Memorie attive:lunghi silenzi sugli stermini dei rom e sinti e dei “non conformi e della vita non degna di essere vissuta” (glossario nazista) , ed analisi sullo sdoppiamento del Sè dei carnefici in tutti i campi di concentramento e sterminio nazi-fascisti in Europa(da Natzwiller-fr a Jasenovac-cz), e sulle mancate inclusione dei sopravvissuti nel dopo-Auschwitz.

Premessa

Ci sono due parole nella lingua romanes per indicare lo sterminio nazi-fascista delle genti romanì, intendo le numerose, disperse e marginali comunità linguistiche e culturali europee:Rom e Sinte.

Porrajmos: parola che può suonare ambivalente per gli impropri significati sessuali, di stupro e sevizie”ma pure “divoramento”;

L‘Altra parola è Samudaripen: Grande Morte e genocidio, parola appropriata ma che non approfondisce il dramma e la tragedia vissuta.

Però, nelle lingue si sa che il significante spesso è accompagnato da una molteplicità di significati tra loro contraddittori, e fortemente influenzati da situazioni ed esperienze di vita.

Per le esperienze tragiche che i Romanì hanno subito nello sterminio nazi-fascista (atroci esperimenti scientifici e medico chirurgici: sterilizzazioni, vivisezioni, smembramenti e sevizie sui/dei corpi, senza che mai i carnefici si preoccupassero del dolore arrecato e della dignità cancellata), mi sembra che Porrajmos sia la parola più qualificata.

Perché romanì e non zingari?

Perché ‘zingari’ è un eteronimo cioè un nome arbitrariamente attribuito dai gagè (o non romanì) che sottolinea più i caratteri negativi che positivi,

non è tra l’altro l’unico, ce ne sono molti altri gipsy, gitani ecc;

per secoli i Romanì sono stati considerati egiziani-pellegrini, appartenenti ad una tribù dispersa d’Israele, dei figli di Cush, della stirpe di Cam, uno dei figli di pelle nera di Noa, che per aver deriso il padre ubriaco, venne scacciato di casa e e costretto ad una perenne vita raminga.

Per affermare questo si sono avvalsi per secoli delle mappe antropologiche o delle bibliche tavole delle nazioni che dividevano l’umanità in Semiti, Camiti e i Giapetiti figli di Jafet.

Romanì o Rom e Sinti invece è un etnonimo o un nome proprio di un popolo

Secondo una cronaca viennese del 1776 (la Anzeigen aus sämmtlich-kaiserlich-königlichen Erbländern), fu l’illuminista slovacco Samuel Augustin ab Hortis il primo ad accostare le parlate dei romanì alle lingue indiane.

“Lingua da ritenere a tutti gli effetti neo-indiana, parlata in seguito non solo dagli errones o erranti egiziani, ma anche da tutte le genti rom. Dopo questo primo riconoscimento linguistico e culturale, altri ne seguirono, fino ad essere liberati di quella infamante accusa, che pesava come un macigno sulle loro vite, quello di essere figli maledetti ed erranti di Cush, uno dei figli generati da Cam”. (Materiali tratti dalla stirpe di Cus di Leonardo Piasere ed. CISU- 2016)

Stranieri interni e cittadinanza E’ importante ricordare i rari momenti di riconoscimento di una piena cittadinanza italiana ed europea e riconoscere apertamente che per secoli,i romanì e gli ebrei sono stati marginalizzati e considerati stranieri interni in Italia come in Europa.

Infatti, l’estate scorsa la Città di Bologna (con la sua Vice Sindaca Emily Clancy), le comunità urbane di Rom e Sinte della nostra Regione:Mirs- mediatori interculturali Rom-Sinti,Amici di Django, Thèm Romanò e l’associazione-movimento romanì: Ketane e Comunimappe- la libera comune università pluriversità Bolognina,

la mattina del 18 luglio 2022, hanno voluto ricordare, con una targa sotto l’arco di Porta Galliera, la presenza plurisecolare dei romanì in Italia e a Bologna e la nascita di un bambino-a a Campo Grande, oggi Piazza 8 Agosto, considerata la prima nascita romanì documentata in Europa; tutto questo rigorosamente documentato, nel lontano 18 luglio 1422, dalle cronache bolognesi: la Rampona e la Varignana, ben conservate come codici nella Biblioteca Universitaria di Bologna.(www.comunimappe.org)

La storia umana non ha mai conosciuto una storia così difficile raccontare (H.Arendt,1984,p.51), che non va enfatizzata e neppure relativizzata ((Richard Rechtman, le vite ordinarie dei carnefici,Einaudi ed.)

Oggi vorrei ricordare con voi: Il Porrajmos, lo sterminio delle comunità romanì(Rom e Sinti), quello dei bambini disabili, dei pazienti psichiatrici, degli asociali, degli Lgbtq e di molti/e ‘non conformi’ e ‘la vita indegna di essere vissuta’ (lebensunwertes Leben,dal glossario nazista), ed insieme impegnarsi per contrastare l’auto-distruttiva coazione a ripetere e a generare carnefici e capri espiatori, sdoppiamenti del sé personale e collettivo umanista ed ippocratico, e nel nostro caso specifico nel Sé di Auschwitz impersonale, irriflessivo, massificato, persecutorio’ che si è avvalso e si avvale di volta in volta di giustificazioni ideologiche, scientifiche, medico-antropologiche e di politiche morali, religiose e nazionaliste,

ma anche per analizzare insieme la vittimofilia o la pietà e la rabbia per le ingiuste morti, che rischiano però in molti casi d’oscurare nelle stanche ricorrenze e nei vuoti cerimoniali, il perpetuarsi nel presente di esclusioni sociali e culturali, le stesse che hanno provocato quelli stermini. Infine per contrastare questo”eterno ritorno ed eterno fascismo” si richiederebbe di accompagnare alla nostra giusta indignazione, azioni comuni d’inclusione sociale e culturale dei sopravvissuti, al fine di disattivare stigmi, pregiudizi, risentimenti e reattività rancorose che continuano ad affiorare nella storia.

Lo sterminio dei ‘non conformi’ e ‘della vita indegna di essere vissuta’ (glossario nazista)

“Lo sguardo medico-scientifico e quello sociale e politico-culturale diffuso avevano disumanizzato le vittime dello sterminio e del genocidio, con gli strumenti e la razionalità tecnica-scientifica e tecnico-burocratica di quello che chiamiamo oggi modernità.”(come sostiene Alain Goussot, docente di pedagogia speciale)

“Alla fine dell’Ottocento nasce la scienza eugenetica come studio del miglioramento della specie umana attraverso la selezione artificiale;
l’eugenismo diventa una vera e propria ideologia politica, nella misura in cui si diffonde la convinzione che si possa intervenire sul piano politico e socio-economico con misure eugenetiche di “miglioramento della razza”.

In fondo l’eugenetica è frutto (direi avvelenato) della cosiddetta modernità e della razionalità tecnica, che il regime nazista (non di meno quelli fascisti) per “bonificare” la società tedesca (ed europea) da possibili contaminazioni degenerative;

l’eliminazione dei soggetti disabili, in particolare mentali ed intellettivi (pazienti psichiatrici), delle minoranze etniche gli “zingari”(o romanì) e sessuali ” prostitute, omo-lesbo-trans-sessuali” ( lgbtqi), ma anche la sperimentazione su forme “anomale” della natura umana come ad esempio, i gemelli; tutto sarà la traduzione (continuazione) tecnico-culturale di un impianto scientifico che si era sviluppato 50 anni prima.

E furono la scienza medica ufficiale e quella psichiatrica (direi bio-medica ed organicista)in particolare a sostenere questa visione per dare base “scientifica” alla costruzione del capro espiatorio e a provocare quella dissociazione personale e collettiva dal Sé umanista ed ippocratico verso un Sè disumanizzato, impersonale e massificato di Auschwitz, come ipotizza lo psicologo Robert Jay Lifton.

Si trattava di una visione basata su principi di salute e purezza:tutto quello che sembrava inspiegabile, o che non rientrava nelle categorie nosografiche della scienza medica-psichiatrica, veniva visto con sospetto ed identificato come fonte di pericolo per la salute pubblica.

Da questo punto di vista si può affermare con Zyngmunt Bauman (1992), che il nazismo non fu solo un fenomeno abnorme ma sopratutto un’espressione di quello che oggi chiamiamo modernità (o razionalità tecnica-strumentale, direi funzionale all’esistente ma per nulla esistenziale).

Tuttavia occorre precisare che questa tesi non ha avuto buona fortuna poichè era più semplice pensare che l’orrore nazista fosse stato il risultato di un regime di individui psicopatici e perversi, anche se sappiamo degli studi compiuti sulla storia dei protagonisti di quella tragedia, che le cose furono estremamente diverse e che molti medici ed eminenti psichiatri tedeschi, brillanti accademici e ricercatori rigorosi, erano in realtà persone ‘normalissime’.

Si può anche affermare che la ‘normale disumanità’ del regime nazista, fu supportata dalla complicità e dall’indifferenza colpevole di tanta gente ‘perbene’, non faceva che riprodurre in modo amplificato ed esasperato lo sguardo sociale, culturale e scientifico dell’insieme della società sui soggetti stigmatizzati: disabili, sugli individui affetti da disturbi psichici e sulle minoranze etnico culturali e sessuali (come romanì ed Lgbtq).

Per rendersi conto della normalità della loro vita, basta leggere la biografia dei medici e degli scienziati che effettuarono uccisioni e sperimentazioni di vario genere su bambini e bambine disabili, (sui pazienti psichiatrici), rom e sinti, ebrei, sui bambini- ed adolescenti tedeschi considerati “devianti” ed “ineducabili” (senza scordarsi dei soggetti lgbtq e delle prostitute)

Molti conducevano vite assolutamente regolari, erano amorevolmente dediti alle loro famiglie, eppure fecero qualcosa di inconcepibile: torturare migliaia di bambini -e, disabili, e soggetti di minoranze etniche, culturali, sessuali col pretesto di far progredire la scienza tedesca.

Essi idearono i programmi di eliminazione Aktion T4 e T14 che posero fine all’esistenza di migliaia di individui disabili e pazienti psichiatrici.

Per riprendere il sociologo Z. Bauman si può dire che la razionalità tecnica e burocratica possono portare a questo tipo di ‘possibilità occulte’ in tutte le società moderne… Frammenti tratti dalla monografia “Nazismo, eugenetica er disabilità di Alain Goussot – docente di Psicologia speciale – Università degli studi di Bologna.

E dove non era presente questo tipo di razionalità tecnica-scientifica e la serialità industriale nazista si procedette allo sterminio come metodi artigianali crudeli, disumani e violenti di migliaia di persone romanì e di altre minoranze culturali, religiose e politiche come a Jasenovac in Croazia o alla Risiera di San Sabba a Trieste da parte di regimi complici clerico-fascista .) [….] Porrajmos o sterminio dei romanì : Rom e sinti “Nel corso degli anni Trenta, la popolazione internata nei lager nazisti subì notevoli mutamenti. A poco a poco, i politici divennero una minoranza, mentre il numero prevalente di prigionieri apparteneva alla categoria dei cosiddetti elementi antisociali, termine generico che comprendeva i delinquenti abituali, le prostitute, gli alcolizzati, i vagabondi senza fissa dimora e i renitenti al lavoro. Nel novero degli asociali vennero inseriti, ben presto, anche gli zingari ( o romanì), che già la legge bavarese del 16 luglio 1926 associava ai “senza lavoro” e ai “vagabondi”: considerati in blocco come un’unica vasta categoria di devianti, questi tre gruppi dovevano essere rigidamente controllati dalle forze dell’ordine e, al limite, potevano “essere internati dalle competenti autorità di polizia in campi di lavoro, per un periodo fino a due anni, per ragioni di pubblica sicurezza”.
Tuttavia, nel caso degli zingari(romanì), la persecuzione assunse subito anche spiccati caratteri razzisti, anche se, dal punto di vista linguistico, i Sinti e i Rom (cioè coloro che noi chiamiamo zingari o gitani) possono essere considerati indoeuropei.
L’origine indiana non venne negata dagliesperti razzialinazisti che si occuparono degli zingari (fra i quali va ricordato almeno Robert Ritter, principale responsabile delGruppo di ricerca d’igiene razziale e di biologia demograficadel Ministerio della Sanità, con sede a Berlino Dahlem)” Tratto dalla voce “asociali” dell’assemblea-cittadinanza – amministrazione regionale Emilia-Romagna.

L’ostacolo fu aggirato con pretese che non esistevano più romanì puri (o rarissimi tra loro, i lalleri)perché durante le numerose e continue migrazioni si erano contaminati con altre razze (c’era stata come si ripropone oggi una sostituzione etnica e razziale)

La persecuzione degli zingari (o romanì) ebbe inizio in modo sistematico nel 1936. Il 16 luglio, cogliendo come pretesto l’imminente inizio delle Olimpiadi, tutti i Sinti e i Rom che vivevano a Berlino e dintorni furono arrestati e condotti nell’improvvisato campo di Marzahn, che nel 1938 ospitava circa 850 persone.

Venne presa la decisione di concentrare tutti i Sinti e Rom nomadi in campi appositi allestiti nelle periferie delle città, per assicurare un miglior controllo della polizia.

Così stabiliva il decreto per la lotta contro la piaga zingara il 6/6/1936 di Heirich Himmler che ordinava che tutti/e i romanì fossero schedati e registrati.

Le donne e le bambine romanì furono oggetto fin dai primi anni di regime di sterilizzazione di massa con raggi x ed iniezioni intrauterine sia a Natzwiller (Fr) che a Ravensbruech.

I detenuti di Dachau(A) furono sottoposti ad esperimenti sulla potabilità dell’acqua marina; erano obbligati a bere acqua di mare o veniva iniettata loro una soluzione salina.

A Sachsenhausen(Francoforte sul Meno)ci furono esperimenti con i iprite, un gas tossico che veniva usato in guerra.

Gli internati di Buchenwald (D) furono infettati dal tifo o sottoposti ad esperimenti di congelamento rapido per studiare la resistenza al freddo.

Ad Auschwitz il famigerato medico Joseph Mengele compì atroci esperimenti su bambini e bambine romanì, su parti gemellari, sul nanismo ed il gigantismo, sulle sincronie oculari, sui tumori alla pelle, sulle malattie più disparate.

Tutte queste vite non degne di essere vissute si concludevano nelle camere a gas.

Lungo silenzio sullo sterminio dei romanì (di Luca Bravi,ricercatore su storia, formazione ed inter -cultura dell’Università di Firenze) intervista sul Porrajmos tratto dalla rivista della Regione Toscana.

Porrajmos: perché finora se n’è parlato troppo poco?

(Per Luca Bravi, docente di formazione ed interculture) “La causa del silenzio sul Porrajmos è da individuare soprattutto negli stereotipi di stampo razziale che si sono conservati dall’immediato dopoguerra e fino ad oggi in riferimento a quelli che continuiamo a chiamare “gli zingari” (e oggi romanì). Quest’ultimo un termine offensivo coniato per indicare un gruppo che consideriamo in toto composto da soggetti ladri, asociali e nomadi, perciò “geneticamente” (ma oggi si dice “culturalmente”) pericolosi. Gli stereotipi attivi determinano la tenuta a distanza di queste persone e la distanza provoca l’assenza di spazio e di disponibilità per la ricostruzione storica e soprattutto per la testimonianza. Non ci potrà essere testimonianza storica finché non si attiverà una reale inclusione a livello (culturale) e sociale. Ecco perché il Porrajmos parla di memoria storica, ma ha bisogno di costruire spazi d’inclusione nel presente; ed ecco perché il Porrajmos uno dei temi caldi rispetto alla costruzione di un tempo “post-Auschwitz”.

Qualcosa cambiato negli ultimi tempi, sia dal punto di vista della ricerca storia che della consapevolezza diffusa?

“A livello internazionale cambiato molto: oggi il Porrajmos è riconosciuto come persecuzione e sterminio avvenuto per motivazioni razziali, esattamente come la Shoah ebraica. Questo riconoscimento avvenuto è dovuto soprattutto a importanti testimonianze di ebrei ed oppositori politici che hanno raccontato la persecuzione subita da rom e sinti anche e non solo nel campo di Auschwitz-Birkenau. Queste testimonianze, insieme ai documenti rintracciati e studiati, hanno permesso di far sorgere a Berlino un Memoriale dedicato alle vittime del Porrajmos di fronte al Reichstag tedesco, a poca distanza dal memoriale ebraico. Credo che questa prossimità sia il simbolo più importante della direzione inclusiva che deve prendere la politica della memoria in ogni nazione. La consapevolezza diffusa invece ancora latita, soprattutto in Italia, dove non si pone ancora la necessaria attenzione. Il Porrajmos non è tuttora neppure menzionato all’interno della legge che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Tuttavia anche da noi la ricerca storica ripartita. Oggi abbiamo due strumenti multimediali all’avanguardia rispetto al resto d’Europa: un museo virtuale (www.porrajmos.it) che ripercorre il Porrajmos in Italia tramite i documenti e la voce dei testimoni diretti ed il portale www.romsintimemory.it che narra le vicende dello sterminio nazista.

Ci sono responsabilità specifiche italiane, così come per la Shoah?

L’Italia fascista è stata un ingranaggio del sistema di persecuzione e deportazione di rom e sinti e quindi del Porrajmos. Questo attraverso almeno quattro fasi specifiche con un intervento sempre più radicalizzato: l’allontanamento ed il rimpatrio dei cosiddetti “zingari” (anche quelli di cittadinanza italiana), la pulizia etnica nelle zone di frontiera rispetto alla presenza di soggetti rom e sinti (con il confino obbligatorio in Sardegna), l’arresto e l’invio in “campi di concentramento riservati a zingari” sorti sul territorio italiano ad esempio ad Agnone (Molise) (www.porrajmos.it ripercorre le vicende a riguardo), la deportazione verso i lager oltre confine.

La memoria del Porrajmos serve se diventa la scintilla per avvicinarsi oggi ai rom ed ai sinti presenti nelle nostre città e scoprire che non sono quei “mostri” che la maggior parte delle persone immagina. Per scoprire, per esempio, che più della metà di rom e sinti nella nostra nazione sono di cittadinanza italiana e di antico insediamento. Sul Treno della Memoria della Regione Toscana gli studenti ed i professori avranno anche quest’opportunità: scoprire che le vicende di deportazione studiate hanno toccato anche le famiglie di rom e sinti che sono loro concittadini da tempo, ma che, a causa del pregiudizio diffuso, non è stato costruito uno spazio che permetta il racconto della storia e la costruzione di una memoria sociale. Basta un solo dato a chiarire definitivamente la linearità dell’esclusione e dell’odio tra passato e presente: durante il nazismo e il fascismo, i cosiddetti “zingari” furono perseguitati e sterminati perché indicati come portatori della “tara ereditaria” (dunque razziale) del “istinto al nomadismo”. Oggi la maggior parte degli Italiani crede ancora che rom e sinti siano “nomadi”; non è vero, non lo sono mai stati(O nella grande maggioranza tra loro non lo sono, cioè lo sono solo coloro che hanno ragioni di attività (circensi e spettacoli viaggianti che richiedono di spostarsi continuamente), o sono senza casa, anche per persecuzioni politiche e razziali, per cause di guerra anche di recente v. Rom dall’ex Jugoslavia e dall’est europeo).  Approfondire questo dato di fatto, magari a scuola, magari entrando in contatto con i rappresentanti rom e sinti delle associazioni presenti in Italia, apre un mondo e fa crollare il castello di carta del pregiudizio. Conoscere il Porrajmos può rappresentare quel soffio di vento in grado di scompigliare le carte e farci tornare a riflettere sul significato presente del fare storia e memoria”.

(Istinto al nomadismo ribadito pochi anni fa dall’attuale Presidente del Consiglio G. Meloni:’sono nomadi, allora devono nomadare’, quando si parlava di possibilità d’inclusione sociale ed abitativa nelle micro-aree o nelle case d’edilizia popolare)

Quanto serve recuperare questa memoria per combattere il pregiudizio oggi?

