori della città di “far diventare Bologna la capitale dei Rom e dei Sinti                                         (perché proprio a Bologna si documenta per la prima volta,fin dal 1422, la presenza di genti nomadi in Italia accampati alla Montagnola, presentati quelle genti  sconosciuti alle cronache del tempo come un gruppo di origine egiziana), ed inoltre  di costruire un museo della cultura Rom e Sinti,per far conoscere la cultura  e la storia delle nostre comunità,( ormai da  secoli italo-europee, sicuramente i più europeizzati tra gli europei per quel loro lungo viaggiare tra molte città e villaggi europei).

Casadio poi aggiunge che “anche noi abbiamo una cultura  ed essa assieme alle altre aiuteranno a sconfiggere la paura”.

Gli scopi della manifestazione erano quelli di sensibilizzare la città sul tema delle minoranze dimenticate e non riconosciute al pari di altre minoranze presenti in Italia (slovena, tedesca, francese ecc.),perché a dire delle maggioranze parlamentari succedute nel tempo, trattasi di minoranze prive di territorio, per via del loro prolungato nomadismo, ma soprattutto per una interpretazione restrittiva costituzionale, che ne impedirebbe riconoscimento e tutela istituzionale, che consisterebbe nell’istituzione di centri di cultura per promuovere e tutelare la cultura e la lingua romanes (trattasi di v1arianti linguistiche neo-indiane arricchite di lessici europei)nei luoghi di maggiore densità abitativa e residenziale(solo gruppi politici della sinistra parlamentare -sinistra italiana, rifondazione comunista ne sostengono questo riconoscimento non solo di generici diritto civili e sociali ma anche culturali ); seppur da decenni territorializzate nella nostra città, come in altre, vivono come invisibili e confinati o in campi sosta o in case popolari delle periferie.

Non mancarono in quel memorabile 16 maggio 2105 la solidarietà attiva dei centri sociali della città (TPO,LABAS,XM24,VAG61), di Coalizione Civica,  Sel- Sinistra ecologia e libertà(la sinistra unita),  dei sindacati di base (cobas o comitatidi base), ma anche della Cgil congiunta con Cisl ed Uil; per il portavoce di Sel e dei centri sociali: “la discesa  in piazza va considerata come affermazione dei diritti all’esistenza di queste minoranze e per protestare contro l’ondata di odio indiscriminato che li riguarda, per ricordare le vittime della banda bolognese della “Uno Bianca” e per celebrare la rivolta degli internati Sinti e Rom nei campi nazisti.” Altre forze democratiche – istituzionali del campo progressista  hanno aderito e partecipato alla manifestazione, il Sindaco Merola ha giustificato la sua  non presenza per impegni istituzionali. Merola anticipatamente in un’intervista dichiara:”ci sono troppe chiacchiere infondate messe in giro in modo strumentale; non viene dato nessun regalo a queste persone. Sento parlare di 30 euro al giorno o corbellerie simili. Quello che bisogna evitare è di fare di ogni erba un fascio e di additare i “nomadi” come etnie che per forza ci fanno del male, è una cosa a cui bisogna stare molto attenti.”

Non mancarono in quel memorabile giorno anche indegne provocazione di  Bologna sociale- Forza  Nuova (neo-fascisti ), sostenuti da Fratelli d’Italia, Forza  Italia e Lega;  tra loro ci furono chi contro-manifestò (Forza Italia e Fratelli d’Italia), ma  tutti chiesero il divieto di corteo contro ‘il degrado”;  quello che è più grave è la disumanità di  questa ignobile espressione d’accomunare i Rom e Sinti ad “esseri degradati o causa di degrado delle città’.(solo i nazisti nel corso della storia europea considerarono gli ebrei e la loro cultura  come degenerata; le due figure  “degenerata e degradata”  con cui si rappresentano le due comunità, ieri quella ebrea ed oggi quella rom-sinta , non si allontana di molto l’una dall’altra.  La posizione del M5 è stata a dir poco complice, lasciando trapelare che anche loro non erano favorevoli al corteo, però … cercando un escamotage ‘civile o lavandosi le mani” attraverso le ambigue parole di Bugani: i colleghi della politica  locale che intendono opporsi al corteo dovrebbero “sfruttare i luoghi istituzionali per dare forza alle proprie idee  e non scendere alla bassezza delle contro-manifestazioni”. (come se impedire un corteo di una minoranza fosse da considerare un’idea  da sostenere(come l’altra ‘idea’ cioè il fascismo) e non un crimine contro i diritti costituzionalmente riconosciuti a qualunque persona o minoranza, per di più resa invisibile, marginalizzata da secolari pregiudizi, storici stermini e perduranti discriminazioni).

Manifestazione 16 Maggio (Memoria Dimenticata 1944 – “rivolta dei gitani”) Sinti e Rom in Europa in Italia

(Memoria Dimenticata 1944 – “rivolta dei gitani”)  Sinti e Rom in Europa in Italia.
La manifestazione del 16 maggio a Bologna  ricorda  e si ribella (All’odio e al razzismo).
Il 16 maggio del 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz andava in scena la dimenticata “rivolta dei gitani”. Ogni anno si ricordano le atrocità del nazifascismo, ma in pochi ricordano quei 500.000 tra Sinti e Rom massacrati dal Terzo Reich.    (Memoria Dimenticata –  “rivolta dei gitani”)

1-«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini. I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora del fumo denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre preghiere.

 2 -Non lasceremo alle vostre mani rapaci, ai vostri cuori tenebrosi, al vostro odio disumano la bellezza delle nostre vite, la santità dell’amore che unisce le nostre famiglie in un popolo povero, ma fiero».  formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e capifamiglia scalzi – ove si trovava la più potente e organizzata macchina di oppressione morte di tutti i tempi.

3- Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre combattevano; i ragazzini difendevano lo zigene-lager finché il sangue non li copriva, rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia scure brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si ritirarono, esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda.

Era il 16 maggio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz quando le SS decisero di farla finita con il campo adibito alle famiglie zingare. Uno sterminio patito da Sinti e Rom, che in molti preferiscono dimenticare, o meglio far finta che non sia mai avvenuto. Quel giorno le SS ricevettero l’ordine di smantellare il campo, ovvero di eliminare tutti gli internati. Nessuno si sarebbe mai aspettato di assistere a una rivolta dei gitani reclusi che, quel 16 maggio, uscirono dalle loro baracche in oltre quattromila, decisi però a non farsi massacrare senza combattere. In teoria dovevano uscire e seguire i nazisti fino alle camere a gas, ma quel giorno decisero di ribellarsi raccogliendo pietre e spranghe e lanciandosi contro le SS. I nazisti poi gliela fecero pagare riducendo alla fame il campo e uccidendo ben 2897 Sinti e  Rom , pochi mesi dopo nella stessa notte, il 2 agosto dello stesso anno. E’ questa la triste storia dei massacri commessi dai nazisti ai danni anche di non ebrei, dimenticati per decenni e solo negli ultimi anni riscoperti anche grazie al lavoro di storici e minoranze etniche. Secondo le ultime ricostruzioni si presume con un margine minimo d’incertezza che i nazisti abbiano trucidato qualcosa come 500.000 tra Rom, Sinti e Manush, ed è opportuno ricordare qui come durante il processo di Norimberga i superstiti (romanì )non siano nemmeno stati ammessi come parte civile.