Sdoppiamento o dissociazione del sé di Auschwitz dal sé ippocratico ed umanista da Natzwiller (Fr) ad Auschwitz

Robert Jay Lifton psichiatra e saggista, è stato docente all’Harward IUniversity e al John Jay College of Criminal Justice di City University di New Jork. Autore di numerosi studi su Hiroshima, sul nazismo e sulla guerra del Vietnam, e le sue ricerche hanno riguardato soprattutto i rapporti tra la psicologia individuale e la storia.

“La mia ricerca su medici nazisti cominciò e finì con Josef Mengele. Era iniziata con lo studio su documenti legali su di lui e si compì nell’estate del 1985, proprio quando un gruppo di scienziati dichiarò che le ossa scoperte in una tomba brasiliana erano le sue.

Benché in origine avessi considerato la possibilità di costruire il mio studio attorno a Mengele, mi resi conto ben presto che, concentrando l’attenzione su di lui, avrei rischiato d’accentuare il culto della personalità demoniaca che già lo circondava, trascurando in tal modo il fenomeno nazista più generale dell’eccidio sotto l’egida della medicina. Non è che io intenda ridimensionare questo esemplare del male nazista:benché egli sia oscurato dalla sua mitologia diabolica, va detto che sotto molti aspetti essa è più che meritata. Piuttosto, il mio compito è quello di tentare di capire in che modo i suoi tratti psicologi individuali abbiano alimentato la visione bio-medica nazista, e se ne siano alimentati, e di apprendere che cosa egli abbia da dirci sull’eccidio compiuto sotto la copertura della medicina e sulla scienza medica corrotta . Il fatto che Mengele abbia trovato ad Auschwitz l’ambiente a lui favorevole ci dice molto non solo sull’uomo, ma ancor di più sulla psicologia dell’istituzione. Mengele non divenne (subito) una figura pubblica famosa – tristemente famosa – subito dopo la guerra. Egli era ovviamente ben noto ai sopravvissuti di Auschwitz, fu oggetto di testimonianze fornite nel 1945, e fu menzionato occasionalmente durante le indagini per il processo di Norimberga, ma non fu tra gli imputati in quel processo nè successivi processi a medici negli anni Quaranta.

Solo nel 1958, cominciò ad essere oggetto di pubblica infamia, grazie anche agli sforzi dello scrittore tedesco Ernest Schnabel, che venne a conoscenza delle attività di Mengele ad Auschwitz mentre compiva ricerche per un libro su Anna Franck. Superstiti di Auschwitz rifugiatisi in tutto il mondo cominciarono allora a far sentire la loro voce a fornire testimonianze per le indagini legali tedesche. E mentre Mengele si spostava da un luogo all’altro del Sudamerica er evitare la cattura e l’estradizione, le testimonianze dei sopravvissuti s’accumularono senza soste, anche se a volte con relazioni e affermazioni più dubbie da parte di persone meno qualificate a parlare. [….] Mengele si riflette nella dichiarazione di un uomo che sostenne di averlo visto regolarmente in Paraguay e che lodò gli sforzi da lui fatti ad Auschwitz “per liberarci degli storpi della società”, anche se in un modo che “non fece nulla di più che scalfire la superficie”: Senza dubbio nessun criminale di guerra nazista ha suscitato tante fantasticherie, e tanta letteratura. In un romanzo del 1976 trasformato in un film di grande successo, “i ragazzi venuti dal Brasile”, Mengele è ritratto come uno scienziato brillante, demoniaco (diabolico), impegnato nella produzione di numerosi cloni di Adolf Hitler. Un pò di un più di un decennio prima, in una esplorazione teatrale più seria del genocidio nazista, “Il vicario”, Rolf Hochhuth creò un personaggio simile a Mengele, noto come “il Dottore” che è “un’incarnazione della malvagità pura, molto più compiuta in questo senso di Hitler”. Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 459-461

I medici e gli scienziati nazisti ebbero un ruolo centrale nella selezione e nell’annientamento dei deportati nei vari campi di concentramento e soprattutto di sterminio, ma anche le maggioranze rumorose nelle piazze come quelle silenziose nelle case.Il giuramento ippocratico, pur essendo per il medico un impegno a praticare l’arte della guarigione ed evitare in ogni modo di uccidere o danneggiare le persone da lui/lei curati/e, fu quasi del tutto abbandonato da Natzwiller ad Auschwitz, come in tutti gli altri luoghi di concentramento, selezione, manipolazione genetica, atroci sperimentazioni mediche-scientifiche ed infine sterminio.”

Il dottor Auschwitz: Josef Mengele . L’ss uscito da Mein Kampf:molto retto e puritano. Un medico prigioniero di Auschwitz

“Era capace di essere gentile con i bambini(disabili,ebrei e zingari) da renderli molto affezionati a lui,da portare loro zucchero, da pensare a piccoli particolari della loro vita quotidiana e da far cose che noi ammiravamo genuinamente…E poi, subito dopo….il fumo dei crematori, e questi bambini, domani o dopo mezz’ora, li avrebbe mandati là. Ecco dov’era l’anomalia. ” Un medico prigioniero di Auschwitz

L’uomo doppio (l’homme double) Il doppio (le double) (e qui ci si riferisce al dott. Mengele, ma non solo a lui/lei a tutto il personale di servizio e non, che aveva partecipato allo sterminio.

La parola doppio fu effettivamente usata, infatti l’antropologa Magda V. (in qualità di prigioniera-collaboratrice) parlò di Mengele come di una “personalità scissa”. Essa conosceva le relazioni di altri sulla sua brutalità e non aveva “alcun dubbio” sul fatto che potesse essere capace ma, aggiunse, ciò non avvenne “mai in mia presenza”. Quando continuò chiedendosi se la sua presenza non potesse aver esercitato un “effetto umanizzante” su Mengele e su altri altri medici/mediche ss per il fatto che “io trattavo tutti [i prigionieri e medici ss] come esseri umani”, stava esprimendo un altro principio dello sdoppiamento: l’importanza per ciascuno di vedere il proprio sé confermato dagli altri. La parola “doppio” fu effettivamente usata dal dottor Alexander O. (medico prigioniero e collaboratore) nei suoi sforzi angosciosi per trovare un terreno d’intesa con Mengele: L’uomo doppio (l’homme double). Il doppio (le double): egli aveva tutti i moti affettivi, tutti i sentimenti umani, la pietà e via dicendo. Ma nella sua psiche c’era un cella chiusa ermeticamente, una cella impenetrabile, indistruttibile: l’obbedienza all’ordine ricevuto. Egli può gettarsi in acqua per salvare uno “zingaro”, tentare di guarirlo…e poi appena usciti dall’acqua, dirgli di salire su un autocarro per portarlo in gran fretta alla camera a gas.

Eva C (un’altra prigioniera collaboratrice) disse con considerevole sensibilità, che la propria esperienza psicologica di prigioniera l’aveva aiutata a capire Mengele. Essa sottolineò che anche i prigionieri cominciarono “a comportarsi così…come se fossimo dentro una sorta di corazza” e come lei stessa, vedendo nei blocchi delle malate donne grottescamente deboli che tendevano le braccia e supplicavano “Aiutatemi! Aiutatemi!, si sentisse “un pò imbarazzata”, poichè pensava:”Noi siamo qui per morire. Che cosa intendi dicendo: “Aiutatemi”?:

Poi poté aggiungere:”Il fatto che queste persone avessero in realtà conservato la loro salute mentale [chiedendo aiuto] e che fossi io a dare i numeri…non mi passò per la mente. Sa ero già toccata da quell’intera mentalità di [Auschwitz]”.

Eva C. continuò a spiegare che sia i medici ss sia i prigionieri erano presi in quell’ingranaggio: “Perciò potei capire Mengele”.

Auschwitz era “un pianeta diverso” le cui regole capovolgevano totalmente quelle della società comune: secondo le regole di Auschwitz, alcuni erano eravamo lì per morire e non per vivere e, per poter accettare ciò, dovevano passare ad un tipo di mentalità diversa, ad un diverto tipo d’atteggiamento”.

Anche i medici SS dovevano compiere una transizione simile, nel loro caso con l’aiuto della precedente immersione nell’ideologia nazista. “Essi erano ben preparati”. Essa (ella) riusci a capire qualcosa dello sdoppiamento omicida nei medici nazisti riconoscendo forme benigne di un processo affine in atto in sé stessa ed in altri prigionieri.

Benché tutti i medici nazisti abbiano subito uno sdoppiamento ad Auschwitz, Mengele fu speciale per l’incompatibilità apparentemente estrema delle due componenti del suo doppio sé… Il suo sdoppiamento fu accentuato da certi tratti psicologi: le sue tendenze schizoidi, la sua capacità straordinaria di di mettere a tacere la sua coscienza ed il suo impulso verso il sadismo e (il senso) d’onnipotenza (che risultano essere estremamente connessi tra loro).” Tratto da Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 510-512

Il paradosso dell’uccisione come terapia “L’immersione dei medici nazisti nel paradosso dell’uccisione come terapia fu cruciale nel dare il la allo sdoppiamento, poiché il Sé di Auschwitz doveva vivere in quel paradosso. Nella misura in cui si abbraccia la portata estrema della visione nazista di uccidere gli ebrei (e la totalità delle vite indegne di essere vissute) per guarire la razza nordica, il paradosso scompare. Il Sé di Auschwitz può vedere se stesso come fondato su un principio lodevole di “igiene razziale” e come operante verso una nobile visione di rinnovamento organico: la creazione di una vasta “comunità biotica tedesca” in cui si possono tracciare paralleli fra la missione tedesca di conquista del mondo e il più piccolo sistema fisiologico intracellulare.[….] Anche la guarigione conseguita per mezzo dello sterminio poteva diventare parte della visione mirante all’immortalità, del “diritto e ….obbligo umano più sacro”, che quello di “far sì “che il sangue venga preservato puro e, conservando l’umanità migliore, di creare le possibilità di sviluppo più nobile di questi esseri”(Himmler) tratto da Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 584-585

“Ai medici nazisti di Auschwitz si chiedeva di sdoppiarsi a beneficio della rivitalizzazione, che era un bene comune (con i medici nella funzione di mediatori razziali fra il capo-eroe e la comunità ariana più vasta) e sacro (rivendicando la sua funzione ultima dai morti della prima guerra mondiale). Hitler fu molto preciso su questo punto, dichiarando con “chiarezza cristallina” la sua dottrina della nullità …del singolo essere umano e della sua esistenza continuata nella visibile immortalità della nazione. Ed altrettanto chiaro fu Alfred Rosenberg nell’insistere con fermezza sulla tesi che la personalità umana viene conseguita solo quando si è integrati, spirito ed anima, in un successione organica di migliaia [di individui]della propria razza.

Si trova qui la possente lusinga della sostanza razziale-culturale che conferisce l’immortalità.

Nella risposta dei giovani medici a quella lusinga, l’entusiasmo per le conquiste pratiche del nazismo si fondeva con un senso comune di potere comune mitico.

L’ethos comunitario era così forte che, persino quando si era profondamente turbati dalla politica nazista, si esitava ad opporsi ad essa perché ciò avrebbe significato: “tu diventi un traditore e pugnali alle spalle il tuo popolo.”

O aderisci alla comunità sacra o si è visti (e si vede se stessi come traditori, assassini e codardi).

Le ss erano “la comunità [di élite] nella comunità; i loro appartenenti erano “legati da un giuramento”, colmi di “spirito di corpo, costanti nel loro misto di crudeltà e di coraggio. I medici nazisti che entravano nelle ss si impregnavano di una parte di questo ethos. Ognuno di loro pronunciava il giuramento delle ss: “Giuro a te, Adolf Hitler – come Fuehrer e Cancelliere del Reich- lealtà e valore. Prometto a te e ai miei superiori, da te designati, obbedienza sino alla morte, con l’aiuto di Dio”, e diventava in tal modo quello che un osservatore chiamò un “combattente ideologico”, portasse o no sulla fibra della propria cintura (come i comuni appartenenti alla ss) il motto delle ss: “il mio onore significa lealtà”. […] “Il giuramento ippocratico fu percepito come poco più di un rituale lontano e desueto praticato ai tempi dell’università e veniva prontamente rovesciato dal rituale di una bruciante immediatezza, delle selezioni, oltre che della serie delle pressioni e remunerazioni dirette verso il Sé di Auschwitz liberato dai residui ippocratici. In effetti con il giuramento a Hitler il medico escludeva essenzialmente gli ebrei ( i prigionieri e i deportati, e tutti/e i non conformi, le vite indegne di essere vissute) dalle proprie responsabilità ippocratiche”. Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 589-590

Il paradigma vittimario del Novecento e l’incoscienza del carnefice (Richard Rechtman, le vite ordinarie dei carnefici,Einaudi ed.)

“Gli elementi d’interesse sono costituiti dall’attenzione che si è andata manifestando verso quei gruppi sociali, e quindi quelle persone che, travolti da eventi soverchianti, ne sono risultati annientati. Un indagine sui traumi che da ciò derivano, a partire dai sopravvissuti, così come dal vuoto che l’assenza delle vittime ingenera nella collettività di cui erano parte, non può essere esclusa dall’orizzonte analitico dello studioso. Non di meno, ciò rivendica la necessità di dotarsi di una strumentazione appropriata, per non lasciarsi indurre nella duplice tentazione di relativizzare o enfatizzare, dove la vittimofilia, ossia la passione e la pietà per le morti “ingiuste”, sembra sommergere, come una perenne onda in piena, la pluralità dei percorsi, processi e fenomeni che portarono alla distruzione delle vite così come anche al rifiuto politico (ed etico), laddove esso si manifestò,che ciò continuasse a succedere. Il rischio che la figura totalizzante della vittima oscuri quella dell’oppresso – e con essa la carica oppositiva di chi, invece,a tali derive ha opposto non solo la sua personale resistenza ma una più generale volontà di liberazione, attraverso un percorso alternativo di tutela dei diritti umani- è un paradosso che si innesca nella lettura dei processi storici quale essa viene schiacciata sull’esclusiva narrazione del passato come una sorta di Pantheon del terrore. In altre parole ancora, l’ipertrofia dell’immagine della vittima può produrre una sorta di eterogenesi dei risultati, incentivando un determinismo storico basata sull’ineluttabilità delle tragedie. L’indignazione che ne deriva non è in sé un antidoto, se a ciò non si accompagna un investimento nell’azione politica. Poiché se il panorama esclusivo è quello di una successione di rovine, l’immagine che ne viene trasmessa è quella dell’impotenza associata al dolore insensato. L’agire politico richiede invece dei significati condivisi,che superino la soglia della mera valutazione morale, in sé paralizzante, per trasformarsi semmai in motore d’opposizione. Si tratta di un effetto perverso della comunicazione sociale: partendo dalla premessa che la conoscenza di una tragedia costituisca di per sé un tassello fondamentale della pedagogia pubblica, la lettura della storia come un succedersi di catastrofi ne comprime quello che invece è anche soprattutto un tempo dove l’idea d’emancipazione prende corpo e assume sostanza, creando quindi coesione collettiva. [….] Richard Rechtman, nel suo testo ad indirizzo critico “le vite ordinarie dei carnefici”,benché non intenda fornire al lettore un testo onnipresente sul Novecento delle carneficine….., tuttavia indaga sulle modalità con le quali è necessario porsi dinanzi all’eredità degli omicidi di massa motivati fa una qualche ragione di stato (o ideologia politica o religiosa). L’autore antropologo e psichiatra, direttore di ricerca presso l’école des hautes études en sciences sociales di Parigi, su una vicenda poco o nulla studiata in Italia, con eccezione di Matilde Gallari Galli (con il suo volume su Pedagogia del totalitarismo, di oramai venticinque anni fa,ossia sul genocidio cambogiano. [….] Più che un libro sulla specificità di quell’evento, e sulla sua storia, si ha tuttavia a che fare con un testo che, partendo dalla contemporaneità di quei fatti, si muove verso la definizione di categorie interpretative che possono fungere anche nella comprensione di altre tragedie collettive. Tra di esse ad esempio, quelle che hanno attraversato il Kurdistan iracheno nell’ultimo decennio, con la presenza criminale dell’Isis. L’articolazione in cinque capitoli (cronache di carnefice, godimento e crudeltà del mostro, l’uomo ordinario e le sue patologie, amministrare al morte e l’ordinarietà del genocida) risponde quindi all’esigenza di fornire al lettore alcune chiavi di interpretazione applicabili anche in contesti tra loro differenti. […..] Non si tratta di disegnare delle maschere o dei costumi facilmente intercambiabili, nè di definire degli idealtipi negativi. Piuttosto, attenuando il convincimento ancora diffuso per cui sarebbe solo ed esclusivamente una qualche ideologia a fare la differenza tra i crimini e il suo rifiuto, per Rechtman fondamentale è invece l’insieme delle relazioni sociali che inducono più individui a commettere gesti estremi, creando una sorta di solidarietà e di reciprocità tra carnefici. Il vero fuoco d’indagine, quindi, non sono i costrutti morali e neanche le trame politiche bensì il tessuto socio-culturale che genera l’accettabilità delle catastrofi, in quanto esito plausibile dei grandi rivolgimenti, nel passato così nel presente. Lo scavo è quello antropologico (od etno-antropologico)cercando di sondare il rapporto tra le soggettività criminali, il substrato mentale che renda accettabile l’agire omicida, dispositivi culturali diffusi e condivisi nonché le condizioni oggettive, ovvero quei contesti storici nei quali qualsiasi idea di palingenesi, o di riforma della collettività, passa attraverso la pratica dell’eliminazione fisica, biologica, civile di una parte di esse. L’autore non offre letture ed interpretazioni del tutto inedite. Il solco che segue è, semmai, quello affermatosi da una ventina d’anni, dell’etno-antropologia adottando questo ampio spettro disciplinare come strumento per guardare ed indagare all’interno dell’incoscienza del carnefice.”

Frammenti analitici e critici tratti dall’articolo: “La Soah e il paradigma vittimario del Novecento”, di Claudio Vercelli, il Manifesto, culture, il 20.1.23)

Poetiche romanes

Gelem Gelem

Inno internazionale adottato al 1 Congresso mondiale dei Rom, anno 1971. Prima strofa dell’inno internazionale dei Romanì, composto dal musicista romanì Zarko Javanovic (1925-1985), musicista che subì una lunga carcerazione durante il Porrajmos (divoramento) o Samudaripen (grande morte o genocidio) (2)

Gelem, Gelem Inno internazionale nella lingua standard romanes

Ho camminato e camminato

Ho camminato, e camminato per lunghe strade,

ho incontrato rom fortunati (felici)

Ehilà, gente rom?

Da dove venite con le vostre tende e i vostri bambini affamati?

Oh, gente rom!

Oh, fratelli!

Anch’io avevo una grande famiglia, l’ha sterminata la Legione Nera.

Uomini e donne rom furono squartati, e tra di loro anche bimbi ancora piccini.

Oh, gente rom!)

(Oh,sorelle!)

Dio, apri le nere porte, affinché io possa vedere dov’è andato il mio popolo.

E tornerò a camminare per le strade,

e le percorrerò con fratelli e sorelle rom gioiosi.

Oh, gente rom!

Oh, fratelli!

Oh sorelle!

In piedi, rom!

Ora è il momento, venite con me,

rom di tutto il mondo con i vostri volti bruni e vostri occhi scuri tanto desiderabili come l’uva nera. Oh gente rom!

Oh, fratelli!

Oh, sorelle!

Piccoli cuori morivano

Erano gli anni della persecuzione, dei rastrellamenti quotidiani e del porrajmos. Allora, per sottrarsi a tutto questo orrore, le genti Romanì si nascondevano nei boschi; però là in quei nascondigli, sopravvivere non era così facile, di conseguenza questa povera gente per non farsi avvistare o catturare dalle continue perlustrazioni nazi-fascisti, non doveva accendere fuochi né di giorno né di notte, ed in queste condizioni estreme dettate da inverni rigidi e freddi, accadeva che bambini e anziani Rom morissero in gran numero per freddo e per fame.

Ratvalè jasvà (lacrime di sangue)

Nel bosco senz’acqua, senza fuoco – grande fame.

Dove dormiranno i bambini?

Non c’è una tenda.

Non si può accendere il fuoco durante la notte, di giorno il fumo dà l’allarme ai tedeschi (ai nazi). Come vivere con i bambini nel duro inverno?

I fiocchi di neve cadevano sulla terra, sulle mani come piccole perle.

Occhi neri gelavano

Piccoli cuori morivano.