 Tutti Sinti e Rom  e altri gruppi minori, in numero di

4.000 Rom internati nello zigeuner-lager di Auschwitz decisero di opporsi ai loro aguzzini, che secondo programma erano venuti a prelevarli, per condurli nelle camere a gas. Di fronte a un’umanità ridotta in condizioni pietose – formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e capifamiglia scalzi – si trovava la più potente e organizzata macchina di oppressione morte di tutti i tempi. Non furono solo gli uomini a decidere di non piegare il capo di fronte ai carnefici in divisa; anche le manine ossute dei bimbi e delle donne raccolsero pietre, mattoni, spranghe, rudimentali lame e tutti insieme i Sinti e Rom di Auschwitz dissero: «No!».
«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini. I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora del fumo denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre preghiere. Non annienterete le nostre famiglie, cui avete già tolto i doni preziosi della libertà e della dignità. Non lasceremo alle vostre mani rapaci, ai vostri cuori tenebrosi, al vostro odio disumano la bellezza delle nostre vite, la santità dell’amore che unisce le nostre famiglie in un popolo povero, ma fiero».
Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre combattevano; i ragazzini difendevano lo zigeuner-lager finché il sangue non li copriva, rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia scure brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si ritirarono, esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda. Le SS si ritirarono, portando con sé molti cadaveri tedeschi. Solo il 2 agosto 1944 i nazisti – dopo aver ridotto in fin di vita la popolazione Sinti e  Rom prigioniera della «fabbrica della morte», limitando al minimo il suo sostentamento alimentare – riuscirono a liquidare lo zigeuner-lager. 2.897 eroi Rom furono assassinati in una sola notte nelle camere a gas di Birkenau.
Davide Casadio Presidente Federazione Rom e sinti insieme in Italia

In terza istanza la ricerc-azione  di comunimappe –libera comune università pluriversità bolognina sui mutati paradigmi educativi e relazionali quali: trans-educazioni, educazione diffusa ed incidentale e  sulle articolazioni culturali e sociali di tali paradigmi:

  1. trans-individuale come approccio epistemologico-filosofico elaborato dal filosofo Simondon che considera ogni essere umano come una trama complessa e non scindibile tra individuale,culturale,sociale, naturale e macchinico. Significa anche rimettere in discussione sia l’individualismo proprietario capitalista che il collettivismo proprietario statalista, e ripensare ad una forma di economia e di socialità di un Comune agire tran-individuale che non può prescindere da una visione olistica  (una forma comunalista o municipalista (M.Bookchin)di ecologia sociale  che trami per sostenere la natura,una società dei liberi e degli uguali, la cultura con le sue molteplici espressioni e l’eco-nomia come auto-gestione politica ed economica dei diversi contesti intrecciati tra tra loro. Gli stessi padri costituenti americani mettevano in guardia sulle diseguaglianze che rappresentano grande un grande pericolo per la democrazia.
  2.  trans-cultura le che riguarda le relazioni in divenire  tra le variegate culture presenti nei territori (interazioni tra differenti specie umane native in Africa come in Asia ed Europa da almeno 300.000 anni per migrazioni di persone o per narrazioni (o passaparola)hanno permesso all’homo sapiens di generare un universo simbolico comune che riguarda tutti gli umani sulla terra seppur declinato in molteplici forme linguistiche culturali);                    a cui s’accompagna il contrasto educativo agli stigmi,pregiudizi, rom-fobie, trans-omo-fobie, xeno-fobie  ecc.)nelle istituzioni educative e nella società.
  3.  trans-umano o neo-umano consiste nelle relazioni tra umani, ambienti naturali ed artificiali e nuove tecnologie ;      nuovi ambient tecno-culturali e sociali non sempre appaganti ed agiati, ingenerano disagi esistenziali e sociali tra le nuove generazioni, categorizzati nelle nostre scuole come BES – o persone che abbisognano di ulteriori – Bisogni educativi speciali; disagi che nascono da una pluralità di fattori: processi migratori, marginalizzazioni economiche e sociali delle famiglie, relazione alterate per esposizioni eccessive al digitale o ai social (“cervello aumentato e umano diminuito”, così il filosofo – psicoanalista Benasayag descrive tale condizione esistenziale );non vanno trascurate come cause di malessere il prevalere nelle scuole negli ultimi decenni d’approccio riduttivo (semplificato paragonabile ad un puro addestramento al fare attraverso didattiche modulari delle competenze), funzionale e competizionale (che come centralità competizione e competenze)                                              sull’apprendimento cooperativo volto ad una visione complessa del ricercare,conoscere e vivere, con metodologie interdisciplinari e olistiche delle conoscenze miranti ad uno sviluppo umano completo; solo nuovi ambient educativi ove si sviluppano una cooperazione educativa circolare e non frontale,  esperienze di ricerca e curiosità , attività singolari e condivise, pensieri critici, divergenti e creativi, educazioni risonanti all’affettività possono generare persone esperte, affettive e solidali con una notevole autonomia e capacità di relazionarsi agli altri, ed aspirare da trans-individui trans-educati alla realizzazione d’attività umane che ingenerano progresso comune,culturale,naturale. individuale e sociale, cura dei mondi di vita e delle dimensioni esistenziali.
  4.   – trans-femminismo come vissuti di lotta e di vita per l’affermazione  e la comprensione consapevole dei nuovi paradigmi relazionali di genere e di orientamento ad un’aperta sessualità e a relazioni affettive complesse; per contrastare l’ideologia conservatrice – no gender – che genera sospetti  e menzogne tra gli educatori parentali, con accuse menzognere di manipolazione delle nuove generazioni da parte di una “inesistente teoria gender”che li spingerebbe alla depravazione dei generi e della sessualità “naturale”;     il malinteso ‘gender’ trattasi  invece di un’espressione che raggruppa gli studi di genere, studi che analizzano criticamente le oppressioni-repressioni che una visione etero-normativa  per secoli ha imposto  “con la forza coercitiva di ordine e legge ” nel nome dei padri”una spietata violenza macista e sessista” alla società, in primis alle donne e agli altri comparati mondi subalterni(“femminei”)di vita affettiva e sessuale (quello che oggi emerge in libertà come lgbtqi); il “no gender” forme queste, sì, ideologiche ed imperative di relazioni di genere ed affettive compresse in una dimensione riduttiva biologista e binaria di – maschile e femminile; secoli di negazione di un’assenza -sofferta o di un mondo sommerso che oggi si rivela nella sua libertà di viva ed autonoma espressione (di forme di vita e di vita )come una costellazione di pluralità maschili(omo), femminili(lesbo) ma anche di fluidità d’orientamento affettivo e sessuale(lgbtqi). Dall’ultimo nostro convivio sulle trans-educazioni emerge che a contrastare un’educazione aperta nelle scuole di educazione alla sessualità e all’affettività compresa nella sua pluralità divergente, i “i tradizionalisti no gender” per fare leva contro queste nuove educazioni  alla conoscenza e ad un’affettività e sessualità consapevole non mobilitano solo le fasce tradizionaliste dei genitori ed educatori, ma si avvalgono anche di un ‘complice silenzio”, di chi concepisce la sessualità in termini puramente d’emancipazione sessuale binaria economica e giuridica, e non come processo di liberazione dal patriarcato e dal sessismo eterosessuale ben denunciato-praticato-espresso dai movimenti femministi o da altre filosofie o politiche critiche del binarismo sessuale ( l’unico binarismo concepibile è quello informatico). Per questo è importante agire sulle aree adulte progressiste per sottrarli alla passiva complicità con i  negazionisti-tradizionalisti che negano,occultano e mistificano l’esistenza di singolari e plurime  forme di vita con cui s’esprime la sessualità e l’affettività umana.
  5.  Trans-ecologie intendendo con essa le varie ecologie che non possono riguardare solo gli aspetti della sostenibilità seppur importante di fronte ai nuovi cambiamenti climatici,ma anche le altre ecologie umane,culturali , sociali e mentali (vari mondi di vita in cui siamo immersi e che determinano il nostro comune ben-essere trans-individuale).
  6.  Le relazioni umane  in questa nostra visione trans-individuale si danno come  non violente,empatiche e critiche non solo contro riproposti autoritarismi, sessismi, razzismi, classismi e militarismi, ma anche  contro residuali istituzioni totali e pratiche coatte biologiche-psichiatriche (pubbliche e private)e loro  strumentazioni coatte quali il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) che sono vere e proprie forme di tortura e di pratica distruttiva verso le persone che ne subiscono l’atto o gli atti.
  7. Nostra pratica utopica e concreta consiste nel rilanciare la  cooperazione amicale culturale, educativa, politica, sociale,economica ecc. come attività costituente del Comune e delle relazioni aperte ed sintonia con i molteplici mondi di vita per contrastare la frammentazione sociale e culturale, il diffondersi della competizione e dell’inimicizia, dell’odio contro le persone e le comunità di prossimità o di lontananza,che non sono altro  che arcaiche modalità violente, narcisiste, predatorie del  Comune esistenziale e sociale BEN-ESSERE .