Testo della poeta partigiana rom polacca Papusza

Jasenovac fu campo di lavori forzati e di sterminio in Croazia tra 1941-45, considerata assieme a Buchenwald , la terza Auschwitz, quella dei Balcani.

Qui sono stati sterminati 750.000 slavi del sud , 60.000 ebrei e 26.000 Rom dei Balcani, sono state esercitate e documentate atrocità inenarrabili, come uccidere 8.000 bambini, molti tra loro straziati sbattendo le loro teste contro le pietre o sgozzandoli con un coltello, regime clerico-fascista ideato da Ante Pavelic, il capo della Repubblica degli Ustasha.

Jasenovac fu un campo gestito dagli Ustasha, i fascisti croati , che agivano in stretta collaborazione con i francescani croati, che davano copertura ideologica a tale macchina artigianale della morte, ispirati dal cardinale Alojz Stepinac ex cappellano militare (beatificato da Wojtyla negli anni ‘90), che salutò l’esercito degli Ustasha “come i rappresentanti legittimi della Chiesa Divina’ e partecipò attivamente a propagare con loro l’odio razziale e religioso contro le minoranze locali e non cattoliche, incitando apertamente al loro sterminio”.

Nel 1942 il responsabile di Jasenovac riferiva direttamente a Pavelic: In un anno, soltanto a Jasenovac, abbiamo ammazzato più gente di quanta ne sia riuscita ad ammazzare l’impero turco-ottomano in tutta la permanenza dei turchi nell’Europa balcanica.”

Anche se Stepinac fu costretto in seguito alle informazioni che circolavano sulla ferocia perpetuata ad Jasenovac a fare tenue critiche a quel campo di sterminio che definì in alcune limitate prediche “una vergogna per il popolo croato”, ma non fece mai dichiarazioni pubbliche contro tale campo e i suoi efferati crimini.

E’ stato dimostrato in seguito che le gerarchie ecclesiastiche cattoliche e lo Stato del Vaticano erano a conoscenza di tale aperta complicità dei religiosi cattolici. Un silenzio assordante.

Hanno calpestato il violino zingaro

Cenere zingara è rimasta

fuoco e fumo salgono al cielo.

Hanno portato via gli zingari

I bambini divisi dalle madri le donne dagli uomini

hanno portato via gli zingari.

Jasenovac è piena di Zingari legati ai pilastri di cemento

pesanti catene ai piedi e alle mani

nel fango in ginocchio.

Sono rimaste a Jasenovac le loro ossa denuncia di disumanità.

Altre albe schiariscono il cielo e il sole continua a scaldare gli zingari.

Erano tre fratelli

Cresciuti insieme s’abbracciavano,

s’amavano ma non presentivano che cosa sarebbe avvenuto loro.

Un fratello di notte hanno portato nel campo di concentramento (Konzentrationsbereich)

Sono rimasti due fratelli

Speravano che tornasse.

Ed essi cantano la canzone della sua lontananza.

Tre fratelli uno dietro l’altro fusi in un essere solo divisi per sempre lontano l’uno dall’altro.

Sono rimasto in bilico ad Auschwitz

Sono rimasto in bilico

Sulla lama di un coltello

Sono rimasto gelato come la pietra.

Il mio cuore tremò sono caduto sul filo del coltello.

M’è rimasto la mano destra e l’occhio sinistro

ho versato lacrime ad Auschwitz dove sono rimasti gli zingari.

La lacrima è scesa

la mano ha preso la penna per scrivere parole qualunque

Testi poetici di Rasim Sejedic e di Papusza tradotti dal romanes dal glottologo Angelo Arlati

Non è accaduto ma può accadere ancora con quegli ossessivi e rancorosi messaggi che si rincorrono sui social e non solo, che risvegliano antichi fantasmi di purezza delle razze e delle nazioni (non più genetiche ma culturali)con quelle quelle ambigue espressioni sovraniste “prima gli italiani” o quelle altre che additano il pericolo che le nuove migrazioni possono provocare una “sostituzione etnica” , ma scordandosi che noi moderni europei siamo delle ibridazioni umane, culturali, linguistiche mediterranee, romano-barbariche e fatte e rifatte di molti altri geni e memi terrestri(Sapiens e non Demens). Infine per contrastare questo”eterno ritorno ed eterno fascismo” si richiederebbe di accompagnare alla nostra giusta indignazione, azioni comuni d’inclusione sociale e culturale dei sopravvissuti e delle affini nuove generazioni, al fine di disattivare stigmi, pregiudizi, risentimenti e reattività rancorose che continuano ad affiorare nella storia.

Testi poetici romanì tratti dall’antologia meglio atlante poetico per la presenza transnazionale dei romanì,auto-prodotta da Pino de March, cofondatore ed ricerc-attivista di Comunimappe, ed. Versitudine 2022

Testo: stermini dimenticati e lunghi silenzi su mancate inclusioni elaborato da Pino de March Pino de March: ricerc-attivista e docente di Comunimappe -libera comune università -pluriversità bolognina e membro onorario dal 01.01.2023 del Mirs -Mediatori culturali rom e sinti (dopo esserne stato vice-presidente fino al 31.01.2022)

Convivio sulla trans-ecologia

La libera comune università pluriversità della Bolognina auto-organizza convivio in cooperazione con la commissione cultura della zona ortiva e con altre singolarità -comuni: Collettivo e rivista – per l’Europa Futura ed il Gruppo ricerca ed azione: Fumanboli – Saperi del basso.

Installazione di Ernesto Neto (1964, Rio de Janeiro) nella stazione centrale di Zurigo. Dal 2013 l’artista ha scelto di vivere a stretto contatto con gli Huni Kuin, una popolazione nativa della foresta amazzonica brasiliana, ed ispirarsi alla loro cultura, tradizioni, artigianato, l’estetica, valori e, soprattutto, il legame esistenziale di queste persone con la natura (intesa come ‘la foresta vivente ‘, che li comprende tutti, gli esseri che l’abitano.

Sabato 23 ottobre 2021

dalle ore 9,00 alle ore 14 (mattina)

(Piano A)

in Zona Ortiva -via erbosa 17 – Bolognina Se il tempo è bello ci troviamo qua, si consiglia di portarvi un piccolo plaid come quando si va a vedere l’alba. Per arrivarci: Giunti alla fermata dell’autobus 11C -ippodromo – di Via Arcoveggio prendere a sinistra Via Fratelli Cervi, in fondo ad essa, all’Asilo nido Grosso, si svolta a a destra in Via erbosa verso il sottopassaggio ferroviario, passato il quale si costeggia campo comunità urbana Sinta, e subito dopo (ci) troverete alla Zona Ortiva Erbosa.

(Piano B) Al Centro Sociale Montanari – Via di Saliceto 3/21 Se c’è maltempo:freddo e pioggia ci troviamo invece qua, Bolognina (sala teatro)

Hanno dato la loro disponibilità a relazionarsi: Gianluca de Fazio, filosofo della rivista Eco/logiche

Paolo de Toni, del ‘Gruppo per ecologia sociale della bassa friulana’ di S. Giorgio di Nogaro (Ud)

Marco Trotta, della rete ecopacifista

Rachele Lapponi, sociologa urbana

Aldo Zanchetta della rete Ivan Illich

Giusi Lumare, Banca ‘Momo’ del tempo

ed altre singolarità: Vincenzo Talerico di Centro studi Berneri Bologna

Giacomo Mascia del collettivo e rivista ‘per Europa futura’

Fabio Carnevali – Gruppo di ricerc-azione: Funamboli – saperi dal basso

Accorda il Convivio Pino de March – ricercatore di relazioni neo-umane e sociali di comunimappe e responsabile della commissione cultura della Zona Ortiva

Passo dopo passo verso un comune inter-pensare e inter-agire trans-ecologico

‘Non cesseremo di esplorare/

Alla fine dell’esplorazione/

Saremo al punto di partenza.

Conosceremo il luogo per la prima volta. Thomas Eliot

(Frammento poetico di un incipit di una conferenza nel 1979 di G.Bateson, all’Istitute of Contemporany Arts di Londra).

Non era il suo uno spunto letterario dice Sergio Manghi, sociologo della conoscenza in un suo articolo sulla rivista ‘exagerare’,ma il modo di intendere la conoscenza di G. Bateson, ovvero l’epistemologia: da intendersi per Bateson come la possibilità di ogni essere vivente di conoscere,pensare e decidere. Ed ogni corpo vivente lo è, dal micro al macro organismo, e tutto è processualità, relazione e conoscenza, senza però trascurare il ruolo degli umani, come esseri ‘ri-e- voluti’ neo-umani , cioè singolarità che condividono un camminano comune verso una rivoluzione ecologica mentale e sociale, e soprattutto consapevoli di queste interazioni tra il ‘naturale’ e ‘l’artificiale’, tra l’ecologico, il mentale ed il sociale, per non cadere una dimensione d’indifferenziato anti-specismo radicale o peggio di biocentrismo.

In uno spazio di convivialità ove il relazionarsi è premessa indispensabile alle nostre relazioni conoscitive e ai nostri metaloghi, ci impegneremo insieme a tessere una trans-ecologia, innanzitutto come sapere delle relazioni e della complessità, non riducibili ad una specificità qualche sia: ambientale o altra, che comunque considereremo indispensabile per tramare questa comune trans-ecologia. opereremo attraversamenti e e sconfinamenti tra territori contigui ed affini, e relative teorie critiche e e pratiche sociali. Ognun@ condividerà proprie cartografie e strumenti di navigazione per ridefinire un nuova cosmologia ecologica sociale e libertaria, Inter-corporea ed Inter-pensante: post-naturalista, post-dualista, post-capitalista, post-coloniale, post-patriarcale ecc;
‘post’ (prefisso) a cui attribuiamo valore temporale e spaziale (un dopo non realizzato ma da realizzare) indicativo di un processo critico micro-politico ed inter-sezionale, agito da soggettività e movimenti di de-codificazione e di de-territorializzazione, in ogni spazio-tempo di vita, sottoposta a logiche di assoggettamento e di dominio, per affermazioni eco-logiche di una ‘molteplicità di forme di vita’, in un mondo di vita comune, o foresta di viventi e di segni.

“Ma al di là di questo, o meglio insieme a questo, mi sembra di cogliere nella forma – metalogo in modo assai efficace per accostare una delle questioni maggiori che stanno nel cuore di questo tragico secolo e che interrogano in profondità le nostre pratiche di scienziati sociali, Bateson le esprime sinteticamente così:

“io credo che questa massiccia congerie di minacce all’Uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nella nostra abitudine di pensiero a livelli profondi ed in parte inconsci (Verso una Ecologia della Mente, pp.507-508)

La frase mette in scena, per così dire, un nesso circolare, di reciproca conferma, tra nostre colpevoli abitudini comportamentali e la distruttività praticata, quasi intenzionalmente, nei rapporti micro e macro-sociali e nei nostri rapporti con gli eco-sistemi in cui viviamo, e le nostre innocenti ‘abitudini’ di pensiero.

Abitudini, queste ultime, che a livelli profondi ed in parte inconsci abitano sia le pratiche sociali distruttive sia quelle socialmente delegate (ed auto-delegate ) ad indagare sulle cause di tale distruttività.

La via dell’inferno, oltre che di buone intenzioni, è lastricato anche di buone spiegazioni.

La condizione in cui veniamo a trovarci intravista questa circolarità, è da vertigine.

Mentre pensiamo a come far fronte a quelle minacce, dovremmo sospettare, auto-riflessiva-mente, dello stesso modo di pensare che stiamo mettendo in atto.

Condizione terribile: per cambiare i nostri modi di pensare, scrive infatti Bateson in un quasi-aforisma quasi nietzschiano, ‘dobbiamo attraversare la minaccia di quel caos dove il pensiero diventa impossibile (V.E.M, p.132)

Dove diventa impossibile, cioè, pensare secondo le nostre abitudini più innocenti: quelle, per esempio, ancorate alla fede (‘anglosassone’) nel chiaro linguaggio della ragione, dualistica mente separata dalle emozioni e dai loro ‘oscuri’ linguaggi interattivi, relazionali sociali.

La forma-metalogo è insomma il modo in cui Bateson si prova a ‘giocare’ il dualismo delle nostre abitudini di pensiero e d’azione, il suo modo di attraversare la minaccia di caos dove il pensiero diventa impossibile.(Sergio Manghi)

Una trans-ecologia consapevole non può non focalizzare la propria critica sul “plurisecolare naturalismo filosofico’ (cartesiano, positivista)imposto e costituito come blocco centrale (verticale, separato e frontale) degli/dagli umani considerati origine di ogni inventività e decisione, ma soprattutto come blocco dissociato dal mondo della natura che ritiene disponibile ed avverso alla nostra sopravvivenza, che ora preferiamo chiamare ambiente “(Descola, antropologo)

Però “Per non cadere in un antispecismo radicale bisogna ridomandarsi che cosa sia la natura?

La natura è un ricchissimo insieme di epistemologie naturali; come si può infatti affermare una sorta di antispecismo radicale, che riconosce nell’intera natura l’esistenza di capacità conoscitive e di auto-organizzazione in equilibrio globale non gerarchico?

Per me si tratta di forme e strategie conoscitive mutevoli e adattive che vivono in nicchie locali, ma sono inserite in un ambiente universale cosmologico; le epistemologie naturali sono necessariamente una sintesi di tutti questi elementi” (Paolo de Toni)

In primis evidenziare e far emergere le sommerse ‘concatenazioni esistenziali di una “lunga catena di relazioni incrociate, tra umani, piante, animali, divinità, paesaggi, antenati ….'(Descola), e non solo,ma anche linguaggi, strumenti e tecnologie come mezzi che hanno come fine la realizzazione di sé, o di sé con gli altri (un farsi naturale e sociale e viceversa o diremmo oggi ecologico e sociale) che hanno accompagnato la vita de@ Sapiens.

Su questo il contributo di Illich ci può aiutare a chiarire questa sovrapposizione tra funzione strumentale e funzione sistemica: “All’altro estremo dello spettro che va dall’inizio a quella che secondo Illich è la fine dell’era tecnologica o strumentale, l’attuale confusione tra mezzi e fini rende difficile una chiara definizione di che cosa è uno strumento. E qui possiamo chiederci: questa confusione non è forse segno di una certa deriva della percezione della tecnologia verso un atteggiamento di cieca sottomissione a ‘strumenti’ che, precisamente nella misura in cui diventano oggetto di venerazione religiosa, cessano di essere quello che erano, ovvero artefatti utili che possono essere rimessi nella loro scatola dopo l’uso? Se gli strumenti smettono di essere strumenti propriamente detti, che cosa diventano? …… Sia la strumentalità (la natura dello strumento occidentale) che l’economia sono espressione della logica dei mezzi e dei fini. In entrambi i casi, questa logica sfocia nel proprio capovolgimento: i mezzi diventano fini in sé, ed una venerazione quasi religiosa circonda sia il pensiero unico, auto-referenziale, dell’economia, sia la super potenza dei mezzi tecnici che non hanno altra finalità (anch’essa autoreferenziale se non la propria potenza). …… ”Liberata da ogni restrizione, innalzata a fine di se stessa, la strumentalità tecnica si trasformò (fin dall’alba della modernità ) in un imperativo quasi religioso e ritorcendosi contro l’umano. Separata, svincolata dall’insieme delle relazioni culturali ed etiche ereditate dal passato, nel mondo moderno la Tecnica minaccia di convertirsi in un sistema autonomo che, obbedendo alla logica implacabile dell’efficienza, tende a colonizzare progressivamente tutti gli ambiti di vita. (E in questo passaggio Illich prende in considerazione il pensiero di Jacques Ellul, espresso nel ‘Système technicien’, e dichiara la aperta filiazione e debito nei suoi confronti.”

[—-]

Dalla fine del Medioevo, ciò che caratterizza gli strumenti erano le intenzioni di chi li utilizzava, generalmente espressa con la parola ‘per’. Agli inizi degli anni ’90, Ivan Illich formulò l’ipotesi che la cultura occidentale e le culture occidentalizzate, abbandonate dagli strumenti che erano loro familiari ed invase da artefatti dalle intenzioni poco chiare, si erano orientate, anche ancora velatamente verso un ‘addio agli strumenti’ che le scuote alle fondamenta. E si reso conto che la nozione di strumento, che aveva guidato i suoi studi storici e le sue analisi della società contemporanea, stava per andare in pezzi. O meglio che la categoria ‘strumentalità’ era arrivata a coincidere con la società stessa, ed era diventata un fine in sé, non avendo più nulla al suo esterno. Cominciavano allora a proliferare artefatti che: – Non possono essere definiti come mezzi che perseguono fini chiaramente determinati; – Non sono più (e non sono più soltanto) al servizio di intenzioni personali; – Non hanno più un rapporto diretto con il corpo che li utilizza. Avendo perduto ogni limite, questi artefatti non sono più strumenti in senso proprio. Illich li definì ‘sistemi’. […] Per Illich lo strumento occidentale rimaneva esterno al corpo di chi lo utilizzava, per usare un suo termine, aveva con esso una relazione di ‘distalità’, nel senso di una distanza che era costitutiva della fra l’utilizzatore e lo strumento, e permetteva al primo di valutare se prendere o lasciare il secondo. […] A Partire dagli anni settanta, questa relazione conobbe un’inversione, preludio della sua scomparsa: cominciarono a proliferare nuovi artefatti, sempre definiti come strumenti ma privi di distalità. La perdita di questa caratteristica è l’avvento di artefatti che inglobano il corpo di chi lo utilizza e se ne impadroniscono, e questo sarebbe la ragione profonda dei crolli (smottamenti) che cominciarono a susseguirsi sempre più velocemente a partire dagli ’70 ed ’80. [….] Alla fine del XX sec., osserva Illich, molto di ciò che ancora chiamavamo ‘strumenti’ non corrispondeva più ad intenzioni semplicemente umane: erano diventate ‘a-umane’, un termine che secondo me, corrisponde al significato di ‘sistemiche’. [….]

Non abbiamo concetti per definire ciò che ‘viene’,visibile nei nuovi artefatti che proliferano da ogni parte. L’unica cosa che possiamo dire è che questi ultimi non corrispondono più all’idea classica di strumento. Possiamo chiamarli ‘sistemi’ e osservare a loro volta coloro che li utilizzano non sono più ‘professionisti’ in senso classico, ma gentili facilitatori che svolgono la funzione di interfacce che trasformano i loro clienti in sotto sistemi e assegnano loro i simulacri di percezione necessari per questa trasformazione. Non è più possibile accorgersi del fatto che l’incorporazione degli utilizzatori nel sistema preclude la possibilità di vedere quest’ultimo come uno strumento che sta di fronte al corpo. Un’altra riflessione deve condurci a meditare sull’uso della parola tecnologia nell’era dei sistemi. Il termine ‘tecnologia’ non ha cessato di evocare gli odori, gli oli ed i ritmi degli strumenti, ed applicarlo ai silenzi punteggiati di ‘clic’ dei sistemi erige le ‘tecnologie’ ad antecedenti dei sistemi stessi, creando una falsa linea di continuità. E’ compito della filosofia della tecnica denunciare questo inganno: presentare i sistemi come una tecnologia è un tranquillante, un velo gettato su un cambiamento storico a partire dal quale, dagli anni ’80, si profila un mondo che ancora non ha nome. [….]

Sotto la luce implacabile dei sistemi nascono nuovi ‘bisogni’, e una volta che si sono imposti, non possiamo più pensare il mondo senza di loro. Di fronte a questi nuovi bisogni senza frontiere, dobbiamo fare un autodafé (atto di fede) delle cosiddette ‘app’? O dobbiamo spostare la luce sotto cui le esaminiamo, con la speranza di illuminare quello che lasciano nell’ombra? Uscire dal virtuale per ripristinare certe distinzione tra effetti materiali ed effetti simbolici? Ristabilire certe distinzioni tra il mio corpo e i sistemi che pretendono di ridurlo ad un sotto-sistema? Non sarebbe il caso di affrontare l’argomento del divario tra l’apparente carattere di strumento del mio computer e le reti illimitate in cui mi coinvolge?