Pino de March ricercatore ed accordatore delle attività della comune ricerc-azione e cooperazione politica e culturale di comunimappe

INFO:

     www.comunimappe.org

     comunimappe@gmail.com

Ottobre 1917: La Rivoluzione Proletaria Russa ed il Rinascimento delle culture, delle lingue e dell’esistenze delle genti Rom

Ivan Ivanovič Rom-Lebedev (1903 – 1991), attivista bolscevico Rom

Come il potere proletario aprì la strada all’emancipazione sociale
La Rivoluzione russa e i rom
In un lavoro del 1931 intitolato Tsygane vcera i segodnia (I rom ieri e oggi), Aleksandr V[jaceslavovic] Germano, il principale scrittore e intellettuale rom dell’Unione Sovietica, riassunse la storia dei rom europei come una cronaca insanguinata di persecuzione e di alienazione. I rom furono messi al rogo, impiccati, massacrati ed esiliati. Il fatto che gli abitanti dei villaggi e i funzionari li relegassero a vivere temporaneamente nelle aree periferiche rafforzò il loro nomadismo come modo di vita. Ridotti alla condizione di paria, molti rom furono costretti alla schiavitù o al servaggio, e questo determinò la loro arretratezza culturale e la loro esclusione politica.
Nella Russia zarista i rom vennero sottoposti a misure poliziesche e a leggi discriminatorie. Alla metà del XVIII secolo l’imperatrice Elisabetta pubblicò un decreto che proibiva ai rom di entrare nella capitale San Pietroburgo e nei suoi dintorni. Nel 1783 il Senato cercò di impedire ai rom di trasferirsi da un proprietario terriero all’altro. E in seguito decretò che i rom nomadi sarebbero stati sottoposti a sorveglianza e rispediti nelle loro zone di provenienza.
Alcuni rom russi poterono godere di una prosperità e di una stabilità relative perché facevano parte delle corali rom, che erano popolari tra la nobiltà finché tale classe non fu annientata dalla rivoluzione russa. Tuttavia gli anni del declino dell’autocrazia zarista coincisero anche con una crescente oppressione dei rom. Nel 1906, ad esempio, il regime zarista e diversi altri governi europei sottoscrissero con la Prussia un accordo per perseguitare le popolazioni rom nomadi.
Comprendendo che le classi dominanti capitaliste fomentano il razzismo e il nazionalismo per dividere e indebolire i lavoratori di diverse estrazioni e per mantenere così strettamente il proprio potere, i bolscevichi (rivoluzionari comunisti russi)si opposero in modo risoluto alle persecuzioni degli ebrei e ad ogni oppressione nazionale, religiosa ed etnica. La “Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia” (15 novembre 1917), adottata poco tempo dopo la Rivoluzione d’Ottobre, proclamò “il diritto dei popoli della Russia alla libera autodeterminazione” e “l’abolizione di tutti i privilegi e le discriminazioni nazionali e nazional-religiose”. La dichiarazione impegnava lo Stato operaio a garantire “il libero sviluppo delle minoranze nazionali e dei gruppi etnografici [narodnost’] che abitano il territorio della Russia”.

Animato dal programma bolscevico di lotta contro lo sciovinismo nazionale e di unione degli operai di tutto il mondo contro il sistema capitalista-imperialista, lo Stato sovietico delle origini compì uno sforzo eroico per portare ai popoli rom il progresso, la modernità e la libertà. Come ha osservato  lo storico David M. Crowe nel suo  History of the Gypsies of Eastern Europe and Russia ([St. Martin’s Press, New York] 1994):

“Gli anni Venti videro una sorta di Rinascimento rom affondare le radici nell’Europa orientale e in Russia, mentre gli intellettuali rom si battevano per ritagliare ai rom una nicchia all’interno delle nuove nazioni. Per quanto ammirevoli fossero i loro sforzi di creare delle organizzazioni e di pubblicare dei lavori in romanes, essi vennero resi vani tanto dall’inesperienza e dalla mancanza di un sostegno finanziario quanto dal pregiudizio e dall’indifferenza secolari. Le conquiste più notevoli e durature per i rom avvennero nel nuovo Stato russo sovietico”.
Anche se nella Russia sovietica i rom avrebbero compiuto dei passi in avanti in maniera inimmaginabile nel mondo capitalista, i loro progressi vennero anche circoscritti e in parte capovolti sotto il dominio della burocrazia stalinista che assunse il controllo politico nel 1923-24. Mentre i bolscevichi sotto V.I. Lenin e Lev Trotsky avevano sostenuto l’uguaglianza di tutte le nazioni e di tutte le lingue come parte del loro programma di rivoluzione socialista mondiale, il regime di Stalin sarebbe stato sempre più contrassegnato dallo sciovinismo grande-russo mentre propugnava il dogma nazionalista e antimarxista della “costruzione del socialismo in un paese solo”. Proprio nel 1922 era stato l’attacco di Stalin contro i diritti nazionali dei georgiani ad indurre Lenin a chiedere la sua destituzione da Segretario Generale del partito comunista.
È necessario capire che, nonostante la controrivoluzione politica, l’Unione Sovietica rimase uno Stato operaio. Seppur distorta dal dominio di una burocrazia privilegiata e sottoposta alle immense pressioni delle potenze imperialiste ostili, l’economia collettivizzata e pianificata determinò enormi progressi sociali per i popoli sovietici, e soprattutto per quelli più arretrati, come in Asia centrale. Nella sua analisi pionieristica dell’Unione Sovietica sotto Stalin, Trotsky osservò ne La rivoluzione tradita (1936):
“È vero che nella sfera della politica nazionale, così come in quella dell’economia, la burocrazia sovietica continua ancora a realizzare una certa parte del lavoro progressivo, anche se con spese generali eccessive. Ciò vale soprattutto per le nazionalità arretrate dell’Unione [Sovietica], che debbono necessariamente passare attraverso un periodo più o meno prolungato di presa a prestito, di imitazione e di assimilazione dell’esistente”.
La lotta per la diffusione della cultura
Dalle campagne di sedentarizzazione fino all’educazione dei bambini rom nella loro lingua e alla creazione di stimolanti istituzioni culturali, negli anni che seguirono la rivoluzione bolscevica i rom compirono dei progressi veramente sostanziali. Tra i principali catalizzatori di questa trasformazione sociale vi fu un gruppo di attivisti rom i cui sforzi sono documentati in un recente volume della ricercatrice universitaria del Brooklyn College Brigid O’Keeffe intitolato New Soviet Gypsies. Nationality, Performance and Selfhood in the Early Soviet Union ([University of Toronto Press, Toronto] 2013). Eredi dell’intelligencija rom prerivoluzionaria di Mosca, che era sorta nelle corali rom, quei giovani combattivi furono stimolati dal fervore rivoluzionario di cui era imbevuta la Russia sovietica delle origini.
Un dirigente importante di questo lavoro fu I[van] I[vanovic] RomLebedev, che nel 1923, insieme ai suoi amici, organizzò a Mosca una cellula della Lega comunista della gioventù (Komsomol) per i rom, allo scopo di promuovere la diffusione della cultura e di combattere la chiromanzia, la mendicità e altre pratiche nemiche del lavoro produttivo. Con l’aiuto del loro sindacato, i giovani crearono nel Parco Petrovskij un “angolo rosso” pieno di libri e di giornali, mirando a trasformare i rom in cittadini sovietici coscienti. Un anno dopo i compagni del Komsomol parteciparono alla formazione di un Comitato d’azione dei membri fondatori della società proletaria rom, la quale comprendeva tre attivisti che avevano servito nell’Armata Rossa, tre membri del partito comunista e tre membri del Komsomol.
Nel luglio 1925 il Comitato d’azione ricevette dal Commissariato del popolo agli affari interni (Nkvd) l’approvazione a formare l’Unione rom panrussa (Uzp). Un anno dopo la sua fondazione, l’influenza dell’Uzp si era estesa molto al di là della provincia di Mosca, portando alla formazione di gruppi affiliati a Leningrado, Cernigov, Vladimir e Smolensk. Nel frattempo nella sede moscovita dell’Uzp incominciarono a giungere lettere di rom provenienti da tutta l’Unione Sovietica, e agli inizi del 1926 la stessa Uzp dichiarò di avere 330 membri.
La prima fattoria collettiva rom dell’Unione Sovietica venne creata nel 1925 a Rostov da un gruppo di rom che avevano fornito cavalli all’Armata Rossa durante la Guerra Civile. Poco tempo dopo l’Uzp lavorò insieme al Commissariato del popolo all’agricoltura e al Dipartimento delle nazionalità del Comitato esecutivo centrale panrusso per creare la Commissione per l’insediamento dei rom lavoratori, mirante a incoraggiare i rom ad abbandonare il nomadismo. Di lì a poco i rom iniziarono a stabilirsi sulle terre a loro riservate da ciascuna Repubblica sovietica. Si stima che tra il 1926 e il 1928 cinquemila rom si siano insediati nelle fattorie in Crimea, in Ucraina e nel Caucaso settentrionale. Questa cifra era relativa ad un totale di popolazione rom stimato tra 61mila e 200mila individui, comprendente i rom nomadi e quelli che si erano stabiliti nelle città e nelle aree periferiche.
Nonostante gli sforzi dello Stato e degli attivisti militanti, molti rom si opposero al trasferimento nelle terre statali. Oltre ad essere atomizzate e prevalentemente analfabete, le masse rom, avendo subito secoli di brutale oppressione e di ostracismo, diffidavano dell’autorità. Non diversamente dalle comuniste che indossavano il velo per portare il messaggio emancipatore dei bolscevichi alle donne dell’Oriente musulmano, gli attivisti dell’Unione rom si recarono tra i rom per conquistarli. Un manifesto murale scritto sia in russo che in romanes spiegava gli sforzi sovietici per liberare dall’arretratezza i popoli minoritari del vecchio impero. Esso dichiarava che, mentre gli Zar avevano oppresso i nomadi imprigionandoli nella irrazionalità e nell’alienazione, adesso le tribù nomadi, con l’aiuto del potere sovietico, “stanno iniziando a stabilirsi sul territorio e a intraprendere l’agricoltura. Hanno la propria terra, la propria fattoria, le foreste, i villaggi e le proprie scuole.”
Fu infatti nella sfera dell’istruzione che i rom conseguirono alcune delle loro conquiste più impressionanti. Un decreto del Commissariato del popolo all’istruzione (Narkompros), datato 31 ottobre 1918 e intitolato “A proposito delle scuole per le minoranze nazionali”, affermò che i rom, come tutte le nazionalità sovietiche, avevano il diritto di essere educati nella loro lingua nativa. Nel gennaio 1926 furono create a Mosca le prime classi in lingua romanes dell’Unione Sovietica, all’interno delle scuole elementari russe esistenti. Agli studenti venivano insegnati la lettura, la scrittura, l’aritmetica, il disegno, le arti applicate, la musica, l’educazione fisica, la storia e l’educazione civica, e furono fatti degli sforzi per creare dei centri di alfabetizzazione per gli adulti. Delle scuole in lingua romanes sarebbero state impiantate anche nelle fattorie collettive in cui i rom si erano stabiliti.
Gli insegnanti si batterono anche con coraggio per insegnare un’altra materia: l’igiene. Sia all’interno che al di fuori delle aule scolastiche, ai bambini rom e ai loro genitori veniva insegnata l’importanza di lavarsi, di spazzolarsi i denti e di pettinarsi i capelli. Il Dipartimento dell’istruzione di Mosca era allarmato dall’alto tasso di denutrizione e dalla diffusione di malattie come l’anemia, la tubercolosi e la febbre tifoide tra i bambini rom. Ma la trascuratezza delle norme igieniche fondamentali non si limitava affatto ai rom; essa rifletteva i bisogni materiali e l’ignoranza generalizzati che pervadevano la Russia sovietica delle origini, una società prevalentemente agricola che aveva ereditato secoli di arretratezza.