Frammenti tratti da ‘L’età dei sistemi nel pensiero dell’ultimo Illich’ Jean Robert. (Saggio non per dire la ‘parola ‘fine’ su quello che è stato il pensiero di Illich, ma per invitare i lettori al difficile impegno di perseguire il cammino ma concluso, come ha fatto Illich per tutta la vita. Come vivere oggi, qui, nell’età dei sistemi, della tecnologia dominate, dell’intelligenza artificiale o dell’ecologia dei sistemi digitali)

Gli sguardi ecosofici di F. Guattari che ci presenta De Fazio, e poi di seguito gli spunti di Prisca e di Bookchin ci permettono forse di non cadere in un indistinto ambientalismo oppure in un indifferenziato antispecismo radicale di cui ci ammoniva De Toni, ma anche a ridefinire il ruolo neo-umano delle nuove soggettività critiche ed eco-logiche :

“Uno degli apporti più innovativi della riflessione di F. Guattari alla questione ecologica è di averla smarcata da un’impronta strettamente ‘ambientalista’ attraverso un processo di ‘de-naturalizzazione’ delle analisi e degli oggetti di studio ecologici’.

Ad esemplificarlo, basti leggere quel che scrive F. Guattari in apertura del suo saggio le ‘Tre ecologie: ‘L’ecologia ha questo d’eccezionale,è stata dapprima una scienza e successivamente si è trasformata in modo tale da diventare una delle principali scommesse politiche ed etiche della nostra epoca’.

Certo l’ecologia scientifica continua a conoscere un grandissimo successo, del resto la scienza, maggiormente in senso ecologico e trans-disciplinare è uno dei saperi complessi

[……]

ma, al contempo, sembra che soltanto una presa di coscienza globale da parte dell’umanità dei problemi che essa pone possa permettere di giungere a soluzioni su una scala adeguata.

[…..]

Pertanto la crisi ecologica rinvia ad una crisi più generale del sociale e del politico.

A partire dunque dalla convergenza tra ecologia e riflessione etico-politica, la sua proposta teorica nota come Eco-sofia si articola su tre registri ‘ecologici’ complementari che determinano, ciascuno, tanto un ambito d’analisi, quanto un campo di operazioni pratico-teoriche: quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e dello della soggettività. Molti sono i livelli sul quale si potrebbe (e forse, data la carenza di studi in proposito, si dovrebbe) imbastire un lavoro tanto teorico quanto politico.”

(Gianluca de Fazio,filosofo)

Per quanto riguarda il pensiero ecologico e ‘la soggettività’ di cui si parla nelle relazioni dei vari autori (che U.Fadini a T.Villani presentano) in eco/logiche, saggio critico a più voci e mani, la domanda di Prisca che poi attraversa tutti@ in modo corale è : ‘che farne del soggetto?

Però lei vi aggiunge che ‘la soggettività non va solo riconsiderata ma anche ristrutturata.

Ed in questo riattamento non possiamo trascurare il soggetto che ci ha accompagnato nella nostra civilizzazione occidentale: un soggetto che domina la natura stessa e ne aliena tutte le altre soggettività che non siano maschili e bianche (e proprietarie aggiungerei)”.

(Prisca Amoroso,filosofa)

Per Bookchin invece la principale causa dell’attuale disastro ecologico è quindi da individuarsi nella logica della dominazione, da intendersi nel più ampio senso possibile, come risulta in suo importante ‘contributo a ‘Cara ecologia’ del 1980, pubblicata da Anarcopedia:
Ho sempre pensato che ecologia fosse sinonimo di ecologia sociale e perciò ho sempre nutrito la convinzione che la stessa idea di dominare la natura deriva dalla dominazione dell’uomo (non come genere indistinto, ma di maschio, bianco e proprietario) sull’uomo (come genere umano indistinto), dell’uomo (come maschio e patriarca) sulla donna (e sugli altri generi trans-femministi lgbtqi, aggiungeremo oggi), di un gruppo etnico su altro (o su culture minori), dello stato sulla società, della burocrazia (o tecnocrazia) sull’individuo, così come di una classe economica(borghese o proprietaria) su un’altra (subalterna) e dei colonizzatori sui colonizzati.

[….]

Il punto di partenza dell’ecologia sociale consiste dunque nella constatazione che il ripristino dell’equilibrio tra gli esseri umani e la natura, necessario per la sopravvivenza del genere umano, deve per forza passare attraverso un cambiamento delle relazioni sociali che porti all’eliminazione della gerarchia e del dominio.

Per l’ecologia sociale quindi “i problemi fondamentali che pongono la società contro la natura nascono all’interno dello sviluppo sociale stesso, e non tra la società e la natura. Ponendo l’attenzione sugli aspetti sociali dell’attuale crisi ecologica, l’ecologia sociale si distingue in questo modo sia dall’ecologia “umana” che da quella “profonda”: in particolare il termine sociale”vuole sottolineare che non possiamo più separare la società dalla natura così come non possiamo separare la mente dal corpo.(M. Bookchin)

Infine un altro approccio antropo-ecologico interculturale è quello di Descola che ci accompagna nella foresta vivente dei nativi Sarayaku, e solo da quell’internità possiamo cominciare ad immaginare nuovi rapporti cosmologici tra noi,la strumentalità e gli altri esseri viventi.

“Lo studio interculturale delle modalità di oggettivazione dei non umani pone un problema non secondario: popoli non moderni tendono ad attribuire a piante e animali molte caratteristiche della vita sociale.

Questi popoli a lungo definiti ‘naturali’ non sono per niente ingabbiati nella natura, perché gli oggetti e gli esseri che li circondano si adeguano in realtà a molte regole della società;

ed una natura dotata di molti attributi dell’umanità non è più natura.

Come dimostra l’antropologia, numerose società nel mondo non separano la cultura e la natura come se fossero due realtà incompatibili: questa è una distinzione recente nella storia dell’occidente di cui dovremmo veramente fare a meno, se si riflette sui mezzi che l’umanità ha usato per oggettivarsi nel mondo.

Non bisogna stancarsi di ripetere quindi che la nostra cosmologia è una condizione storica recente e non un riferimento eterno.

Ma quali allora le conseguenze della consapevolezza che possiamo vivere in una cosmologia singolare, non condivisa da tutti?

Una delle conseguenze del naturalismo è che ci induce a considerare i territori che occupiamo prima di tutto come sistemi di risorse e allora questi diventano vere e proprie pattumiere dell’umanità.

In altri modelli d’identificazione ancora molto vivi sulla superficie della terra e che gli etnologi contribuiscono a far conoscere, invece è la terra che possiede gli umani non il contrario.

Ci sono esempi molto diversi a questo proposito in cui l’autonomia ontologica dei territori s’afferma a seguito di conflitti con le forze predatrici del capitalismo.

E’ il caso dei Sarayakiu, comunità dell’Amazzonia equatoriale minacciata di espogliazione dalle compagnie petrolifere.

In un documento presentato ad una passata Cop 21

(Conferenza delle parti della Convenzione sul cambiamento climatico, tenutasi a Parigi nel dicembre 2015, alla quale hanno partecipato 195 Stati e molte organizzazione non governative internazionali),

i delegati Sarayaku domandavano a nome della propria comunità che venisse riconosciuto il territorio che abitavano,(ma sottolineavano) e dichiaravano di condividerlo con un gran numero di altri esseri.

Essi volevano che il riconoscimento venisse identificato con ‘Foresta Vivente’ espressione della lingua Quechua (che include molte lingue emergenti dal vasto impero Inca, e si pronuncia ‘Checiua o Chiciua).

La ‘Foresta vivente’ è composta di tutti gli esseri che la abitano e si relazione in quella macrocosmo condiviso.

Tutti gli esseri dalle piante più piccole fino agli spiriti protettori della foresta, sono esseri che vivono in un mondo di vita comune, e svolgono al loro esistenza con modalità simili a quelli degli umani.

Ciò che è interessante notare di questo documento è che non parla di diritti da riconoscere alla natura in genere, dato che la natura è una pura astrazione.

Il soggetto del diritto politico qui non è rappresentato nè dagli umani, nè dai non umani, ma dalle relazioni assolutamente singolari che essi intessono tra loro.

Niente ci vieta d’immaginare che l’autonomia ontologica (che riferisce all’essere in generale e alle sue strutture reali) dei territori si possa tradurre anche in autonomia giuridica e, che si stabilisca un diritto di questi nuovi soggetti politici.

Non tanto come esseri singolari ma come ecosistemi o ambienti di vita (mondi di vita comune), indipendenti dalle loro nature.

Esseri comuni come bacini idrici, massicci montuosi, città, quartieri, litorali, zone ecologicamente sensibili, mari e stretti ecc.

Tratto da Philippe Descola, antropologo francese, Il Manifesto 6/10/21.

Aggiungerei anche la nuova strumentalità: i molteplici saperi e linguaggi

con le relative intelligenze aumentate connettive, emotive e meccaniche operano per l’affermazione di una co-esistenza neo-umana ed inter-specista, non di sopravvivenza che comporta inimicizia, predazione, sopraffazione verso mondo di vita comune (che si traduce in estinzione) o in auto-distruzione tra umani (in guerre infinite).

Si tratterebbe di una vera ecologia politica, e cosmopolitica che non si limiterebbe a stabilire diritti intrinseci alla natura, ma avrebbe lo scopo di far si che i luoghi di vita (o mondi di vita comune in senso illichiano) con tutto ciò che li costituisce compresi gli umani diventano soggetti politici.

Una cosmologia condivisa da tutti gli esseri terrestri nè bio-centrica nè atropo-centrica, che prefigura una ‘molteplice soggettività in un mondo di vita comune in una nuova immaginata era: il Koinècene.

Concluderemo con un sobrio pranzo comune (che ci faremo portare dal cucina bio a k zero )

ALLE 15: Parteciperemo in città alla manifestazione della rete delle lotte ambientali in vista della Conferenza delle Nazioni Unite -Co 26 del 2021 a Glasgow sui cambiamenti climatici.

Per partecipazione al Convivio – scrivete al seguente indirizzo:comunimappe@gmail.com

Testo elaborato da Pino de March per Comunimappe e per la Commistione cultura della zona erbosa.

Info: www.comunimappe.org

RIFLETTERE SULL’EUROPA


Se si vuole fare una storia dell’Europa, questa storia la si deve riscrivere perché è storia di attraversamenti e contaminazioni.


                            Ratto di Europa (Mosaico del III secolo d.C.), rinvenuto a Byblos e conservato al Museo nazionale di Beirut


La libera comune università pluriversità Bolognina

promuove una

Assemblea popolare della cittadinanza attiva dell’Europa minore

Tema :
LA  GRANDE DELUSIONE EUROPEA:  
FUGGIRE L’AUSTERITA’
“contro l’assolutismo finanziario per ricostruire una solidarietà sociale continentale”

VENERDI 14  MARZO 2014 – dalle ore 20.30  alle 23

c/o  
SALA CIVICA CUBO – VIA ZANARDI 249 – Bologna  
(BUS 18 – frequenza 10/15 min. scendere centro sociale pescarola- )
Una iniziativa che vuole anche essere un dialogo aperto con la nascente lista Tsipras 
Relazionano circolarmente:
  • Franco Berardi – attivista politico culturale
  • Margherita Romanelli – cooperatrice internazionale 
  • Marco Trotta – mediattivista  
  • Gabriella Covri – animatrice filosofa di comunimappe

Accordatore assembleare
Pino de March

—————————————-
APPROFONDIMENTI

(!): CORO PER UN”EUROPA MINORE:

passaggi interiori/
ti immagino metafora deleuziana /
non ti immagino Grande Europa letteraria/economica/ militare/ imperiale
/ti immagino /deterritorializzata / sconfinata come tuoi cieli invernali/ /Blu notte/ illuminata dalla luna /
Ti detesto Europa/ territorializzata nella bandiera / rare stelle/ cielo blu opaco /senza mediterranee lune/
Ti detesto Europa territorializzata /
/con i tuoi temporanei lager di detenzione/ /senza cieli blu /
/senza stelle/ in tutte le stagioni /notti atroci per gli stranieri/
ti detesto Europa delle torri dei mercanti/ delle Banche/ degli stati di precarietà senza socialità/
Ti immagino Europa in divenire/ coi migranti/ mondo d’umani/
Ti Ascolto/ Ti Danzo /europa ribelle/ con i cantanti beuers/ delle tue banlieus/
passaggi esteriori/
ti ritrovo nelle mappe dei tuoi movimentati sognatori/:
passaggio numero 1: in Europa nessun essere umano è illegale /
passaggio numero 2: in Europa tutti gli umani devono avere un reddito di cittadinanza /per esistenze extra/
passaggio numero 3: in Europa la guerra è bandita/ come lo sono il razzismo / le diseguaglianze di ogni genere/
 
passaggi anteriori/
Ti rimmagino metafora benjaminiana/
Ti rimmagino europa nomade dei tuoi Ulissi/ naviganti / esiliati / senza terra/
dei tuoi tempestosi/ celebrali freethinkers/scienziati/ filosofi /politici/
dei tuoi tempestosi/emozionali freelands/artisti/poeti/musicisti/
Ti rimmagino europa bruniana dei mille campi di fiori /dei mille liberi pensieri/ dei mille liberi giudizi/dei mille liberi amori/
Ti rimmagino europe de l’ amour/ pour la libertè, l’ègalité, la fraternité des citoyenes de la Comunne de Paris
Ti rimmagino europa der Liebe/ fuer die Gleicheit der Karl Marx /der Rosa Luxemburg /der Karl Liebnecht /
der Bertold Brecht/
Ti rimmagino europa libertaria e cosmopolita/ de los Durrriti anarquistas espagnoles/
Ti rimmagino europa della fratellanza universale di Francesco D’Assisi
Ti rimmagino europa delle donne sagge /bruciate come streghe/sui roghi/ nelle piazze delle cattedrali/ sfidanti
il cielo/
Ti rimmagino europa beat/ desiderante nel pensiero e nell’azione/ degli operai/ degli studenti/ dei filosofi autonomi
del maggio/degli altri mesi / degli altri anni/ a venire/in tutte le tue città /

Ti rimmagino europa della glastnost/della trasparenza/dell’insostenibile leggerezza dell’essere nel pensiero e nell’azione/
degli operai /degli studenti/ dei filosofi dissidenti/ / nelle varie primavera di Praga/ di Budapest /
di Varsavia/
Ti rimmagino europa gaya dell’amore/ negato per secoli/
Ti rimmagino europa della libertà/ dell’uguaglianza/ della sorellanza/ tra/ tue/ lingue / disparate/
Ti rimmagino europa della resistenza delle masse/
Ti agisco europa della disobbedienza delle moltitudini/
Ora e sempre/ Europa delle sognatrici/
Ora e sempre/ Europa degli amanti delle umane genti/
Europa minore/
minore/
minore come l’asia /
del pastore errante/
dai passi leopardiani/

 Pino De March

————————
Omaggio a Danilo Dolci

La maieutica dolci
In questo tempo urlato ove ogni giorno dalle ceneri spuntano ciarlatani e pubblicitari con sempre nuove  menzogne, che fanno breccia tra la gente comune sollevando aspettative ed illusioni (like-mi piace) che si tramutano  in rapide delusioni (no like-non mi piace), la maieutica di Dolci fatta di circle timee  metafora della domanda può essere una buona terapia per vaccinarsi contro questa liquidità diffusa.
Circle time
Negli anni immediatamente successivi alla proclamazione della Repubblica, e sono gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, nella Sicilia come nel resto del paese perdurano analfabetismo, miseria, emigrazioni,  ingiustizie sociali ed oppressioni verso le donne e le nuove generazioni;
Danilo Dolci  un poeta e  un filosofo  pacifico non pacificato,
 s’impegna ad  attivare assemblee popolari con la gente comune: braccianti, contadini, pescatori, operai, artigiani, intellettuali, giovani e donne;
  vi è in lui “una  costante tensione a generare quelle condizioni antropologiche, sociali e politiche che permettono ai singoli individui di maturare una consapevolezza del proprio valore, del proprio potere, il bisogno di farsi sentire, di valorizzare la propria esistenza. È un processo che trova in Danilo Dolci una connotazione pedagogica. “
crescita di  un popolo
“Tali processi dal basso vengono da  lui stesso definiti  di  “crescita collettiva”, di crescita di un popolo, che non possono essere imposti dall’alto”, ma generati in circle time, in una circolarità che si fa reciprocità e conoscenza di sé e della propria condizione  antropologica e sociale.
Il suo impegno come educatore è volto a organizzare la speranza di un cambiamento a partire dalla presa di coscienza di ciascuna persona del proprio valore, delle proprie capacità e
quindi  delle potenzialità di generare nuove strutture auto-organizzate e generatrici di saperi popolari volti a progettare solidi  presenti comuni e solidali con uno sguardo lungo sul futuro.
Questo processi immersi nei conflitti sociali del suo tempo: hanno generato  individuazioni di classe, di genere e di generazione, e nella comune problematizzazione  pacifiche soluzioni.
metafora della domanda
“Se c’è una metafora che può caratterizzare l’esperienza pedagogica di Danilo Dolci è senz’altro la
metafora della domanda. Possiamo definire Dolci come l’educatore della domanda, ossia l’educatore che innesta tutta la sua azione formativa sul chiedere, sull’esplorare, sul creare,
sull’interrogazione, ovviamente non in senso scolastico, ma nel senso dello scavo, dell’andare oltre
l’apparente, cercando di scoprire il “non-noto”, ciò che è velato dalle tradizioni, dalla consuetudine,
dagli stereotipi. In questo sta il richiamo all’approccio maieutico, per cui Danilo Dolci è famoso,
alla pratica del tirar fuori, del porre gli educati nella condizione di allargare la propria sfera di
apprendimento a partire dalla capacità di utilizzare in maniera costruttiva le domande. “
(per queste riflessioni  mi sono avvalso di un testo di Daniele Novara, il gusto della domanda)
Per la comune accademia di comunimappe pino de march

——————————-
CAOSMOSI  EUROPEA

Europa minore nel suo divenire uno dei tanti mondi minori

L’attraversamento dei territori Kafkiani da parte di Deleuze e Guattari e le osservazioni che essi ne hanno tratto, ci permettono di formulare una costituzione immaginaria di quello che desidereremo diventasse l’Europa. 