In mancanza di insegnanti di lingua romanes e persino di un alfabeto romanes, l’insegnamento agli scolari venne inizialmente impartito in russo. Per superare tali ostacoli, gli attivisti dell’Unione rom, insieme ad un linguista dell’Università statale di Mosca, condussero una campagna per creare un alfabeto romanes e per standardizzare la lingua. Un decreto del Narkompros del maggio 1927 stabilì che il nuovo alfabeto fosse basato sui caratteri cirillici con alcune modifiche, rompendo con la prassi sovietica precedente che consisteva nello sviluppare nuovi alfabeti come quello turkmeno, basato sui caratteri latini.
In breve tempo vennero pubblicati i primi libri di testo in romanes. Nel novembre 1927 fu avviata la pubblicazione di una rivista in romanes, Romany Zorja (L’Alba rom), seguita dal Nevo drom (La nuova strada), un manuale di lettura destinato agli adulti. La prima grammatica romanes destinata alle classi rom, Tsyganskij jažik (La lingua rom), apparve nel 1931, mentre alla fine degli anni Trenta venne pubblicato un dizionario romanes-russo di 10mila vocaboli. La O’Keeffe afferma che: “Sebbene quasi tutte le iniziative educative rivolte ai rom sovietici avessero avuto fine alla vigilia della Seconda guerra mondiale, molti studenti rom erano già emersi dall’educazione pratica e politica ricevuta alla fine degli anni Venti e negli anni Trenta come cittadini sovietici istruiti e integrati.”
Parallelamente alla battaglia per l’istruzione dei rom vi fu la lotta per assimilare i rom nella classe operaia, che a Mosca sfociò nella creazione di varie artel’ (cooperative) industriali. Nel 1931 esistevano nella capitale 28 artel’ rom che occupavano 1350 operai. Un aspetto cruciale è che due tra le prime e più prospere di esse, la Tsygchimprom (Manifattura chimica rom) e la Tsygpišceprom (Produzione alimentare rom) non impiegavano esclusivamente dei rom. Alla Tsygpišceprom i rom lavoravano fianco a fianco con operai di almeno altre undici nazionalità.
Nonostante i modesti progressi, il Consiglio dei commissari del popolo e altri organismi dirigenti sovietici divennero scettici riguardo all’Unione rom. Nel marzo 1927 l’Ispettorato operaio e contadino della Commissione di controllo di Mosca effettuò un’ispezione a sorpresa presso l’Uzp e concluse che la sua direzione era infestata di profittatori, prestanome e impiegati, e che i suoi membri erano principalmente degli speculatori sul mercato dei cavalli e altri elementi non proletari. Come reazione, i dirigenti dell’Unione rom protestarono perché il loro lavoro era stato ostacolato da funzionari statali scettici, intolleranti e diffidenti.
Quando l’Uzp venne sciolta nel febbraio 1928, il Nkvd dichiarò che essa aveva fallito nell’adottare dei provvedimenti concreti per combattere “la chiromanzia, la mendicità, il gioco d’azzardo, l’ubriachezza e altre particolarità della popolazione rom”. A parte il fatto che simili mali sociali non costituivano unicamente delle “particolarità rom”, il loro sradicamento avrebbe richiesto, in circostanze materiali migliori, anni e anni di lotta; figuriamoci nelle condizioni arretrate allora prevalenti nella Russia sovietica! Nonostante lo scioglimento dell’Uzp, i suoi membri avrebbero giocato un ruolo importante nella vita sovietica, contribuendo al risveglio culturale dei rom alla fine degli anni Venti e nei primi anni Trenta.
L’Europa capitalista: persecuzione di Stato e terrore fascista contro i rom
In Ungheria i criminali razzisti fanno saltare in aria le loro abitazioni e sparano alle vittime in fuga. Nella Repubblica Cèca le truppe d’assalto neonaziste minacciano di sterminarli nelle camere a gas. Nella Repubblica Slovacca uno sbirro fuori servizio, assegnatosi per missione il “ripristino dell’ordine”, spara e uccide tre di loro. In Bulgaria degli aggressori muniti di pugni di ferro li attaccano. L’anno scorso in Francia hanno subito a migliaia l’espulsione sotto il governo capeggiato dal presidente François Hollande, del Partito socialista. In ciascuno di questi casi le vittime hanno una cosa in comune: sono tutti rom.
Da un capo all’altro del continente, i rom cadono preda dell’intensificarsi della violenza e della xenofobia mentre i paesi dell’Unione Europea (Ue) traballano sotto gli effetti della crisi economica capitalista. A metà ottobre dei poliziotti greci hanno catturato una bambina di quattro anni e arrestato i suoi genitori accusandoli di rapimento, forse presumendo che i rom non possano avere una figlia dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Pochi giorni dopo le autorità irlandesi hanno scritto un’altra pagina di questo libro della vergogna strappando due bambini rom di pelle chiara ai propri genitori. Incoraggiati dalla persecuzione statale dei rom e con il vento del razzismo ufficiale in poppa, in Serbia degli skinhead fascisti sono entrati in azione cercando di rapire un bambino rom di pelle chiara.
La smania razzista contro i rom ostracizzati e storicamente perseguitati, che in Europa ammontano a 10-12 milioni di individui, ha subito negli ultimi mesi un drastico aumento ad opera dei governi, sia di destra che di sinistra, allo scopo di deviare la rabbia operaia dal nemico di classe capitalista. In quanto trotskisti, noi della Lega comunista internazionale (Lci) ci siamo sempre opposti all’Ue in quanto blocco economico imperialista creato per favorire lo sfruttamento e l’immiserimento degli operai e degli oppressi, compresi i milioni di immigranti in Europa, sotto il dominio non soltanto del capitale tedesco, ma anche di quello francese e britannico.
Sebbene il quadro legale dell’Ue includa l’accordo di Schengen del 1985, che si suppone dovrebbe garantire il libero movimento delle persone all’interno dei paesi membri, la “fortezza Europa” capitalista ha intensificato sempre di più la repressione degli immigrati e ha fortemente limitato il diritto d’asilo. Quando la Romania e la Bulgaria sono entrate nell’Ue nel 2007, ai loro cittadini, compresi molti rom, è stata limitata la possibilità di lavorare in Germania, in Francia e in Gran Bretagna. E anche se tali restrizioni sono ora state formalmente abolite, la rabbia attizzata dal governo di coalizione tra conservatori e liberaldemocratici britannici contro gli immigrati romeni e bulgari dimostra che essi continueranno ad essere perseguitati da un angolo all’altro dell’Europa.
Come hanno spiegato i nostri compagni della Ligue Trotskyste de France in un volantino diffuso lo scorso ottobre (vedi “French Government Crackdown on Roma, Immigrants”, Workers Vanguard, n. 1035, 29 novembre 2013):
“In un’economia precapitalistica i rom occupavano una nicchia economica marginale in quanto artigiani, venditori ambulanti e artisti. Con lo sviluppo del capitalismo essi sono stati sospinti ai margini della società, subendo degli abusi che sono poi culminati con lo sterminio di centinaia di migliaia di rom ad opera dei nazisti. La verità è che il capitalismo marcescente è incapace di ‘integrare’ i rom, e ciò è tanto più vero nei periodi di crisi”.
Le popolazioni rom d’Europa non comprendono un’unica nazione basata su un territorio condiviso e neppure su una lingua comune. Per alcuni versi il loro carattere è simile alla posizione degli Ebrei europei nella società feudale che, svolgendo un ruolo economico come commercianti e prestatori di denaro, costituivano un “popolo-classe” secondo l’analisi del trotskista Abram Léon. Anche se i rom sono stati ancor più socialmente emarginati, entrambi condividono una lunga storia di brutali violenze e di odio.
Nel difendere i rom dallo Stato capitalista e dalle squadracce fasciste, noi cerchiamo di mobilitare la classe operaia affinché esiga il riconoscimento delle loro lingue, dei loro dialetti e della loro cultura; affinché difenda il diritto dei rom, sia nomadi che sedentari, all’uguaglianza nell’istruzione, nell’edilizia abitativa e nelle condizioni di lavoro; e affinché rivendichi i pieni diritti di cittadinanza per i rom, dovunque essi vivano. In definitiva, soltanto la rivoluzione socialista renderà possibile la completa e volontaria assimilazione dei rom nella società europea, con pieni ed eguali diritti. Tale fu la prospettiva aperta in Russia dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 diretta dal Partito bolscevico.
La prospettiva dell’emancipazione
Le migrazioni di rom in quello che sarebbe infine diventato il territorio dell’Unione Sovietica avvennero in differenti periodi della storia. Nel X secolo un popolo rom conosciuto come Liuli incominciò a spostarsi in un’area dell’Asia centrale che sarebbe poi diventata parte dell’Impero zarista per sfuggire agli attacchi dei musulmani al loro territorio originario, nell’India settentrionale. Agli inizi del XV secolo i rom si spostarono in Ucraina. Successivamente, in quello stesso secolo, la persecuzione in Germania costrinse i rom a migrare in Polonia e in Lituania, dove i funzionari polacchi chiesero che venissero espulsi. La Russia si annetté quei territori nel XVIII secolo.
L’attacco ai diritti dei rom
Ai rom non sarebbero stati risparmiati i massici rivolgimenti sociali che accompagnarono il primo Piano quinquennale e la campagna di collettivizzazione forzata dell’agricoltura varati alla fine degli anni Venti. Mentre Trotsky e l’Opposizione di sinistra si erano battuti per un’industrializzazione pianificata e per una collettivizzazione agricola volontaria allo scopo di rafforzare l’economia socializzata dell’Urss, il regime di Stalin e di Nikolaj Bucharin incoraggiò i kulaki (contadini ricchi) ad arricchirsi. Nel 1928 la crescente consapevolezza dei kulaki era diventata un’arma puntata contro lo Stato operaio, come evidenziato dal loro blocco delle forniture di grano alle città, che poneva la minaccia di una carestia. La burocrazia si volse allora improvvisamente contro i kulaki. Non avendo predisposto nessuna base tecnica o economica, lo Stato sovietico, con la brutalità caratteristica di Stalin, incominciò a collettivizzare i contadini e introdusse un tasso di industrializzazione avventuristico. Quella svolta sventò la minaccia immediata di una restaurazione capitalista nell’Urss.
In mezzo al caos che ne seguì, migliaia di rom fuggirono nei centri urbani già sovrappopolati. Tra di loro vi furono molti rom vlax, un popolo che era immigrato in Russia dalla Romania e dall’Impero austro-ungarico alla fine del XIX e agli inizi del XX secolo. A differenza dei relativamente integrati rom russka, spesso i rom vlax non parlavano il russo. Allora, non avendo altra scelta se non quella di piazzare abusivamente degli accampamenti di tende alla periferia di Mosca, essi vennero considerati dalle autorità come degli “stranieri”. Dal 28 giugno al 9 luglio 1933 la polizia segreta radunò 1008 famiglie rom a Mosca 5470 persone in totale e le deportò nei campi di lavoro della Siberia occidentale.
Tali deportazioni coincisero con gli attacchi al diritto dei rom di venire educati nella propria lingua. Nel 1932 erano stati avviati, presso l’Istituto centrale per la promozione dei quadri con un’istruzione qualificata (Cipkkno) di Mosca, i primi corsi di formazione degli insegnanti per i rom. Otto mesi dopo 15 studenti si erano diplomati e attendevano di essere assegnati alle scuole in tutta la vasta estensione dell’Unione Sovietica. Nel giro di poco tempo, però, alcuni degli studenti incominciarono a lamentarsi a proposito delle discriminazioni nelle assunzioni. Come risposta, il Cipkkno mise fine al programma. Seguirono altri casi di discriminazione e di proteste degli studenti rom. Alla fine, nel gennaio 1938, il regime pubblicò il decreto “A proposito della liquidazione delle scuole nazionali e dei dipartimenti nazionali in seno alle scuole”, che portò alla fine dell’istruzione in romanes. Il decreto comportò anche la fine della scolarizzazione in assiro, estone, finlandese, polacco, cinese e in diverse altre lingue.
A quell’epoca la burocrazia manifestava sempre di più il nazionalismo inerente alla sua dottrina del “socialismo in un paese solo”. Dopo l’ascesa dei nazisti al potere in Germania, che costituiva un pericolo imminente per l’Unione Sovietica, gli stalinisti adottarono nel 1935 la politica del Fronte popolare, ingiungendo ai partiti comunisti di appoggiare politicamente e talvolta anche di entrare nei governi capitalisti “progressisti” che si presumeva fossero amichevoli nei confronti dell’Urss. La rinuncia esplicita degli stalinisti alla necessità di rivoluzioni operaie all’estero per estendere il dominio proletario ai paesi capitalisti economicamente avanzati andò di pari passo con la loro adozione, in patria, del nazionalismo putrido che la rivoluzione bolscevica aveva respinto fin dai suoi primi passi.
La rappacificazione con l’imperialismo servì soltanto ad indebolire lo Stato operaio di fronte ai suoi nemici di classe. Quando la Germania invase l’Unione Sovietica nel giugno 1941, l’esistenza stessa dello Stato operaio venne messa in questione. Mentre si opponevano a tutte le potenze imperialiste in guerra, i trotskisti chiamarono il proletariato sovietico e gli operai di tutto il mondo a combattere in difesa dell’Unione Sovietica in quell’ora di pericolo. Nel frattempo il regime stalinista, inchinandosi al nazionalismo russo, definì la lotta militare dell’Urss come Grande guerra patriottica.
Si stima che da 30 a 35mila rom sovietici siano stati massacrati dagli invasori nazisti durante il Porrajmos (l’olocausto rom). I rom sovietici fecero la loro parte nel combattere e, alla fine, nello sconfiggere il flagello fascista. Il Teatro Romen di Mosca, il primo teatro professionale rom del mondo, mise in scena delle rappresentazioni per l’Armata Rossa, mentre alcuni dei membri della sua troupe si arruolarono come soldati. Dei rom fecero anche parte delle unità partigiane sovietiche in Bielorussia e in Ucraina, il che indusse i capi della polizia militare tedesca ad esigere la spietata esecuzione delle bande zingare sospettate di appoggiare i partigiani.
Nonostante il dominio burocratico, negli anni successivi alla guerra i rom sovietici raggiunsero un alto livello di assimilazione e di sviluppo culturale. David M. Crowe cita un’osservazione dello studioso dei rom Lajko Cerenkov risalente ai primi anni Settanta del secolo scorso:
“Nell’Urss odierna è raro incontrare un rom che non sappia leggere e scrivere, mentre prima della guerra tra certi gruppi [rom], ad esempio quelli della Bessarabia, nessuno era in grado di farlo. La maggior parte dei membri delle giovani generazioni d’oggi arrivano all’ottavo o al decimo livello scolastico e, da questo punto di vista, nelle città non c’è distinzione possibile tra i rom e le altre nazionalità”.
I rom dell’Europa orientale sotto Stalin: integrazione ai livelli inferiori
La vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista gettò le basi per il rovesciamento dei rapporti di proprietà capitalistici nell’Europa orientale e in Germania Est. Nel 1948, in virtù dell’azione delle forze sovietiche e dei partiti comunisti locali, erano stati creati degli Stati operai deformati, modellati economicamente e politicamente sull’Unione Sovietica di Stalin. Unica eccezione, lo Stato operaio deformato jugoslavo, che fu il prodotto della vittoria dei partigiani del Maresciallo Tito. La distruzione del dominio capitalista in questi Stati apportò delle conquiste significative alle popolazioni rom. Ma il loro trattamento ad opera delle burocrazie al potere fu diseguale e contraddittorio, variando da paese a paese.
Prima che il Partito comunista cecoslovacco (Ksc) assumesse il potere nel febbraio 1948, i ministri del governo di quel paese avevano adottato delle misure dure e restrittive nei confronti dei rom. Il Ksc dichiarò invece che il suo obiettivo finale era quello di integrare i rom al resto della popolazione e di elevare il loro livello economico, sociale e culturale fino a raggiungere quello degli Slavi. Ma, pur accusando giustamente i precedenti governi capitalisti di aver rafforzato il basso status sociale ed economico dei rom, inizialmente il nuovo regime comunista compì soltanto dei passi esitanti verso il miglioramento della loro situazione e verso la loro integrazione nella forza lavoro e, più in generale, nella società. Nel 1958 il governo approvò una legge che puniva i nomadi con la detenzione da sei mesi a tre anni, condannando però anche l’intolleranza razzista nei confronti dei rom.