“La letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. Kafka definisce in questi termini l’impasse che impedisce agli ebrei di Praga l’accesso alla scrittura e fa della loro letteratura qualcosa di impossibile; l’impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di scrivere in un’altra lingua… L’impossibilità di scrivere in una lingua diversa dal tedesco è per gli ebrei di Praga il sentimento di una distanza irriducibile rispetto alla primaria territorialità ceca.
Insomma il tedesco di Praga(e di Kafka) è deterritorializzato, adatto a strani usi minori(si veda in un diverso contesto, cosa possono fare i neri con l’americano). La letteratura minore è tutta diversa: l’eseguità del suo spazio fa si che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica…” La letteratura minore, infine – ed è questo il terzo carattere – tutto assume un valore collettivo.
(Attraversamento di Deleuze e Guattari di Kafka, pp. 27-29.)
I geofilosofi Deleuze e Guattari concepiscono la letteratura dopo l’attraversamento dei testi di Kafka come concatenamento o enunciazione collettiva di un popolo minore con tutta una serie di divenire.
Un divenire molteplice in cui è in gioco la vita, il desiderio e l’evento.
In questo momento in europa si giocano due visioni dell’europa:
una chiusa, spaventata e celebrativa della sua ricchezza economica e culturalmente eurocentrica ed una altra aperta, riflessiva e critica della società delle virtuali e reali abbondanze, empatica verso lo sconosciuto e pronta a confrontarsi anche con la durezza del divenire impetuoso dei migranti.
La prima visione rimanda alla clinica, al socio-patologico, al modo in cui il desiderio delle moltitudini viene piegato e bloccato lungo le linee ormai militarizzate delle frontiere-fortezze di Senghen e nei centri di detenzione per stranieri.
Il Castello-Europa sognato dai migranti come luogo della ricchezza (passaggio imperiale) e dei diritti umani (passaggio umano) si trasforma rapidamente in una reale fortezza kafkiana appena qualcuno dei altri mondi prova ad avvicinarsi alle sue mura virtuali; alla maniera del guardiano-super-io dell’agrimensore del castello di Kafka, il migrante viene bloccato sulla soglia malgrado che le porte siano aperte. Ma qui a bloccare l’accesso al castello non è l’autocensura del super-io dell’agrimensore ma la censura del super-io paranoico degli europei che si interdicono un possibile incontro con lo sconosciuto-migrante.
La seconda visione rimanda invece alla critica, in quanto fa interagire i desideri dei fuori(gli extra-comunitari) con i desideri dei dentro (intra-comunitari), provando così ad inventare nuove lingue e nuove forme di vita europee.
Lingue minori alla maniera di Proust, che come lo leggevano i nostri amici e filosofi Deleuze e Guattari ha saputo inventare una nuova lingua straniera dentro alla lingua francese.
Lingue minori anche alla maniera di Kafka che scrivendo in tedesco ha saputo inventare una nuova lingua tedesca attraversata dalle inquietudini della sua vita, dalla cultura ebraica appresa dalla madre e da quella ceca della sua città.
Lingue queste tutte minori non certo minoritarie.
L’europa minore nel suo divenire-ricombinante degli europei
Nella letteratura minore si iscrivono i movimenti di creazione dei vari divenire della vita e dei desideri.
I movimenti migranti nel divenire europei (flussi migratori) e i movimenti europei nel divenire mondo (flussi degli alterglobal), determinano un doppio movimento fuori-dentro-dentro-fuori, che ricrea nuovi passaggi comunicativi e di ricchezza non solo per l’Europa minore ma anche per i mondi minori attraversati dai flussi bidirezionali.
Il pensiero critico e minore si trova a fronteggiare oggi sia contro gli stati clinici locali e globali euro-americani con le loro guerre umanitarie e sicuritarie, con i loro no-tollerance, con il loro fondamentalismo economico liberista ma anche contro gli stati clinici neo-localisti  e fondamentalisti extraeuropei con il loro terrorismo, con le loro guerre etniche, con le loro segregazioni, con le loro guerre religiose.
Stati clinici psicotici occidentali bloccano i passaggi di vite alle soglie delle loro fortezze, lasciando passare solo degli schiavi a termine di lavoro e stati clinici nevrotici globali mercificano le forme di vita umane e naturali nello loro stressanti borse valori, dove tutto viene ridotto a merce.
Gli aggregati politici, sociali e culturali spontanei dell’Europa-minore e gli aggregati degli altri mondi minori con cui si è in relazione dopo Seattle e Porto Allegre non sono differenze o minoranze irriducibili nell’identità, come qualcuno continua a presentarci mediaticamente nella versione noglobal, ma singolarità comunicanti e disposte alle mutazioni (alterglobal o alterlocal).
L’europaminore non è l’europa delle differenze identitarie alla maniera dei Baschi, dei Bretoni, dei Celti-padani etc o dei vari separatismi) ma neppure l’Europa dei fondamentalismi religiosi in qualsiasi forma si presentino ( cristiani, ebraici, mussulmani, induisti, testimoni di geova etc), economici(liberismi moderati o radicali) o politici(terrorismi, razzismi, nazionalismi, localismi, xenofobia, omofobia).
L’europa minore non è la semplice europa delle differenze ma un’europa complessa delle singolarità comuni (differenza della differenza della differenza).
Ci sono delle differenze date storicamente e dal dominio(classe, genere, etnico etc) ma queste differenze comuni nei loro processi di liberazione(movimenti specifici) danno origine ad altre differenze(singolarità).
E queste singolarità si concatenano con altre singolarità(movimento dei movimenti) per dare vita ad una sfera pubblica comune delle singolarità.
Il dominio globale contemporaneo riconosce solo le differenze sociali, politiche, antropologiche e comunitarie ipostatizzate nella forma del benettonismo, del corporativismo, dei localismi, e dei nazionalismi e le individulità ipostatizzate in forma consumistica ed imprenditoriale ma disconosce qualsiasi forma di singolarità comune che aspiri all’autogoverno locale-comunalista o all’autorganizzazione economica e sociale nella forma della cooperazione politica o nelle pratiche dell’autovalorizzazione.
Singolarità comuni o comuni singolarità che si costituiscano in sfere comuni per ricreare rapporti di cooperazione autonoma al fine di aprire conflitti con i poteri dominanti per creare nuove possibilità di socializzazione della ricchezza socialmente prodotta(reddito), per rendere autonomi e produttivi socialmente i saperi, per lasciare ibridare le culture e permettere a queste di inventare nuove forme di società.
L’europa minore è l’europa delle città autogovernate che immagina e pratica la moltiplicazioni delle forme di vita ricombinate dal desiderio di vita, di una vita.
L’europa minore allude a forme di vita dis/identitarie e dis/topiche.
L’europa minore non è un luogo o un non luogo ma un passaggio,
l’europa minore non ha una identità definita e neppure una identità indefinita ma è una concatenazione comune in divenire creolo o ibrido di singolarità desideranti che si lasciano contaminare dai flussi umani e culturali che vengono dai vari fuori.(altri mondi).
L’europeo in divenire è un europeo complesso, non semplicistico e afasico alla maniera di Bossi –Fini-Berlusconi, è un intra-comunitario-extra (afro-europeo, euro-asiatico, euro-americano etc)
L’europeo in divenire porterà con sé non un segno bloccato(trattino) di separatezza metafisica(extra-comunitario) ma un segno nomade (trattino) di legame complesso(extra-comunitario-intra).
C’è un trattino linguistico che blocca i flussi desideranti di vita (frontiere-fortezze)-/-/–/–/
C’è un trattino linguistico che lascia passare i flussi desideranti di vita (passaggi) —-____——-__
Europa minore immaginata e il suo futuro anteriore
L’europa minore non allude a forme di vita alienate e mercificate dal capitale economico -finanziario .
L’europa minore crea nuovi passaggi di ricchezza tra nord e sud e tra ovest e est, crea nuovi passaggi culturali che ci permettono di pensare un’europa minore ed impensata, un’europa dove la vita scorre dentro di essa.
Nelle frontiere tra l’europa e il mondo, l’europa minore intende far parlare l’indicibilità dei migranti e degli europei in movimento nei due sensi.
L’europa minore immaginata è terra di passaggio, come del resto l’europa è stata nei secoli per gli invasori, i nomadi, i pellegrini e gli umani in cerca di nuove terre.
Tutti questi flussi deterritorializzanti nel bene e nel male hanno permesso all’europa geografica di divenire storia, alla natura europea di divenire cultura europea attraverso quella greca, romana, fenicia, romano-barbarica, normanna, araba, ebrea, asiatica etc.
L’europa e gli europei sono il prodotto di ricombinazioni genetiche e linguistico-culturali disparati.
Se si vuole fare una storia dell’europa, questa storia la si deve riscrivere perché è storia di attraversamenti e contaminazioni.
Testo elaborato da pino de march  per un’azione teatrale di strada dentro all’European Social Forum di Firenze 2001

DISOCCUPAZIONE CREATIVA E BENI COMUNI

Settimo Convivio dedicato a Ivan Illich 

                           Bologna, sabato 30 novembre – domenica 1 dicembre 2013



Presso l’HUB di via Luigi Serra 2/G, Bologna 

Organizza: Banca del Tempo Momo con la collaborazione di Comunimappe
 
Sabato dalle ore 10 con pausa pranzo conviviale (ognuno può contribuire portando qualcosa da bere o da mangiare) – Domenica dalle ore 10 alle ore 13
 
Interverranno
 
Jean-Michel Corajoud (Cercle des lecteurs d’Ivan Illich, Losanna, Svizzera): Ivan Illich e l’autonomia secondo la parabola del Samaritano
 
Andrea Sedini (San Feliciano sul lago Trasimeno): Intorno a “Non ci indurre nel diagnostico, ma liberaci dalla ricerca della salute” – Lettera di Illich a Manfredo Pace per il Simposio “Malattia e salute come metafore sociali” (Bologna 25-28 ottobre 1998) – Il corpo cibernetico come non corpo.
 
Adele Cozzi, Gabriella Orsi, Maria Messina, Daniela Conti (gruppetto di amici di Marzabotto e dintorni: Una pagina di Illich da leggere
 
Luigi FinelliIllich e Platone – Riflessioni di uno s-docente di filosofia
 
Claudio Orrù e Matteo Chinosi (Varese): Beni comuni? Commons? Ambiti di comunità?  – La difficoltà di descrivere il “fare comune” attraverso il linguaggio odierno
 
Pino De March (Comunimappe, Bologna): Illich, Marx, Polanyi e i Beni Comuni
 
Paolo Bosco (Comunimappe, Bologna): Il gigante dalle gambe di argilla non può fallire – Oltre il concetto di morfologia applicato alla realtà sociale, Illich e la sua eredità oggi.
 
Giusi Lumare (Banca del Tempo Momo, Bologna): Pratiche sociali di reciprocità
 
Salvatore PanuPratiche dell’autogestione collettiva ed estorsione istituzionale
 
Parteciperanno inoltre
 
Aldo Zanchetta (Lucca), Moreno Morara (San Lazzaro di Savena), Mauro De Filippo (Bologna) ed altr*…

———————————

APPROFONDIMENTI

DISOCCUPAZIONE CREATIVA
Ivan Illich
Prefazione.
Nell’ultimo decennio ho preparato e pubblicato un certo numero di saggi (1) sul modo di produzione industriale. Durante questo periodo mi sono soprattutto occupato dei processi attraverso i quali una crescente dipendenza da beni e servizi prodotti in serie elimina a poco a poco le condizioni necessarie per una vita conviviale.
Ciascun saggio, nell’esaminare un settore diverso della crescita economica, dimostra una regola generale: i valori d’uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predominio che io ho chiamato monopolio radicale. Questo saggio e quelli che lo precedono descrivono in che modo la crescita industriale produce la versione moderna della povertà. Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia. Sul piano soggettivo, essa è quello stato di opulenza frustrante che s’ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale. Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in maniera creativa; le riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato. Questo nuovo tipo d’impotenza, proprio perché vissuta a un livello così profondo, difficilmente riesce a trovare espressione. Siamo testimoni di una trasformazione appena percettibile del linguaggio corrente, per cui verbi che una volta indicavano azioni intese a procurare una soddisfazione vengono sostituiti da sostantivi che indicano prodotti di serie destinati a un mero consumo passivo: imparare, per esempio, diventa acquisto di un titolo di studio.
Traspare da questo un profondo cambiamento dell’immagine che gli individui e la società si fanno di se stessi. E non è solo il profano che fa fatica a descrivere con precisione ciò che avverte. L’economista di professione non sa riconoscere quella povertà che i suoi strumenti convenzionali non sono in grado di rilevare.
Il nuovo fattore di mutazione dell’impoverimento continua tuttavia a diffondersi. L’incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d’uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere una soddisfazione personale e sociale al di fuori del mercato.
Io sono povero, per esempio, una volta che per il fatto di abitare a Los Angeles o di lavorare al trentacinquesimo piano abbia perduto il valore d’uso delle mie gambe. Questa nuova povertà generatrice d’impotenza non va confusa col divario fra i consumi dei ricchi e dei poveri, sempre maggiore in un mondo in cui i bisogni fondamentali sono sempre più determinati dai prodotti industriali.
Tale divario è la forma che la povertà tradizionale assume in una società industriale, e che i termini tradizionali della lotta di classe adeguatamente mettono in luce e riducono. Distinguo altresì la povertà di tipo moderno dai prezzi gravosi imposti dalle esternalità che gli accresciuti livelli di produzione rigettano nell’ambiente. E’ chiaro che questi tipi di inquinamento, di tensione e di carichi fiscali sono ripartiti in maniera ineguale, e che in maniera altrettanto ineguale sono distribuite le difese da tali depredazioni. Ma, come i nuovi divari in fatto di accesso, anche queste iniquità dei costi sociali sono aspetti della povertà industrializzata per i quali è possibile trovare indicatori economici e verifiche oggettive. Non è così invece per l’impotenza industrializzata, che colpisce indifferentemente ricchi e poveri. Dove regna questo tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci. Fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio ma persino per il povero. A nulla servono tutte le varie forme di assistenza sociale, dalle azioni positive alla formazione professionale. La libertà di progettare e farsi a modo proprio la propria casa è soppressa, sostituita dalla fornitura burocratica di alloggi standardizzati. negli Stati Uniti come a Cuba o in Svezia. L’organizzazione dell’impiego, della manodopera qualificata, delle risorse edilizie, i regolamenti, i requisiti necessari per ottenere credito dalle banche, tutto porta a considerare l’abitazione come una merce anziché un’attività. Che poi questa merce sia fornita da un imprenditore privato o da un “apparatcik” (denominazione della burocrazia statale nel vecchio sistema sovietico – ndr), il risultato concreto è sempre lo stesso: l’impotenza del cittadino, la nostra forma, specificatamente moderna, di povertà.
Ovunque si posi l’ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica. Perdiamo di vista le nostre risorse, perdiamo il controllo sulle condizioni ambientali che le rendono utilizzabili, perdiamo il gusto di affrontare con fiducia le difficoltà esterne e le ansie interiori. Porterò l’esempio di come nascono oggi i bambini nel Messico: partorire senza assistenza professionale è divenuta una cosa impensabile per le donne i cui mariti hanno un impiego regolare e che possono perciò accedere ai servizi sociali, per marginali o inconsistenti che questi siano. Esse si muovono ormai in ambienti dove la produzione di bambini rispecchia fedelmente i modelli della produzione industriale. Tuttavia le loro sorelle che vivono nei quartieri dei poveri o nei villaggi degli isolati si sentono ancora perfettamente capaci di partorire sulle loro stuoie, senza sapere che rischiano una moderna imputazione di negligenza colposa nei confronti dei propri bambini. Man mano però che i modelli di parto promossi dai professionisti arrivano anche a queste donne indipendenti, vengono distrutti il desiderio, la capacità e le condizioni di un comportamento autonomo.
In una società industriale avanzata, la modernizzazione della povertà vuol dire che la gente non è più in grado di riconoscere l’evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che non si hanno più relazioni con gli amici e col prossimo se non si dispone di veicoli per coprire la distanza che ci separa da loro (e che è creata prima di tutto dai veicoli stessi).
Insomma veniamo a trovarci, per la maggior parte del tempo, senza contatti con il nostro mondo, senza possibilità di vedere coloro per i quali lavoriamo, senza alcuna sintonia con ciò che sentiamo.
Questo saggio è un poscritto al mio libro “La convivialità” (Mondadori, Milano, 1974; ora red edizioni, Como, 1993).
Rispecchia i cambiamenti avvenuti nel decennio trascorso, sia nella realtà economica sia nel mio modo d’intenderla. Parte dalla convinzione che si è avuto un aumento piuttosto notevole dei poteri non tecnici, cioè rituali e simbolici, dei nostri maggiori sistemi tecnologici e burocratici, con una corrispondente diminuzione della loro efficacia scientifica, tecnica e strumentale. Nel 1968 era ancora abbastanza facile liquidare ogni resistenza organizzata dei profani al dominio dei professionismo come un mero ripiegamento su fantasie romantiche, oscurantiste o snobistiche. La valutazione che io facevo allora dei sistemi tecnologici, guardando le cose dai basso e a lume di buon senso, appariva infantile o reazionaria ai leader politici dell’attivismo civico e ai professionisti radicali che accampavano il diritto alla tutela dei poveri in virtù dei loro specifici saperi.
La riorganizzazione della società industriale intorno a bisogni, problemi e soluzioni definiti da professionisti era ancora il criterio di valore comunemente accettato, implicito in sistemi ideologici, politici e giuridici che per altro verso erano in netta e talora violenta opposizione tra loro. Il quadro ora è cambiato. Oggi, simbolo di competenza tecnica avanzata e illuminata è la comunità, il quartiere, il gruppo di cittadini che, fiduciosi nelle proprie forze, si dedicano ad analizzare sistematicamente e di conseguenza a ridicolizzare i bisogni, i problemi e le soluzioni definiti sulle loro teste dagli agenti delle istituzioni professionali. Negli anni sessanta l’opposizione dei profani ai provvedimenti pubblici basati sulle opinioni degli esperti pareva ancora fanatismo antiscientifico. Oggi la fiducia dei profani nelle scelte politiche basate su tali opinioni è ridotta al minimo. Sono migliaia ormai coloro che fanno le proprie valutazioni e s’impegnano, con molti sacrifici, in un’azione civica sottratta a qualunque tutela professionale, procurandosi le informazioni scientifiche di cui hanno bisogno con sforzi personali e autonomi.
Rischiando a volte la pelle, la libertà e la rispettabilità, esprimono un nuovo e più maturo atteggiamento scientifico. Sanno, per esempio, che la qualità e la quantità delle prove tecniche bastanti per dire di no alle centrali nucleari, alla moltiplicazione delle unità di cura intensiva, all’istruzione obbligatoria, al controllo fetale a mezzo monitor, alla psicochirurgia, alle cure con elettroshock o all’ingegneria genetica sono tali che il profano può recepirle e utilizzarle. Dieci anni fa la scolarizzazione obbligatoria era ancora protetta da potenti tabù.
Oggi i suoi difensori sono quasi esclusivamente fra gli insegnanti, che ne dipendono per l’impiego, oppure tra gli ideologi marxisti che difendono i detentori di sapere professionali in una fantomatica battaglia contro la borghesia d’avanguardia.
Dieci anni fa i miti circa l’efficacia delle istituzioni sanitarie moderne erano ancora incontestati. Quasi tutti i testi di economia recepivano la convinzione che l’attesa di vita degli adulti fosse in aumento, che la cura del cancro procrastinasse la morte, che la disponibilità di medici avesse come risultato un più alto tasso di sopravvivenza infantile. Da allora a oggi, la gente ha scoperto ciò che le statistiche demografiche avevano sempre mostrato: che l’attesa di vita degli adulti non è cambiata in misura socialmente significativa nel corso delle ultime generazioni; che nella maggior parte dei paesi ricchi è oggi inferiore a quella del tempo dei nostri nonni, e persino a quella che si registra in molti paesi poveri.
Dieci anni fa era ancora un obiettivo prestigioso l’accesso universale alla scuola post-secondaria, all’istruzione per gli adulti, alla medicina preventiva, alle autostrade, a un villaggio globale imperniato sull’elettrodomestico. Oggi i grandi rituali “mitopoietici” organizzati intorno all’istruzione, ai trasporti, all’assistenza sanitaria e all’urbanizzazione sono stati in parte demistificati. Non sono stati però ancora abrogati. I costi occulti e gli accresciuti divari nei consumi sono aspetti certamente importanti della nuova povertà, ma io guardo soprattutto a un altro elemento concomitante della modernizzazione: il processo per cui non c’è pressoché nessuno che non veda erosa la propria autonomia, spenta la propria capacità di soddisfazione, appiattita la propria esperienza e frustrati i propri bisogni. Ho esaminato, per esempio, gli ostacoli che nell’intera società si oppongono alla presenza reciproca e che sono inevitabili effetti collaterali di un tipo di trasporto ad alta intensità di energia. Ho voluto definire i limiti di potenza dei veicoli a motore equamente usati per accrescere le possibilità di contatto tra le persone. Ho ovviamente constatato che le alte velocità impongono necessariamente un’impari distribuzione dei fastidi, del rumore, dell’inquinamento, nonché del godimento dei privilegi. Ma non è su questo che ho posto l’accento. Il mio discorso si accentra sulle internalità negative della modernità: l’accelerazione che fa sprecare tempo, l’assistenza sanitaria che produce malati, l’istruzione che istupidisce. La distribuzione ineguale dei benefici surrogati o l’ineguale imposizione delle loro esternalità negative non sono che corollari della mia tesi di fondo.
M’interessano in questi saggi le conseguenze dirette e specifiche della povertà modernizzata, la capacità dell’uomo di sopportarle e il modo per sfuggire alla nuova miseria. Io condivido con altre persone il desiderio profondo di maggiore giustizia. Sono assolutamente contrario all’ingiusta distribuzione di ciò che può essere genuinamente e piacevolmente condiviso. Ma in questi ultimi anni mi è parso necessario esaminare attentamente gli obiettivi di qualsiasi proposta redistributiva.
Oggi vedo il mio compito con maggiore chiarezza di quando cominciai a scrivere e parlare della mitopoiesi controproduttiva latente in ogni progetto industriale recente. Il mio scopo è stato quello di scoprire e denunciare la falsa ricchezza che è sempre ingiusta perché può avere soltanto effetti frustranti. Mediante questo tipo di analisi si può porre le basi della teoria che dovrebbe ispirare la rigenerazione sociale possibile per l’uomo del ventesimo secolo. Durante questi ultimi anni ho ritenuto necessario sottoporre a un riesame continuo la relazione tra la natura degli strumenti e il concetto di giustizia che prevale nella società che li adopera. Ho dovuto constatare come la libertà declini laddove i diritti sono formulati dagli esperti. Ho avuto modo di misurare che cosa comporta il cambio tra gli strumenti nuovi che spingono ad aumentare la produzione di merci, e quelli altrettanto moderni che permettono di generare valori col loro uso; tra il diritto a merci prodotte su scala di massa e il livello di libertà che permette un’espressione personale soddisfacente e creativa; tra l’impiego pagato e la disoccupazione utile. E in tutti gli aspetti di questa sostituzione della gestione “eteronoma all’attività” autonoma, mi accorgo quanto sia difficile recuperare un linguaggio che ci permetta di porre l’accento su quest’ultima.
Come i lettori ai quali intendo rivolgermi, sono un così convinto e impegnato sostenitore d’un accesso radicalmente equo ai beni, ai diritti e ai posti di lavoro che mi sembra quasi superfluo insistere sulla nostra battaglia per questo aspetto della giustizia. Trovo molto più importante, e più difficile, affrontare il suo complemento, la politica della convivialità. Uso questo termine nell’accezione tecnica che gli ho dato in La “convivialità”, intendendo cioè la lotta per un’equa distribuzione della libertà di generare valori d’uso, e per una strumentazione di tale libertà che sia ottenuta mettendo al primo posto assoluto la produzione di quei beni e servizi industriali e professionali che conferiscano ai meno avvantaggiati il massimo potere di generare valori nell’uso. Un indirizzo politico nuovo, conviviale, si fonda sulla convinzione che in una società moderna tanto la ricchezza quanto i posti di lavoro possono essere condivisi equamente e goduti nella libertà solo ponendo loro dei limiti mediante un processo politico. Forme eccessive di ricchezze e impieghi formali prolungati, per quanto ben distribuiti, distruggono le condizioni sociali, culturali e ambientali di un’eguale libertà produttiva. I “bit” e i “watt”, che qui vogliono dire, rispettivamente, le unità di informazione e di energia, se forniti sotto forma d’un qualunque prodotto di serie in quantità che superino una certa soglia-limite, diventano inevitabilmente ricchezza depauperante. La ricchezza o è troppo rara per poter essere spartita o distrugge la libertà e le libertà dei più deboli.
Con i miei saggi, ho cercato di dare un contributo al processo politico che deve portare i cittadini a riconoscere le soglie socialmente cruciali dell’arricchimento e a tradurle in tetti o limiti validi per l’intera società.
NOTE alla prefazione.
Nota 1: “Descolarizzare la società”, Mondadori, Milano, 1972.
“La convivialità”, Mondadori, Milano, 1974 (ora red edizioni, Como, 1993).
“Energia ed equità”, in “Per una storia dei bisogni”, Mondadori, Milano 1981.
“Nemesi medica”, Mondadori, Milano, 1977 (ora red edizioni, Como, 1991).

TEOLOGIA DEI QUATTRO ELEMENTI

                                                                      La comune accademia di comunimappe-università popolare della bolognina 

propone all’assemblea xm  un’attività di cooperazione culturale territoriale per il 18 ottobre.
AUGUSTO ILLUMINATI
Presentazione del libro La teologia dei quattro elementi  (edizione Mimesis)
Seminario – tema: “Strappare gli elementi alla teologia politica, per un  politeismo del bene comune.”
la presenza di  Augusto Illuminati sarà distribuita su  due giorni a Bologna:
1) primo giorno a Scienze Politiche
2) secondo giorno  nella sala grande  xm
programma

giovedì  17 ottobre 
orario da definire, pmeriggio sera a Scienze Politiche 
tema seminariale: singolarità e comunanza
venerdì  18 ottobre 
dalle 18 alle 20.30
sala grande xm 24
via fioravanti 24
presentazione libro e seminario
temi: liberare gli elementi e strapparli alla teologia politica e per un politeismo  del bene comune
materiale filosofico e politico di anticipazione e riflessione comune


Il politeismo del bene comune

Illuminati presentando il suo sopracitato saggio in un articolo di Alias-il Manifesto -17/11/2012- il politeismo del bene comune – così sintetizza la sua ricerca: ”abbiamo frugato elemento per elemento (d’acqua, d’aria, di fuoco e di terra) per cogliervi il dissidio profondo fra una lettura teologica che li riporta a ombre dell’unico Dio, e metafora dell’onnipotente sovrano politico, e il politeismo che vi legge potenze degli umani e della natura da Lucrezio, a Spinoza, a Goethe. “ e prosegue: “teniamo ora di definire una teologia del politeismo: una festa federale delle singolarità sociali in aggregazione ed in conflitto, non di comunità trasparenti (solo) a se stesse. Federazione di forme di vita come diceva G. Debord alla vigilia del 1968, copresenzaa simultanea di molti tempi federati. Intendendo per forma di vita una condizione definita da una struttura economica e sociale, per esempio dagli effetti debitori e occupazionali della finaziarizzazione, che produce precarietà (materiale,esistenziale e simbolica)…..”
e parecchio più in là..
ciascuna forma di vita ha un suo corredo di passioni gioiose e tristi, una diversa esperienza nel tempo, nel contrarsi del presente e correlativo perso della memoria e delle attese future, assume droghe disparate: varianti inconfrontabili con quelle tradizionali per effetto della corrosione del carattere e della precarizzazione del lavoro che ha reso irreversibili. La condizione precaria si schiaccia nella cittadinanza condizionata e ricattata del migrante, colorate dalla giovinezza, di cui le attitudini neoteniche, sono pretesto di feroce sfruttamento quanto testimonianza della flessibilità dell’animale umano nell’apprendimento prolungato. “ 
A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.


“Il lavoro vivo post-fordista la condizione ein pech (una sfiga per Marx) della precarietà e la traducibilità reciproca delle forme della vita separate
il tocco adolescenziale implica e riproduce l’indole potenziale del lavoro vivo post-fordista, il rischio positivo della dipendenza di masse operaie dal vampiresco apparato del capitale fisso.
..
Nel III millenio, come prima per il lavoratore produttivo, essere giovani è una sfiga, ein pech, come scriveva Marx. La precarietà accomuna cerchie distinte e le mantiene nella separatezza, nel terrore di confondersi e precipitare verso il peggio. La traducibilità reciproca delle forme di vita, condizione per un riscatto dal debito e dalla crisi, rimane virtuale e senza egemonia (capacità gramsciana di influenzare positivamente l’intera società ed orientarla al cambiamento).” 
A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.


La classe operaia nucleo essenziale e gli intellettuali nell’ottocento-novecento come attori dei processi di simbolizzazione (creare valori quali giustizia, libertà e cooperazione solidale) trasformazione radicale della società (rivoluzioni e conflitti capaci di generare nuovi diritti sociali e civili).
Nell’ottocento-novecento essa fu garantita dalla classe operaia delle grandi aziende minoritaria rispetto all’insieme dei lavoratori (artigiani, contadini, braccianti…), ma concentrata e disciplianata dal processo di produzione capitalista di cui costituiva il nucleo essenziale. La rinforzò l’avanguardia organizzata composta da intellettuali di origine borghese e quadri professionali di fabbrica (operai specializzati o di mestiere portatori di conoscenze specifiche ma anche alfabetizzati). Condizione non riproducibile (ora), almeno in occidente, per la frammentazione degli insediamenti industriali e della stessa tecnologia lavorativa (delocalizzazioni, esternalizzazione e lavoro autonomo eterodiretto, automazioni e riduzione della classe operaia di fabbrica s’aggiungono a quanto esposto). Non è semplice sostituirvi una qualche egemonia del precariato organizzato (e degli stessi migranti regolari e clandestini), per il solo fatto di concentrare il tratto comune del lavoro sfruttato. La società della conoscenza (e del cognitariato) si è rivelata nella crisi, una promessa inadempiuta in occidente come in Cina, per non parlare dei diplomes chomeurs (diplomati disoccupati) nel Magreb (le varie primavere arabe o turche nelle perferie mediorientali come le rivolte degli indiganti delle varie occupy nelle metropoli, tra loro interconnessi a livello globale attraverso i differenti social network ha provato forse ha manifestatarsi questa potenza sommersa e frammentata dei nuovi strati precari cognitari del lavoro vivo post-fordista). ).” 
A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.

Disidentificazione e divenire-minore come condizione di assemblaggio di traduzione reciproca
La disidentificazione che accompagna il crollo del sistema sovranità-popolo e al fordismo produttivo precipita nel punto in cui l’oggettività dell’egemonia svela la traccia della sua contingenza, riaprendo il tempo evento della poltica. Il divenire-minore è condizione di un assemblaggio per traduzione reciproca di altre condizioni minori, soprattutto quando la forma di vita che vi si candida contiene intensivamente in sé alcuni tratti epocali e concomitanti di eccedenza e precarietà. L’organizzazione delle lotte storiche (delle classi subalterne ed operaie dei ecoli trascorsi) si radica nell’autodisciplian dei produttori garantita da una filosofia teleologica (finalistica, finalizzata a..), ma in un diverso rapporto con il general intellect (l’intelletto generale o il sapere sociale come prodotto del comune agire e dell’agire in comune ). La candidatura traduttiva e promozionale della frazione più intellettuale del lavoro vivo precario non si condensa in un gruppo sociale: il cognitariato è un soggetto identitario solo nel miraggio capitalistico della società della conoscenza(come capitale umano individualizzato, messo in competizione e al lavoro, sussunto nella rete della cooperazione ‘volontaria o della servitù volontaria “ e nel processo planetario di produzione sociale capitalista).
Politeismo
Politeismo vuole dire tenere distinte e comunicanti le forme della vita, senza accettarle per defenitive, anzi facendole giocare ad un superamento delle condizioni imposte dalla crisi.” Frammenti di A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.
Prosegue:
“ abbiamo ispirato il nostro lucreziano politeismo a Venere, hominum divoque voluptas, che percuote i cuori con la sua forza vitale, v’infonde dolce amore, propagando le generazioni delle stirpi e assopendo le feroci opere della guerra. Rinneghiamo il regno totalitario del commerciante Mercurio (divinità della comunicazione e del commercio oggi inscindibili attraverso la menzogna di una certa pubblicità dominante nei media di massa) che arrichisce pochi banchieri e affama masse prostrate. Resta, ahinoi, Marte, la cui ferocia si accresce con i progressi della tecnologia e la ui presenza nell’agire umano non è agevole abrogare. Ebbe una funzione oggettiva nel portare a realizzazione gli schemi rivoluzionari virtuali dello scorso secolo, a partire dal 1871 (il popolo in armi non è semplicemente una metafora machiavelliana per indicare il legame tra sovranità e popolo in uno stato nazionale, ma una costante dell’agire politico moderno delle masse: la Comune di Parigi (1871), la rivoluzione d’ottobre (1917), le varie comuni europee dell’inzio secolo XX (la Berlino degli spartakisti, il biennio rosso italiano ecc.), la rivoluzione proletaria russa (1917), la rivoluzione sociale e libertaria spagnola (1936). Come escludere che abbia a che fare con il nostro tortuoso presente? Visto che nel segno di Mercurio non riesci a domare la crisi concordando un nuovo equilibrio geopolitico, l’appello di Marte torna a risuonare, come nell’agosto del 1914 e del 1939 (prima e seconda guerra imperialista occidentale), oppure nelle forme più decentrata della seconda metà del secolo trascorso e più di recenti disaventure mesopotamiche ed afgane (guerre globali neocoloniali e neo-imperiali). Un po’ di keynesismo militare non guasta mai per smaltire merci e poveri, mentre si affaccia la tentazazione di utilizzare la residua superiorità tecnologica Usa per ridimensionare pericolosi concorrenti sul nascere e tenere sotto controllo l’immigrazione anche una severa ammonizione a insubordinati e insorgenti cadrebbe a puntino. Se tale sciagurato scenario prevalesse, ogni iniziativa egemonica dal lato delle moltitudini subalterne ne verrebbe qulificata con tratti operativi nuovi ed esiti incerti. Da pagani novelli, interrogheremo gli oracoli, senza trascurare di erigere argini. ).”
A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.

Il politeismo politico di A. Illuminati secondo Fabio Frosini
D’altra parte la teologia in quanto tale, al di là delle sue belle declinazioni, va ripercorsa e criticata, perché essa è potenza ideologica che mobilita energie –dalle passioni alle disquisizioni metafisiche, e le mette tutte in linea, come in una batteria. Ecco allora l’ipotesi di lavoro: “in generale potremmo ipotizzare che la teologia moneteista tende a chiedere l’incompletezza dell’universale, mentre quella poleteista (una nuova mitologia) che lascia sussistere sul piano dell’immaginazione simbolica, dell’ideologia e dunque della politica, cercando un altro tipo di unificazione tra teoria e prassi”. A. Illuminati.
Una qualche unità di teoria e pratica, la teologia è sempre in grado di realizzarla: si tratta di optare spostando l’accento del (non del) teologico verso il mitologico (verso un sapere laico ed antropologico), come in una regressione temporale, e di qui al politico, che in questo modo può riscattarsi da quel ruolo di “agente sotto copertura” che sempre ricopre nel caso ell’uso governativo della religione (considerata in senso machiavellico ixstrumentum regni ). In ogni caso, il lavoro da compiere non è solo sui contenuti, ma sullo stile, la forma insomma lo statuto del discorso teologico. Non mancano del resto, esempi: il frammento di sistema “Hegel-Hoederlin, opportunamente ricordato da Illuminati, continua a metterci dinnanzi alla stessa questione: la verità si definisce non nel muto dialogo del pensatore con l’universale, ma nel nesso politico reale con l’elemento popolare. La questione dunque: scavare dentro la teologia per riscoprire il fondo popolare cioè arcaico nell’immenso patrimonio mitologico e religioso occidentale ed orientale, nell’ipotesi di lavoro che solo moltiuplicando gli universali, questi vengono realmente mondanizzati, non solo come concetto, ma nella concreta pratica collettiva. Il fatto che la cancellazione (o eclissi) storica del partito come avanguardia di classe rimette a nudo una struttura di lunga durata, la religione come quel tessuto culturale, che più estensivamente e intensivamente , collegato le masse popolari: la teologia è il sapiente, astuto discorso strategico che imprigiona e articola questo tessuto e lo costringe a rimodellamenti continui sulla base delle contrastanti esigenze del momento. Il lessico-base della teologia, in quanto si esercita sulla religione, non può che essere allora quello dei quattro elementi, cioè del modo in cui le società indo-europee hanno parlato del mondo, della realtà, e che nonostante tutto, è ancora alla base del nostro vocabolario, quando non adottiamo un approccio settoriale. Se come scriveva Schmitt, “tutti i concetti pregnati della moderna dottrinaq dello stato sono concetti teologici secolarizzati”, allora la dinamica secolare delle cangianti necessità e opportunità politiche riscrive, necessariamente, la teologia stessa. Se il concetto di secoalrizzazione è il luogo di una disputa in cui nulla è mai dato, si comprende come la teologia politica sia la grammaica storicamente più durevoe e ramificata del potere. Dell’opzione poilteista s è detto: è la scelta per l’immanenza, che immediatamente significa il doppio rifiuto della logica della sovranità e di quello della governace, cioè della “variante pastorale”. La genealogia Machiavelli, Goethe, Nietzsche,nel segno di Lucrezio e di Spinoza, è una preziosa fonte di ispirazione, ma non basta. Come essi fecero, occorre praticare l’immanenza, non solamente pensarla. Occorre anzi pensarla in un modo, che sia incompleto senza la sua pratica. Ma in che forma ciò è possibile? Illuminati ripropone a modo suo, una hoelderliniana mitologia della ragione, e la pratica avventurandosi in questa “artigianale Elementatio thelogica”. La scorreria compiuta attraverso acqua, aria, terra e fuoco non può essere qui ricostruita , se non sommi capi e nel suo significato generale. Si tratta, banalmente di riappropiarci del mondo, ma non di un supposto mondo vergine al di qua della storia, bensì proprio del mondo, come è stato pensato, detto e governato sotto il prisma di ciascuno dei quattro elementi, arricchito e riformulato continuamente, secondo un sistema aperto di rinvii reciproci che cancellano in radice l’antitesi tra natura e cultira, tra spontaneità e potere. Dentro ogni elemento, la teologia politica, per controllare le spinte dei subalterni, ha inscritto elementi reciprocamente irrideucibili,stravolgendoli ma anche in certo modo salvandoli, per cui la storia degli elementi è anche la dimostrazione dell’inesauribilità del conflitto”. 

(F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.)

Acqua
Così l’acqua è l’immagine del diritto di natura da Spinoza opposto alla chiusura del potere, è la fluctuatio animi rispetto alla ragione, ma anche il simbolo del dominio imperiale sui mari e, allo stesso tempo, della pirateria che a ciò si ribella dall’interno. E’ distribuzione democratica della vita ma anhe messa a regimee controllo di essa. F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto

Terra
La terra, come chora irriducucibile al discorso del logos, riemerge come territorio da spezzettare e da colonizzare, che però sempre i nuovo rivendica la propria unitariertà e comunitareità nei tumuliti condotti in nome di un altro diritto (di nuovo Spinoza). F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.

Aria
L’aria (accomunata all’etere) è metafora della volatilità e della modernità, e dunque allo stesso tempo, del potere diffuso e dei modi per eluderlo: dalla totalizzazione dello spazio grazie alla cibernetica, all’articolazione materiale del conflitto nelle ricadute praticeh del General Intellect (per K. Marx, sapere sociale prodotto dal lavoro vivo nel corso el tempo). F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.

Fuoco
Il fuoco, infine, allo stesso tempo è umile fiamma che riscalda, cuoce, conforta o rogo che annienta infedeli ed eretici; è simbolo manifesto dell’universale a anche, molto più banalmente, “contorno teatrale” del ctumulto come alternativa alla spettacolare fiammata rivluzionaria purificatrice. 

(F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.)