Seppure una lotta contro il nomadismo era necessaria, la burocrazia del Ksc, come la sua organizzazione sorella moscovita, la mise in atto mediante un diktat burocratico invece di patrocinare l’assimilazione volontaria. Questo fatto non deve impedirci di vedere le conquiste fondamentali dei rom. Riconoscendo che circa il 67 percento della popolazione rom della Slovacchia, che ammontava a 153mila individui, viveva in insediamenti non adatti agli esseri umani, nel 1965 il regime del Ksc avviò un programma per demolire le abitazioni di qualità inferiore alla norma, per reinsediare i rom nei territori cèchi più prosperi e per fornire loro sussidi e prestiti per acquistare nuove case. La politica di reinsediamento continuò per tutti gli anni Settanta, determinando un eccezionale miglioramento delle condizioni di vita dei rom. Nel 1980 oltre il 70 percento dei rom viveva in appartamenti, mentre la percentuale di coloro che vivevano in abitazioni inadeguate era calata, dall’80 percento di un decennio prima, al 49 percento.
Dei progressi furono anche compiuti nel settore dell’istruzione. Dal 1971 al 1980 la percentuale di bambini rom che ultimavano la scuola pubblica aumentò dal 16,6 al 25,6 percento, mentre il numero di coloro che frequentavano i collegi universitari e le facoltà crebbe da 39 a 191. Nello stesso periodo i tassi di alfabetizzazione degli adulti schizzarono al 90 percento. Nel frattempo, all’inizio degli anni Ottanta, oltre quattro quinti dei rom lavoravano nell’industria.
Ma queste conquiste comportarono un prezzo da pagare. Il programma di reinsediamento era finanziato in modo inadeguato e alimentò anche un crescente risentimento nei confronti dell’arrivo dei rom nei territori cèchi. Poi nel 1972 il governo di Gustáv Husák infiammò i sentimenti razzisti approvando un decreto che incoraggiava le donne rom a farsi sterilizzare. Il pretesto per questa campagna cinica e vergognosa era il numero presuntamente “malsano” della popolazione rom. Pur rappresentando uno dei maggiori gruppi rom dell’Europa orientale, nel 1980 i rom cecoslovacchi ammontavano a meno del 2 percento della popolazione del paese.
Più arretrata e povera della relativamente industrializzata Cecoslovacchia, e con soltanto un minuscolo partito comunista nel periodo prebellico, la prevalentemente rurale Romania fu di gran lunga meno ospitale con i suoi cittadini rom. Fin dal XII secolo i rom iniziarono ad arrivare in quelli che sarebbero diventati i principati danubiani della Valacchia e della Moldavia, regioni che entrarono infine a far parte della moderna Romania. Sul finire del XIV secolo le famiglie rom erano state schiavizzate dai monasteri locali, avviando così una secolare caduta in schiavitù che avrebbe avuto fine soltanto nel 1864. Sebbene la vita fosse migliorata dopo l’emancipazione, i rom rimasero dei poveri paria, oppressi dai proprietari terrieri boiardi e invisi ai contadini poveri. I rom caddero anche vittima dell’indifferenza governativa e dell’aperto terrore razzista. Nel 1941 il dittatore Ion Antonescu propugnò l’eliminazione delle minoranze nazionali. Alleato della Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale, egli presiedette al massacro di decine di migliaia di rom, molti dei quali furono vittime della Guardia di ferro fascista.
Sotto il capo stalinista Gheorghe Gheorghiu-Dej la Romania si impegnò a rispettare i diritti educativi, linguistici e culturali delle nazionalità del paese. Tuttavia l’istruzione rimase un qualcosa di elusivo per ampie fasce della popolazione rom, malgrado la sua crescente urbanizzazione. Mentre circa il 43 percento dei rom di età superiore agli otto anni risultava iscritto alle scuole primarie nel 1956, la loro scolarizzazione al di sopra di tale livello era trascurabile. E nel 1966 soltanto un rom romeno frequentava un’università!
Negli anni Cinquanta e Sessanta il regime di Gheorghiu-Dej adottò alcune misure per far fronte all’alto tasso di analfabetismo tra i rom. Uno studio effettuato nel 1983 sotto il governo di Nicolae Ceausescu si spinse oltre, definendo gli obiettivi per porre riparo ai molti problemi che affliggevano la popolazione rom, dall’analfabetismo, dai pessimi alloggi, dalla disoccupazione e dalla criminalità fino alla mancanza di igiene, agli alti tassi di mortalità infantile e al prevalere delle malattie veneree, della febbre tifoide e della tubercolosi. Una legge speciale sottolineò la necessità di trovare dei posti di lavoro per i rom nell’edilizia e nell’agricoltura, e diede mandato ai funzionari pubblici di aiutarli a costruirsi delle case. Ma sotto il folle Ceausescu, la cui indipendenza dal Cremlino gli conquistò il plauso degli Usa e di altre potenze imperialiste, il regime sottrasse allo Stato le risorse necessarie all’edilizia, all’istruzione e alle cure mediche per i rom, spendendo miliardi per estinguere il debito contratto dal paese con i banchieri stranieri.
Mentre il popolo lavoratore della Romania fronteggiava un immiserimento crescente, gli stalinisti si crogiolavano nel nazionalismo romeno, con conseguenze particolarmente atroci per i rom e per la minoranza ungherese. Nel 1966 il governo emanò un decreto che vietava l’aborto alle donne di età inferiore ai 45 anni che non avevano ancora partorito quattro figli, un colpo enorme per le famiglie più povere e più numerose. Nel 1989 si seppe che a causa di questa politica ignobile gli orfanotrofi erano strapieni, con oltre centomila bambini, una percentuale sproporzionata dei quali erano rom. Il regime di Ceausescu effettuò anche dei reinsediamenti forzati. Pur prendendo principalmente di mira la popolazione ungherese, tale politica portò alla distruzione di interi quartieri rom, reinsediando forzosamente i loro abitanti in grandi palazzine spesso situate nei ghetti urbani.
Come ha osservato l’esperto sui rom ungheresi István Kemény, all’inizio degli anni Settanta i rom erano stati in un certo senso integrati, ma “proprio in fondo alla gerarchia sociale” (citato da D.M. Crowe, op. cit.). In una misura o nell’altra, quest’affermazione descrive adeguatamente la posizione dei rom nello Stato operaio degenerato e in tutti gli Stati operai deformati.
La controrivoluzione: una catastrofe per gli operai e le minoranze
Gli sforzi sporadici e contraddittori compiuti dai regimi stalinisti per assimilare i rom e per promuovere un clima di piena uguaglianza si arenarono tra la penuria materiale e le scosse dell’economia. Questi stessi mali derivavano dalla produttività relativamente bassa degli Stati operai governati burocraticamente e dal loro accerchiamento ostile da parte dei paesi imperialisti, economicamente più forti. Quando la crisi terminale dello stalinismo colpì l’Europa orientale e centrale nel 1989-92, la Lega comunista internazionale si batté, al meglio delle proprie capacità e risorse, per forgiare i partiti rivoluzionari necessari a vincere la battaglia contro la controrivoluzione capitalista e per la rivoluzione politica proletaria contro le burocrazie in via di disintegrazione. Tuttavia gli operai, la cui coscienza era stata avvelenata da decenni di malgoverno stalinista, non furono in grado di reagire in maniera decisiva alla controrivoluzione, e questo portò al rovesciamento di quegli Stati operai.
Durante i nostri interventi negli avvenimenti in Germania Est e nell’Unione Sovietica, mettemmo ripetutamente in guardia sul fatto che la restaurazione capitalista avrebbe riportato in auge tutta la vecchia merda della reazione sociale contro le donne, gli ebrei, gli immigrati, le minoranze etniche e le nazionalità oppresse. Nel 1990, in Cecoslovacchia, gli skinhead fascisti incominciarono a prendere di mira i rom e gli operai immigrati vietnamiti. In Romania, dopo il rovesciamento e l’esecuzione di Ceausescu nel dicembre del 1989, i pogrom contro i rom diventarono all’ordine del giorno. Con il governo e i mass media in prima fila, i rom romeni vennero etichettati come “una piaga sociale” e come “la feccia della società”, riecheggiando le farneticazioni di Hitler contro gli ebrei.