FRAMMENTATE RIFLESSIONI POETICHE E FILOSOFICHE

Materiali per progettare attività di ricerca e conoscenza, pratiche sociali per le prossime quattro stagioni della Comune Accademia
Concatenazioni indignate gioiose di apocalissi
E subito riprende
Il viaggio
Come dopo il naufragio
Un superstite
Lupo di mare
(Allegria di naufragi – Ungaretti) verso il 14 febbraio 1917, inteso nella notte tra il 13 ed il 14



1
Indignazione e passioni gioiose
Dentro l’apocalisse contemporaneo solo l’indignazione, è capace di tradurre le rabbie e le passioni tristi che il sistema coattamente riproduce in percorsi e progetti di metamorfosi gioiose , in empatiche e simpatiche relazioni umane (istituzioni costituenti aggregazioni sociali in senso humiano) perché il continuare ad attardarsi in passive attese di un di là paradisiaco (rassegnazione) , o in un al di qua di attesa di un ritorno a una perduta età dell’oro (ghetti dorati) o incattivirsi in infernali e disperate forme scettiche ciniche pulsioni autodistruttive (chiuse nella loro indifferenza, cinismo, passioni tristi rancorose) o peggio ancora chiudersi in se stessi (narcisismo o edonismo individualista) non ci porta lontano da possibili mutazioni e trasformazioni capaci di affermare vitalità comuni e singolari.
2
Macerie su macerie verso il futuro anteriore

Metamorfosi mito-poietiche generanti mutazioni che ricombinano pazientemente e  
gioiosamente macerie su macerie in forme comuni singolari.
“c’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus.  Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e la rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” 
(W. Benjamin, tesi 9 della filosofia della storia)
3
Sviluppo contro progresso

Metamorfosi come generazioni di nuove forme valoriali e simboliche, politeiste affermazione di pluralità di valori e di società, erotiche (non intese in senso banale e riduzionista sessuale) pratiche di vita per salvare le cose amate dall’apocalisse capitalista sviluppista e consumista (economica e dietetica) e dal genocidio antropologico.
Il genocidio delle lucciole
“questa riflessione giunge al culmine in articolo destinato ad apparire sul “Corriere della Sera” tre anni dopo, “il vuoto del potere in Italia” (noto come l’articolo delle lucciole”) e che sarà incluso negli scritti corsari insieme ad altri testi …
L’”articolo delle lucciole” scatena un’enorme polemica politica , perché in esso Pasolini inaugura un concetto storiograficamente errato, ma profondamente efficace dal punto di vista euristico (della ricerca o dell’ipotesi assunta come idea direttrice nella ricerca) : quella di “regime democrstiano “, dove regime, naturalmente , non va inteso in senso politologico…..rispondono a questa lettura della realtà politica italiana (in modo polemico) anche molti altri intellettuali (oltre ad Andreotti che rivedica le notevoli trasformazioni avvenute in Italia negli ultimi trent’anni), tra cui Augusto del Noce, Roberto Guiducci nonché Franco Fortini sull’”Europeo”, quasi tutti per manifestare il proprio disaccordo sull’interpretazione della storia italiana e della crisi delle classi dirigenti proposta da Pasolini.
Fin dall’inizio dell’immediato secondo dopoguerra Pasolini aveva intrapreso una dura critica nei confronti del gruppo letterario che si stava raccogliendo attorno a Elio Vittorini e Franco Fortini, giudicando il loro lavoro troppo immediatamente propagandistico sul piano politico, e quindi scarsamente autonomo rispetto alle tendenze neocapitalistiche anche sul piano linguistico: era una resa alle posizioni del neocapitalismo in poesia, una letteratura affetta da sociologismo e rispecchiamento neorealistico, dal rifiuto dell’immaginario, dall’esaltazione del nuovo e della nuova società industriale.
“nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua […] sono cominciate a scomparire le lucciole.
Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante.
Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più.
Sono un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia tale ricordo, non può non riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta.”
La scomparsa delle lucciole decreta la fine di ogni illusione; in tono leropardiano, la gioventù è sparita anche nel rispecchiamento della nuova gioventù, in ciò Pasolini coglie l’avvicinarsi della vecchia.
“quel “qualcosa “ che accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”. A far scomparire le lucciole è il regime politico.
Sono sempre la società e la politca a determinare i grandi mutamenti economici. L’economia non si spiega mai di per se stessa, non è autoreferenziale.
 “Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma addirittura storicamente incommensurabili.
La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarli i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole ad oggi.
Qui Pasolini introduce, come accennavamo prima , una categoria storiografica errata, e tuttavia interessante: la continuità tra regime fascista e regime repubblicano[…] . in realtà, questo passaggio ha creato una forte discontinuità sia a livello politico sia a livello economico, sebbene alcuni dei vecchi poteri siano rimasti intatti. Bisogna considerare che esistono diverse forme di capitalismo: la gestione dittatoriale del capitalismo da parte del fascismo, la dittatura della borghesia, ed un capitalismo o più capitlaismi gestiti attraverso la democrazia parlamentare. [..] la seconda fase “si apre dunque con la scomparsa delle lucciole: “in questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul “Politecnico” poteva ache funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese –cioè la massa operaia e contadina organizzata dal Pci sia gli intellettuali più anziani e critici, non si erano accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l’immediato futuro: né identificare quello che allora si chaimava “benessere” con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il “genocidio” di cui nel Manifesto del Partito Comunista –uno dei più acuti testi di analisi politoco-filosofica, insieme a Che cos’è il terzo stato di Sieyès (1789) e alla Costituzione degli Stati Uniti d’America (1787)-, il genocidio storicamente progressivo è quello delle culture particolari, su cui Marx ed Englels esprimono un giudizio darwinamente positivo, all’opposto di Pasolini. Per Marx, nella storia, i sistemi sociali a più alta produttività del lavoro sconfiggono sempre quelli a più bassa produttività. [..] le lucciole rappresentano un mondo di valori, di mores nel senso antropologico di miti, credenze, costumi mondi vitali. “I valori” nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più [..] a sostituirli sono i “valori” di nuovo tipo di civilità totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. […]
Come abbiamo già detto, ciò che colpisce maggiormente Pasolini rispetto all’Italia è la rapidità con cui si produce questo cambiamento: in vent’anni il paese compie un percorso storicoche altri paesi europei si era compiuto in due secoli, e dà ciò discende la sua preoccupazione che alla crescita economica non corrisponda un pari sviluppo della crescita intellettuale e culturale delle popolazioni investite dalla trasformazione.
Pasolini non esprime queste concezioni da pensatore politico o da intellettuale politico, ma da letterato prestato alla polemica politica e civile. Il più alto esempio di tale posizione è dato da un intervento che Pasolini pronuncia nel 1974 alla Festa dell’Unità di Milano, e che sarà pubblicato negli Scritti Corsari con il titolo –scelto dallo stesso Pasolini – “il genocidio”. A riportarlo è “Rinascita”, la principale rivista teorica di sinstra, , che affronta diversi argomenti di ordine culturale e di critica letteraria, e che ha molto seguito anche al di fuori dell’ambiente di sinsitra.
Pasolini riassume qui molti dei temi a lui cari, che segnano tutta la sua riflessione poetica. Si tratta forse del vero testamento spirituale del poeta. Egli prende la parola dopo un intervento sulla situazione sociale del paese pronunciato dal principale rappresentante del riformismo comunista, Giorgio Napolitano, che era stato seguace di Giorgio Amendola ma che l’aveva poi abbandonato quando quest’ultimo si era trovato in gravi difficoltà all’interno del Pci. Napolitano esprime un giudizio fondantalmente positivo sulla trasformazione in corso in Italia, basando il suo discorso sul cambiamento economico-sociale, sull’aumento dell’occupazione operaia, sull’ampliamento delle classi medie, sulla modernizzazione del paese, anche attraverso la comparazione con gli altri paesi europei. L’Italia, proprio in quelli anni, entr anel novero dei paesi industriali e comincia ad essere invitata ai consessi internazionali che prima la vedevano esclusa (scambio di opinioni e ruolo dell’Italia nel Mediterraneo). […]. Negli stessi anni Pasolini scrive il suo ultimo romanzo, Petrolio (pubblicato nel 1975), incompiuto e difficile, rimasto ancora allo stadio di riflessione, e che rivela un nuovo elemento della sua poetica: una grande rivoluzione linguistica. Pasolini non si cura più della bella forma; al contrario, inizia a scomporre il testo. Petrolio è un romanzo meno tradizionale rispetto ai precedenti, e si avvicina molto allo stile che in quelli stessi anni porta al massimo livello un altro interprete critico della modernizzazione, il quale proietta però il suo lavoro all’interno della fabbrica: Paolo Volponi, autore di il Memoriale (1962) e le mosche del capitale (1989).
L’intervento di Pasolini alla Festa dell’Unità di Milano va collocato nel contesto di uno scambio di opinioni. Se solitamente chi parla in pubblico cerca di adeguare il suo discorso agli interventi precedenti, Pasolini se ne distacca invece totalmente.
“dirò subito, e l’avete già intuito, che la mia tesi è molto pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quella di Napolitano. Essa ha come tema conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non è del resto una affermazione totalmente eretica o etrodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisioni estreme il genocidio a opera della borghesia nei riguardi di determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari, o certe popolazioni coloniali. “
“oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così fuori dalla storia – la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese – hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità della vita della borghesia. Pasolini si riferisce qui alle subculture escluse dalla storia scritta. E’ un elemento che, pur non cristallizzandosi mai nel suo pensiero, lo collega al punto più alto della riflessione intellettuale contemporanea, per esempio allo studio della storia orale. [..] alcune conoscenze continuano ancora oggi a essere trasmesse solo dall’oralità: si pensi per esempio alle pratiche lavorative dei contadini e allo stesso lavoro di fabbrica. Il famoso libro di Elias Canetti, La lingua salvata (1977), fa riferimento alle culture della Mittleuropa, molte delle quali non sono state tramandate proprio per mancanza di testimonianza scritta. il dominio della storia borghese, legato all’industrializzazione e guidato dal consumismo, realizza in Italia la grande differenza storica: l’industrializzazione ha coinciso direttamente con l’emergere della società del consumo, ed è per questa ragione che nel nostro paese l’incidenza del consumo privato è molto elevata. La ricchezza non è vissuta come bene pubblico, ma come consumo individuale: l’orientamento all’azione, le pulsioni politiche, si relazionano perfettamente all’aumento dei consumi privati. Pasolini è il primo a mettere a fuoco questa distinzione e la sua intuizione sarà raccolta da un grande economista, Augusto Graziani che in un’antologia di scritti sulla storia economica d’Italia chiarisce bene questo passaggio. Pasolini analizza il modo in cui avviene il genocidio, ossia l’assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia. “io sostengo che oggi ess avviene clantestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta”.

I testi del genocidio delle lucciole sono stati tratti da “Modernizzazione senza sviluppo –il capitalismo secondo Pasolini, di Giulio Sapelli ed. B. Mondadori-2005
4
Darei l’intera Montedison per una lucciola

Pier Paolo Pasolini lo andava ripetendo profeticamente da anni che in Italia si è assistito in modo impotente e spesso complice da parte del sistema dei partiti dominanti (centro-destra-sinistra) ad uno sviluppo senza progresso; e per progresso sott’intendeva innanzitutto: culturale, sociale, etico, ecologico;
P. Paolo Pasolini inoltre andava ripetendo da anni che il consumismo era da considerare non semplicemente una nuova ideologia borghese del neo-capitalismo consumista emergente nel dopoguerra ma come nuova forma nascente di totalitarismo capace di cancellare forme radicate da secoli di cultura popolare (anche tradizionale), cancellazioni che non erano riusciti a provocare neppure le SS naziste occupanti i territori in complicità con il fascismo della Repubblica di Salò.
E poi P.P. Pasolini era molto chiaro nei suoi desideri che espresse in questa affermazione non romantica ma ecologista radicale: darei la Montedison (industria petrolchimica) per una lucciola.
“ad ogni modo, quanto a me (se ciò a qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola.”
5
Verso la metamorfosi

“nihil est toto, quod perstet, in orbe. Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago: niente al mondo permane uguale a se stesso, tutto fluisce in un perpetuo mutare di forme. Sono le parole del sapiente Pitagora che nel XV libro delle Metamorfosi spiega l’intima natura del mondo. Dalle origini del cosmo al tempo della sua contemporaneità. Ovidio racchiude in grandioso progetto, tutto il patrimonio mitico e culturale dell’antichità greco-romana. In una complessa struttura che conduce dal mito alla storia. Tratto da Laura Correale – alias – il Manifesto 28 luglio 2013.
6
Metamorfosi canto e poesia

La nostra vita attiva e i nostri saperi comuni debbono percorrere una vera e propria metamorfosi con la poesia, poesia non intesa in senso puramente letterario ma mitopoietico cioè con quella capacità della ragione antica di lanciare un ponte sull’inconoscibile divenire attraverso il mito; la poesia ha avuto in molti casi la funzione di anticipare uno sguardo sul futuro, ma anche la capacità erotica (con la sua vitalità avvalendosi dell’Eros) di trarre il vivente – e le cose amate – ; noi abbiamo bisogno un’altra volta di allearsi con Eros (l’amore) per salvare le cose amate-per noi il vivente (in forma naturale e culturale) e di strapparle allo stato apocalittico in cui versano (oggi la distruzione veste forme nuove, si può chiamarla paradossalmente “distruzione creativa”, forme di distruzione introdotte dalla modernità e velocizzate dal modo di produzione capitalistica e dal consumismo.
7
Il canto e la poesia di Orfeo

Il ruolo della poesia è ben documentato nel mito del divino Orfeo che attraverso il canto trae l’amata Euridice dal mondo degli inferi e la conduce al mondo dei viventi. Del resto oggi gli umani di tutte le aree metropolitane –come ieri Euridice, sono permanentemente rapiti ed incantati dalle sirene della pubblicità e del consumismo, e gettati in uno stato di addiction o dipendenza che si può definire schiavitù volontaria).
Orfeo è da considerarsi l’inventore della poesia e del canto, ma non fu un canto ed un poesia qualsiasi. Quel canto ebbe la capacità di persuasione irresistibile verso gli dei che avevano rapito e tenevano in ostaggio negli inferi, Euridice, la donna amata da Orfeo; noi dobbiamo ripensare al canto e alla poesia in forme nuove capaci di persuadere a rilasciare e ridare autonomia ed indipendenza alle masse amate incatenate da TV e Social network; canto, poesia, filosofie capace di far ritrovare attenzione , capacità critiche, inventive ed altri mondi possibili oltre l’esistente mondo degli incatenati e dipendenti dalle merci e dai suoi valori di scambio.
8
Antico come resistenza al moderno

Se la modernità per riprendere Benjamin attraverso lo sguardo di Baudelaire è “distruzione creativa”; questa “distruzione creativa” ha assunto toni paradossali ed accelerazioni distruttive nella nostra tarda modernità con i suoi automatismi conumistici dettati dalla legge valore e delle apparenze imposte dalla pubblicità; pubblicità che induce inconsapevoli coazione a ripetere e a sfondare limiti, e sopravvivere nelle proiezioni esterne, con i suoi guinness dei primati di estremità (sesso estremo, sport estremo, cibo estremo, ginnastiche estreme ecc.); allora se c’è qualcosa che resiste nel tempo alla modernità non è la tradizione la quale tenda all’opposto alla conservazione a bloccare le mutazioni o le metamorfosi , ma piuttosto l’antico – che spinge a riflettere e agire nei limiti naturali e culturali classici (limiti che non sono freni in senso moralistico e religoso ma piuttosto possibilità concrete e reali del nostro divenire anche mortale di vivere fino in fondo le nostre chances. E quindi per quanto riguarda l’agire materiale creare forme e produzioni che rispondano a necessità e bisogni e non ha proiezioni di pil (prodotto interno lordo) a pif (prodotto interno di felicità):
9
Metamorfosi, mito-poiesi, elementi materiali e simbolici

Dipartimenti , laboratori e mappe
Come gruppo iniziatore, quando la “libera comune università pluriversità bolognina- comunimappe” muoveva i primi passi, abbiamo ipotizzato di suddividere ed aggregare le variegate attività didattiche, di ricerca e pratiche in dipartimenti e a sua volta questi di articolarli in laboratori, quali realizzazione e concretizzazione dei progetti di ricerca-azione; ricerca ed azione due aspetti inscindibili- , l’una capace di ritrovare mappe affettive, percettive e concettuali l’altra capace di trasformare radicalmente i territori attraversati.
Dipartimenti che non rimanessero dei territori chiusi l’uno verso l’altro, ma dipartimenti aperti che fossero espressione oltre che della loro specificità ricercata ed agita anche della complessità (intesa come consapevoli legami che le parti intrattengono con il tutto, quell’invisibile insieme interconnesso che è il vivente con i suoi artefatti).
Fin dall’inzio abbiamo assunto l’attuale apocalisse dei mondi viventi (materiali e simbolici) come punto di partenza per invertirvi la tendenza; l’attuale apocalisse non è generata né da fenomeni naturali entropici né qualche cataclisma che ci ha sorpreso nelle sue imprevedibili manifestazioni (caduta di asteroidi) , ma da una precisa strategia (o automatismi economico-fianziari) del capitale produttivo e finaziario di sussunzione del vivente (umano e non umano) nella sua perversa logica di valorizzazione mortifera di denaro-merce-capitale e nella logica inerte di produzione-consumo devastazione di beni comuni naturali e culturali.
Per ridare considerazione e valore a ciò che il tardo capitalismo e il consumismo come sua ideologia distruggono nella forma da un lato creativa dall’altra tossica (generando forme  di alienazione e dipendenza).
Abbiamo pensato di nominare i nostri costituenti dipartimenti attribuendo ad ognuno di loro un elemento, elementi che nel loro insieme sono alla base dell’immaginario filosofico e culturale orientale ed occidentale quali sono acqua, aria, fuoco e terra. Elementi base della materia e del simbolico che hanno contribuito a generare il mondo reale ed immaginario da noi abitato. Elementi che manifestano nella loro specifica potenza e nelle loro possibili ricombinazioni modi di reinventare e ricreare le variegate forme della vita (come manifestazione del vivente).
Politeismo o polimorfismo del vivente
Una forma di politeismo o polimorfismo del divenire singolare e comune dentro un ricreato orizzonte ecologico e antropologico (consapevolezza del nostro essere in relazione col vivente e con le sue forme simboliche e materiali permanentemente rigenerate).
10
liberare gli elementi e strapparli alla teologia

“il politeismo è la forma che meglio ricalca e asseconda una realtà pensata e vissuta come tumulto pluriverso e sovradeterminato, serie di intrecci irriducibili ad una direzione, ad un progresso, ad una destinazione: i molti contro la riduzione ad uno.” Fabio Frosini -liberare gli elementi e strapparli alla teologia- Alias 17/11/2012 .
F. Frosini fa queste affermazioni nell’ambito della presentazione del saggio Teologia dei quattro elementi : manifesto per un politeismo politico, ed Mimesis-2012, del filosofo Augusto Illuminati.
Il politeismo del bene comune
A.   Illuminati presentando il suo sopracitato saggio in un articolo di Alias-il Manifesto -17/11/2012- il politeismo del bene comune – così sintetizza la sua ricerca: ”abbiamo frugato elemento per elemento (d’acqua, d’aria, di fuoco e di terra) per cogliervi il dissidio profondo fra una lettura teologica che li riporta a ombre dell’unico Dio, e metafora dell’onnipotente sovrano politico, e il politeismo che vi legge potenze degli umani e della natura da Lucrezio, a Spinoza, a Goethe. “
e prosegue: “teniamo ora di definire una teologia del politeismo: una festa federale delle singolarità sociali in aggregazione ed in conflitto, non di comunità trasparenti (solo) a se stesse. Federazione di forme di vita come diceva G. Debord alla vigilia del 1968, copresenzaa simultanea di molti tempi federati. Intendendo per forma di vita una condizione definita da una struttura economica e sociale, per esempio dagli effetti debitori e occupazionali della finaziarizzazione, che produce precarietà (materiale,esistenziale e simbolica)…..”
e parecchio più in là..
“ciascuna forma di vita ha un suo corredo di passioni gioiose e tristi, una diversa esperienza nel tempo, nel contrarsi del presente e correlativo perso della memoria e delle attese future, assume droghe disparate: varianti inconfrontabili con quelle tradizionali per effetto della corrosione del carattere e della precarizzazione del lavoro che ha reso irreversibili. La condizione precaria si schiaccia nella cittadinanza condizionata e ricattata del migrante, colorate dalla giovinezza, di cui le attitudini neoteniche, sono pretesto di feroce sfruttamento quanto testimonianza della flessibilità dell’animale umano nell’apprendimento prolungato. “ da A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.
11
Il lavoro vivo post-fordista la condizione in pech (una sfiga per Marx) della precarietà e la traducibilità reciproca delle forme della vita separate

“il tocco adolescenziale implica e riproduce l’indole potenziale del lavoro vivo post-fordista, il rischio positivo della dipendenza di masse operaie dal vampiresco apparato del capitale fisso.
…..
Nel III millennio, come prima per il lavoratore produttivo, essere giovani è una sfiga, ein pech, come scriveva Marx. La precarietà accomuna cerchie distinte e le mantiene nella separatezza, nel terrore di confondersi e precipitare verso il peggio. La traducibilità reciproca delle forme di vita, condizione per un riscatto dal debito e dalla crisi, rimane virtuale e senza egemonia (capacità gramsciana di influenzare positivamente l’intera società ed orientarla al cambiamento).”  A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.
La classe operaia nucleo essenziale e gli intellettuali nell’ottocento-novecento come attori dei processi di simbolizzazione (creare valori quali giustizia, libertà e cooperazione solidale) trasformazione radicale della società (rivoluzioni e conflitti capaci di generare nuovi diritti sociali e civili).
“Nell’ottocento-novecento essa fu garantita dalla classe operaia delle grandi aziende minoritaria rispetto all’insieme dei lavoratori (artigiani, contadini, braccianti…), ma concentrata e disciplinata dal processo di produzione capitalista di cui costituiva il nucleo essenziale. La rinforzò l’avanguardia organizzata composta da intellettuali di origine borghese e quadri professionali di fabbrica (operai specializzati o di mestiere portatori di conoscenze specifiche ma anche alfabetizzati). Condizione non riproducibile (ora), almeno in occidente, per la frammentazione degli insediamenti industriali e della stessa tecnologia lavorativa (delocalizzazioni, esternalizzazione e lavoro autonomo eterodiretto, automazioni e riduzione della classe operaia di fabbrica s’aggiungono a quanto esposto). Non è semplice sostituirvi una qualche egemonia del precariato organizzato (e degli stessi migranti regolari e clandestini), per il solo fatto di concentrare il tratto comune del lavoro sfruttato. La società della conoscenza (e del cognitariato) si è rivelata nella crisi, una promessa inadempiuta in occidente come in Cina, per non parlare dei diplomes chomeurs (diplomati disoccupati) nel Magreb (le varie primavere arabe o turche nelle periferie mediorientali come le rivolte degli indignanti delle varie occupy nelle metropoli, tra loro interconnessi a livello globale attraverso i differenti social network ha provato forse ha manifestatasi questa potenza sommersa e frammentata dei nuovi strati precari cognitari del lavoro vivo post-fordista). ).” 
Frammenti di  A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.