Privati di una direzione rivoluzionaria, molti operai furono sensibili a tale veleno. Nell’articolo “East Europe: Reaction and Resistance” (Workers Vanguard, n. 505, 29 giugno 1990) riferimmo di una mobilitazione di massa di minatori romeni che a Bucarest aveva ridotto al silenzio dei controrivoluzionari, ma successivamente alcuni minatori infettati dal veleno razzista incominciarono ad attaccare i quartieri rom.
Dai Balcani al Baltico e nella stessa Russia, il profluvio nazionalista che aveva contribuito a distruggere gli Stati operai raggiunse un sanguinoso punto culminante sulla scia di quella sconfitta. I rom vennero ovunque braccati, attaccati e costretti a fuggire per salvarsi la vita. Come ha osservato Isabel Fonseca nel suo libro Bury Me Standing. The Gypsies and Their Journey ([Alfred A. Knopf, New York] 1995): “Il cambiamento più drammatico dopo le rivoluzioni del 1989 è stato, per i rom dell’Europa centrale e orientale, il brusco incremento dell’odio e della violenza nei loro confronti. Nella sola Romania si sono verificati oltre trentacinque gravi attacchi agli insediamenti, principalmente in zone rurali remote e perlopiù sotto forma di incendi e di percosse.” Non c’è da stupirsi se alcuni rom che nel 1991 parlarono con la Fonseca nella città di Costanza guardassero favorevolmente alla vita sotto Ceausescu.
L’ondata di violenza, combinata con la profonda povertà dei rom, ne ha costretti decine di migliaia a scappare in Germania. Una volta giunti in quel paese, i rom disperati furono attaccati dalle ululanti squadracce neonaziste, che diedero fuoco alle loro case mentre la polizia se ne stava a guardare. Nel settembre 1992 il governo della Germania capitalista riunificata arrivò al punto di sottoscrivere con la Romania un accordo per deportare i romeni (principalmente rom) rispedendoli indietro nel loro paese d’origine.
In un articolo pubblicato in Women and Revolution (n. 38, inverno 1990-91), e intitolato “Fourth Reich Racism Targets Immigrants. Stop Persecution of Gypsies!”, noi suonammo l’allarme spiegando che i rom “fuggono dall’Europa orientale perché temono per le loro vite”. L’articolo proseguiva:
“Essi sono le vittime numero uno del profluvio di multiforme razzismo omicida che sta sommergendo l’Europa orientale dopo il crollo dei regimi stalinisti e dopo il tuffo in un’economia di mercato incontrollata. Gli ideologi borghesi proclamano a gran voce la ‘morte del comunismo’, ma il ritorno allo sfruttamento capitalista ha portato con sé il risorgere di tutta la feccia assassina nazionalista, antisemita e anticomunista che aveva dominato questa regione prima della vittoria dell’Armata Rossa nel 1945”.
Per gli Stati uniti socialisti d’Europa!
La Lci si è battuta fino all’ultimo per difendere le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre contro la restaurazione capitalista. Praticamente tutti i nostri oppositori di sinistra sono invece accorsi in appoggio alle forze della controrivoluzione in nome della “democrazia”, della “libertà” o dell’”indipendenza nazionale”. Oggi alcuni di questi gruppi si lamentano del fatto che nell’Europa post-controrivoluzionaria i rom vengano maltrattati. Un esempio in tal senso ci viene fornito dalla Sozialistische Alternative (Sav), la sezione tedesca del Committee for a Workers’ International (Cwi, Comitato per un’Internazionale dei Lavoratori) di Peter Taaffe, del quale fa parte la Socialist Alternative statunitense. Nella seconda parte di un articolo sui rom apparso sul sito sozialismus.info (4 febbraio 2013), la Sav scrive quanto segue a proposito del periodo successivo alla restaurazione capitalista in Europa orientale:
“Per la maggior parte, i rom sono stati i primi ad essere licenziati perché, in generale, erano meno istruiti e possedevano un livello più basso di scolarizzazione. La maggior parte dei rom non ha ottenuto nulla dalle benedizioni del capitalismo ed essi sono quindi stati tra i primi e maggiori perdenti in questa trasformazione. Per necessità, dunque, molti di loro si sono nuovamente rivolti sempre di più alle proprie strutture familiari. Il fatto che vi siano dei rom costretti a razzolare nell’immondizia o a diventare dei criminali per mantenersi non è colpa loro. No, è colpa del sistema economico capitalista, che si dimostra incapace di garantire loro un livello di vita adeguato”.
Se ci basassimo unicamente su queste altisonanti banalità non sapremmo mai che nel 1991 il gruppo russo affiliato al Cwi salì sulle barricate di Boris Eltsin, mentre quel controrivoluzionario appoggiato dagli Usa guidava l’assalto finale contro lo Stato operaio nato dalla Rivoluzione d’Ottobre. Né che le sezioni del Cwi hanno contribuito ad attizzare le fiamme del fanatismo razzista in casa loro. Nel 2009 i seguaci britannici di Taaffe giocarono un ruolo rilevante in uno sciopero reazionario di lavoratori edili, nella raffineria petrolifera di Lindsey, contro l’assunzione di operai provenienti da altri paesi dell’Ue. Riassunto nella parola d’ordine: “Il lavoro britannico agli operai britannici”, che venne sbandierata durante lo sciopero, questo veleno viene adesso somministrato soprattutto agli immigrati bulgari e romeni, compresi molti rom.
Come riferisce la Spartacist league/Britain nell’articolo “Ue Austerity Fuels Racism. Irish State Abductions of Roma Children” (Workers Hammer, n. 225, inverno 2013-14), le precedenti limitazioni dei tipi di lavoro che i cittadini bulgari e romeni potevano svolgere in Gran Bretagna, paese che essi possono visitare senza visto in quanto cittadini dell’Ue, sono scadute il 1° gennaio. Man mano che tale scadenza si avvicinava, il governo a guida Tory ha introdotto una moltitudine di provvedimenti che limitano i diritti dei bulgari e dei romeni di ottenere il sussidio di disoccupazione e i benefici abitativi. Il Labour Party, che era stato l’autore delle restrizioni lavorative, ha replicato che queste misure razziste giungevano troppo tardi!
I governanti dei colossi dell’Ue, la Germania e la Francia, insieme a quelli dei paesi dipendenti come la Grecia, che si stanno logorando sotto i dettami dei banchieri imperialisti, utilizzano i rom e altri immigrati disperati come capri espiatori per la disoccupazione di massa, l’austerità, la miseria e altri mali generati dal sistema capitalista stesso. Soltanto il rovesciamento del dominio capitalista attraverso una rivoluzione operaia può sbarazzare il continente da questi mali, spianando la strada agli Stati Uniti socialisti d’Europa in cui tutti i popoli avranno un posto libero ed eguale.
Per raggiungere questo obiettivo, la Lci si batte per costruire dei partiti operai internazionalisti rivoluzionari la cui missione consiste nell’infondere nel proletariato la consapevolezza di essere il becchino storico del sistema capitalista. Come scrisse Lenin nel Che fare? (1902), i socialisti rivoluzionari debbono agire come “il tribuno del popolo, che sa reagire a ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa avvenga e qualunque classe o strato essa colpisca, che sa generalizzare tutte queste manifestazioni in un solo quadro della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico, (…) per spiegare a tutti il significato storico mondiale della lotta emancipatrice del proletariato” (corsivi nell’originale). Mentre la rabbiosa repressione statale e gli attacchi sotto forma di pogrom dilagano in Europa, la difesa dei rom e di tutti gli immigrati costituisce un compito chiave immediato del movimento operaio.
[Tradotto da Workers Vanguard, n. 1037, 10 gennaio 2014 (Traduzione italiana di Paolo Casciola). Abbiamo deciso di non utilizzare il termine “zingaro” come traduzione di gipsy, per le connotazioni razziste assunte da questa parola, usando invece l’etnonimo “rom”, accomunando le popolazioni rom, sinti e affini, pur essendo consapevoli del fatto che la cosa non è rigorosamente corretta.]
Workers Vanguard
è l’organo della Spartacist League, sezione statunitense della Lega Comunista Internazionale
(quartinternazionalista)  [LCI],  una  tendenza  proletaria,  rivoluzionaria  e  internazionalista . 
  Marzo 2015: Spartaco N. 78    Organo informazione della lega dei comunisti italiani

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