Disidentificazione e divenire-minore come condizione di assemblaggio di traduzione reciproca
“La disidentificazione che accompagna il crollo del sistema sovranità-popolo e al fordismo produttivo precipita nel punto in cui l’oggettività dell’egemonia svela la traccia della sua contingenza, riaprendo il tempo evento della politica. Il divenire-minore è condizione di un assemblaggio per traduzione reciproca di altre condizioni minori, soprattutto quando la forma di vita che vi si candida contiene intensivamente in sé alcuni tratti epocali e concomitanti di eccedenza e precarietà. L’organizzazione delle lotte storiche (delle classi subalterne ed operaie dei secoli trascorsi) si radica nell’autodisciplian dei produttori garantita da una filosofia teleologica (finalistica, finalizzata a..), ma in un diverso rapporto con il general intellect (l’intelletto generale o il sapere sociale come prodotto del comune agire e dell’agire in comune ). La candidatura traduttiva e promozionale della frazione più intellettuale del lavoro vivo precario non si condensa in un gruppo sociale: il cognitariato è un soggetto identitario solo nel miraggio capitalistico della società della conoscenza(come capitale umano individualizzato, messo in competizione e al lavoro,  sussunto nella rete della cooperazione ‘volontaria o della servitù volontaria “ e nel processo planetario di produzione sociale capitalista).
12
Politeismo

“Politeismo vuole dire tenere distinte e comunicanti le forme della vita, senza accettarle per defenitive, anzi facendole giocare ad un superamento delle condizioni imposte dalla crisi.” Frammenti di  A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.
Prosegue:
“ abbiamo ispirato il nostro lucreziano politeismo a Venere, hominum divoque voluptas, che percuote i cuori con la sua forza vitale, v’infonde dolce amore, propagando le generazioni delle stirpi e assopendo le feroci opere della guerra. Rinneghiamo il regno totalitario del commerciante Mercurio (divinità della comunicazione e del commercio oggi inscindibili attraverso la menzogna di una certa pubblicità dominante nei media di massa) che arricchisce pochi banchieri e affama masse prostrate. Resta, ahinoi, Marte, la cui ferocia si accresce con i progressi della tecnologia e la ui presenza nell’agire umano non è agevole abrogare. Ebbe una funzione oggettiva nel portare a realizzazione gli schemi rivoluzionari virtuali dello scorso secolo, a partire dal 1871 (il popolo in armi non è semplicemente una metafora machiavelliana per indicare il legame tra sovranità e popolo in uno stato nazionale, ma una costante dell’agire politico moderno delle masse: la Comune di Parigi (1871), la rivoluzione d’ottobre (1917), le varie comuni europee dell’inizio secolo XX (la Berlino degli spartakisti, il biennio rosso italiano ecc.), la rivoluzione proletaria russa (1917), la rivoluzione sociale e libertaria spagnola (1936). Come escludere che abbia a che fare con il nostro tortuoso presente? Visto che nel segno di Mercurio non riesci a domare la crisi concordando un nuovo equilibrio geopolitico, l’appello di Marte torna a risuonare, come nell’agosto del 1914 e del 1939 (prima e seconda guerra imperialista occidentale), oppure nelle forme più decentrata della seconda metà del secolo trascorso e più di recenti disavventure mesopotamiche ed afgane (guerre globali neo-coloniali e neo-imperiali). Un po’ di keynesismo militare non guasta mai per smaltire merci e poveri, mentre si affaccia la tentazione di utilizzare la residua superiorità tecnologica Usa per ridimensionare pericolosi concorrenti sul nascere e tenere sotto controllo l’immigrazione anche una severa ammonizione a insubordinati e insorgenti cadrebbe a puntino. Se tale sciagurato scenario prevalesse, ogni iniziativa egemonica dal lato delle moltitudini subalterne ne verrebbe qualificata con tratti operativi nuovi ed esiti incerti. Da pagani novelli, interrogheremo gli oracoli, senza trascurare di erigere argini. ).” Frammenti di  A.Illuminati-il politeismo del bene comune, alias-il Manifesto-22-11-2012.
Il politeismo politico di A. Illuminati secondo Fabio Frosini
“D’altra parte la teologia in quanto tale, al di là delle sue belle declinazioni, va ripercorsa e criticata, perché essa è potenza ideologica che mobilita energie –dalle passioni alle disquisizioni metafisiche, e le mette tutte in linea, come in una batteria. Ecco allora l’ipotesi di lavoro: “in generale potremmo ipotizzare che la teologia monoteista tende a chiedere l’incompletezza dell’universale, mentre quella politeista (una nuova mitologia) che lascia sussistere sul piano dell’immaginazione simbolica, dell’ideologia e dunque della politica, cercando un altro tipo di unificazione tra teoria e prassi”. (A. Illuminati).

“Una qualche unità di teoria e pratica, la teologia è sempre in grado di realizzarla: si tratta di optare spostando l’accento del (non del) teologico verso il mitologico (verso un sapere laico ed antropologico), come in una regressione temporale, e di qui al politico, che in questo modo può riscattarsi da quel ruolo di “agente sotto copertura” che sempre ricopre nel caso dell’uso governativo della religione (considerata in senso machiavellico ixstrumentum regni ). In ogni caso, il lavoro da compiere non è solo sui contenuti, ma sullo stile, la forma insomma lo statuto del discorso teologico. Non mancano del resto, esempi: il frammento di sistema “Hegel-Hoederlin, opportunamente ricordato da Illuminati, continua a metterci dinnanzi alla stessa questione: la verità si definisce non nel muto dialogo del pensatore con l’universale, ma nel nesso politico reale con l’elemento popolare. La questione dunque: scavare dentro la teologia per riscoprire il fondo popolare cioè arcaico nell’immenso patrimonio mitologico e religioso occidentale ed orientale, nell’ipotesi di lavoro che solo moltiplicando gli universali, questi vengono realmente mondanizzati, non solo come concetto, ma nella concreta pratica collettiva. Il fatto che la cancellazione (o eclissi) storica del partito come avanguardia di classe rimette a nudo una struttura di lunga durata, la religione come quel tessuto culturale, che più estensivamente e intensivamente , collegato le masse popolari: la teologia è il sapiente, astuto discorso strategico che imprigiona e articola questo tessuto e lo costringe a rimodellamenti continui sulla base delle contrastanti esigenze del momento. Il lessico-base della teologia, in quanto si esercita sulla religione, non può che essere allora quello dei quattro elementi, cioè del modo in cui le società indo-europee hanno parlato del mondo, della realtà, e che nonostante tutto, è ancora alla base del nostro vocabolario, quando non adottiamo un approccio settoriale. Se come scriveva Schmitt, “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati”, allora la dinamica secolare delle cangianti necessità e opportunità politiche riscrive, necessariamente, la teologia stessa. Se il concetto di secolarizzazione è il luogo di una disputa in cui nulla è mai dato, si comprende come la teologia politica sia la grammatica storicamente più durevole e ramificata del potere.
Dell’opzione politeista s’è detto: è la scelta per l’immanenza, che immediatamente significa il doppio rifiuto della logica della sovranità e di quello della governance, cioè della “variante pastorale”. La genealogia Machiavelli, Goethe, Nietzsche,nel segno di Lucrezio e di Spinoza, è una preziosa fonte di ispirazione, ma non basta. Come essi fecero, occorre praticare l’immanenza, non solamente pensarla. Occorre anzi pensarla in un modo, che sia incompleto senza la sua pratica. Ma in che forma ciò è possibile? Illuminati ripropone a modo suo, una hoelderliniana mitologia della ragione, e la pratica avventurandosi in questa “artigianale Elementatio thelogica”. La scorreria compiuta attraverso acqua, aria, terra e fuoco non può essere qui ricostruita , se non sommi capi e nel suo significato generale. Si tratta, banalmente di riappropriarci del mondo, ma non di un supposto mondo vergine al di qua della storia, bensì proprio del mondo, come è stato pensato, detto e governato sotto i
13
I quattro elementi



Lungo i quattro elementi, ciò che emerge è la necessità di un’organizzazione “egemonica” di tutto ciò che si presenta come irriducibile alle categorie giuridiche sovrane”, per farlo passare dalla resistenza diffusa ad una qualche forma di progetto. La politica è “egemonica quando associa interesse e passione in una narrazione”. Ecco il punto: gli elementi vanno narrati, per conferire loro un ordine alternativo a quello giuridico-teologico, immanente alle pratiche di resistenza. Un ordine che essi di per sé non hanno e che può essere detto solo inventandolo. E qui ci scontriamo con una difficoltà, perché la trascendenza di quella invenzione si sovrappone all’immanenza di quelle pratiche. Del resto, in mancanza di intellettuali organici [Gramsi parla del partito come intellettuale organico (immerso in quella materialità comune sociale) alla classe operaia e alle classi subalterne) ], questa difficoltà riproduce esattamente la situazione. F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.
l prisma di ciascuno dei quattro elementi, arricchito e riformulato continuamente, secondo un sistema aperto di rinvii reciproci che cancellano in radice l’antitesi tra natura e cultura, tra spontaneità e potere. Dentro ogni elemento, la teologia politica, per controllare le spinte dei subalterni, ha inscritto elementi reciprocamente irriducibili, stravolgendoli ma anche in certo modo salvandoli, per cui la storia degli elementi è anche la dimostrazione dell’inesauribilità del conflitto”.
 F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.
Specifici elementi materiali e simbolici

Acqua
 “Così l’acqua è l’immagine del diritto di natura da Spinoza opposto alla chiusura del potere, è la fluctuatio animi rispetto alla ragione, ma anche il simbolo del dominio imperiale sui mari e, allo stesso tempo, della pirateria che a ciò si ribella dall’interno.
 E’ distribuzione democratica della vita ma anhe messa a regimee controllo di essa.F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto
Terra
La terra, come chora irriducucibile al discorso del logos, riemerge come territorio da spezzettare e da colonizzare, che però sempre i nuovo rivendica la propria unitariertà e comunitareità nei tumuliti condotti in nome di un altro diritto (di nuovo Spinoza). F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.
Aria
L’aria (accomunata all’etere) è metafora della volatilità e della modernità, e dunque allo stesso tempo, del potere diffuso e dei modi per eluderlo: dalla totalizzazione dello spazio grazie alla cibernetica, all’articolazione materiale del conflitto nelle ricadute praticeh del General Intellect (per K. Marx, sapere sociale prodotto dal lavoro vivo nel corso el tempo). F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.
Fuoco
Il fuoco, infine, allo stesso tempo è umile fiamma che riscalda, cuoce, conforta o rogo che annienta infedeli ed eretici; è simbolo manifesto dell’universale a anche, molto più banalmente, “contorno teatrale” del ctumulto come alternativa alla spettacolare fiammata rivluzionaria purificatrice. F.Frosini: liberare gli elementi e strapparli alla teologia, alias il manifesto.

Testo elaborato da Pino de March – Versitudine on line (versitudine.net) per la comune accademia di comunimappe.

SE LA TERRA PARLASSE

Se la terra parlasse chissà cosa direbbe. Verosimilmente nulla di piacevole per noi. Troppi conti in sospeso per sperare di farla franca. Se la terra parlasse come prima cosa farebbe una grande sfuriata, ci metterebbe dentro qualche accidente e darebbe sfogo alle tante questioni che si trascinano da millenni: come la pratica degli incendi per aprire aree coltivabili o i disboscamenti selvaggi. Entrambe modalità da rapaci utilizzatori che non poco hanno contribuito a cambiare il clima lungo i millenni. E poi avrebbe da ridire per le guerre, quelle che lasciavano sul terreno migliaia di cadaveri dopo cruenti corpo a corpo e quelle che del terreno facevano e fanno frantumi con bombe sempre più potenti. Alzerebbe la voce parlando dell’ultimo secolo e delle risorse incamerate nel sottosuolo che oramai sono state quasi tutte trasferite nell’atmosfera dopo un veloce passaggio dentro i cilindri di un motore. Farebbe forse notare l’assurdo di un ritorno indietro nel tempo che con veloce progressione stiamo raggiungendo, un tempo precedente alla presenza di forme evolute di vita nella terra, quando i gas serra oscuravano il cielo.

Se la terra parlasse forse prima di parlare emetterebbe un lungo sospiro, simile al vento caldo che arriva dall’Africa, lasciandoci così tutti attoniti per la grande potenza dimostrata. Scrollerebbe il capo e forse rimarrebbe senza parole, perché a parlare siamo tutti buoni quando abbiamo la pancia piena. Farebbe forse notare la faccenda degli sprechi e la fame che ancora morde tante popolazioni; poi si ritirerebbe in campagna, a coltivare un pezzettino d’orto. Proprio come sempre più spesso si ritorna a fare anche nelle città. Darebbe dimostrazioni magistrali sui modi per ricavare le zucchine e i pomodori senza impoverire il terreno. Ci spiegherebbe le azioni biologiche e le possibilità di coltivazioni.

Il Dipartimento della terra, in collaborazione con il nascituro dipartimento dell’aria organizza:


il 14 giugno pomeriggio – sera negli orti di via Erbosa.
SE LA TERRA PARLASSE
Programma:

H. 16 Nicola Laruccia – pedologo* – Performance di parole e musica “Se la terra parlasse”.

H. 17 Thé alla menta – offerto da ComuniMappe

H. 17.30 Carlo Bordini – poeta, costruttore di parole per richiamare il legame tra Natura e Cultura. (Prima realizzazione del Dipartimento dell’aria)

H. 18.30 Antonio Varano – presidente orti via Erbosa. Presentazione dei progetti in corso in collaborazione col Dipartimento della Terra.

H. 19 Giulio Marianacci – agronomo e ricercatore, terrà la seconda lezione su “la gestione degli orti urbani” ( la rima lezione si è svolta il 25 maggio).

H 20 Cena Cus cus con verdure e ceci e, solo a richiesta, brodo di manzo. (E’ gradita la prenotazione su comunimappe@gmail.com) 


H 21 Film – Madre Terra – Documentario di Ermanno Olmi. 
(pedologìa s. f. [comp. di pedo-2 e –logia]. – La scienza del suolo e, più precisamente, del terreno agrario (detta anche geologia agraria), che indaga la formazione, la struttura fisica, la composizione chimica, il contenuto in sostanze umiche, le proprietà fisico-chimiche dei diversi terreni, etc. – dizionario Treccani)



—————————————

Approfondimenti:

Il  costituente  Dipartimento dell’Aria si concretizza nella ritrovata

relazione materiale di poesia, canto, filosofia e letterature minori

(delle forme ricreate del mutante vivente  o della spiritualità

laica).

Tempo fa in un’intervista radiofonica -mi pare radio Tre Cultura- a Stephen Jay Gould, noto paleontologo docente di zoologia e geologia di Harward, veniva posto la seguente domanda: “lei, come ricercatore e studioso  autorevole di evoluzioni biologiche della terra e dei suoi innumerevoli esseri viventi, potrebbe indicarci la percentuale attendibile di natura e di cultura di cui è composta la nostra specie Homo Sapiens?” Stephen J. Gould per nulla imbarazzato anzi divertito della domanda rispose in modo perentorio: “L’homo sapiens o noi umani siamo composti dell’indifferenziato 100% di natura e 100% di cultura.”


………………………………………..

Cattive notizie

“L’umanità è una specie connessa al resto della natura vivente per
orgine e per destino, nella salute e nella malattia. Gli esseri
viventi sono collegati fra loro, scrive David Quammen nel suo
splendido studio, anche dal legame naturale delle infezioni, cioè
delle interferenze di una specie nell’altra all’interno degli edifici
biofisici dell’ecosistema.  Gli agenti delle infezioni sono
microscopici (batteri, funghi, amebe) e ultramicroscopici (i virus).
La storia è stata influenzata da epidemie di peste, colera, vaiolo,
tbc, influenza, come quella del 1917-1919 con 50 milioni di vittime… le
malattie non virali sono controllate con medicine e misure igeniche.
L’assedio preoccupante è posto oggi dai virus. Sorti contemporanemente
ai primi esseri viventi i virus, sostengono molti biologi,
contenegono un archivio che sta circolando da miliardi di anni, con
effetti sorprendenti. La coevoluzione ha portato, ad esempio, ad un
mescolamento genetico in seguito al quale il nostro genoma è
costituito pe l’8% di materiale virale. C’è chi motteggia che i virus
nel corpo umano si trovano a casa. Le nostre difese sono poco efficaci. Il
libro di David Quammen è il resoconto di strategie virali e delle
recenti epidemie in uomini ed animali. Per il biologo Peter Medawar,
premio nobel per la medicina nel 1960, “i virus sono frammenti di
cattive notizie avvolti in una proteina.”  ..
Quali “cattive notizie”, per usare le parole di Peter Medawar,
dobbiamo aspettarci?
I microbiologi paventano un next big one, cioè una pandemia virale,
probabilmente di tipo influenzale, con un massacro di proporzioni
inaudite. Che cosa la farà scoppiare? Quando la crescita di una specie
acquista dimensioni innaturali, essa si arresta lentamente o per
crollo improvviso. Una volta superati i sei miliardi di persone,
ammonì tempo fa il biologo Edward  O.Wilson ci si avvicina
all’incompatibilità con l’ambiente. Da allora la popolazione è
cresciuta di un miliardo e continua a crescere di 70 milioni di
persone l’anno.  La massa umana supera di oltre 100 volte il volume di
qualunque altra specie vivente e vissuta. Essa è estesa e continua a
dilagare in tutti gli angoli della terra, sconvolgendo ecosistemi
remoti e antichi di millenni, costruendo strade, estirpando e
asfaltando boschi e foreste, usando a profusione concimi
tossici, inquinando laghi, mari, fiumi e torrenti; trivellando in terra
ed in mare. Una delle conseguenze della devastazione ambientale è
l’attivazione di batteri e virus fino ad ora silenti. Le dimensioni e
la velocità della crescita umana depongono a favore dell’arresto per
schianto. Come avverrà? Molti epidemiolghi ritengono che i dati
convergano a favore dell’ipotesi del next big one, cioè la riduzione
derastica della popolazione, sarà provocata da una pandemia
influenzale di virus-Rna, facilitata anche dalla rapidità dei
collegamenti fra regioni lontanissime. I virus potrebbero essere nuovi
per mutazione oppure essere vissuti in altri animali e attaccare per
zoonosi l’uomo per la prima volta,  trovandolo privo di difesa in un
ambiente divenuto sfavorevole per eccessi di abitanti. Anche se
quersta previsione non dovesse pienamente avverarsi, per miliardi di
esseri umani la vita potrebbe diventare un inferno.
Da David Quammen Spillover – Animal infections and the next human
pandemic – Norton & Co, New York – London, pagg.586.
Alla fine un virus-Rna ci seppellirà (da sole 24 ore di Arnaldo
Bennini -9/06/2013)



Memoria paleontologa

(tratto da Quarto rospo freudiano di S.J. Gould)

Ho avuto spesso occasione di citare un’acuta, quasi rammaricata
osservazione di Freud, riguardo al fatto che tutte le maggiori
rivoluzioni nella storia della scienza, fra molte diversità, hanno un
motivo comune: aver spodestato via via, un pilastro dopo l’altro,
l’arroganza umana dalle sue cosmiche certezze.
Freud riporta tre di questi casi presentandole come le tre
prinicipali ferite narcisiste di quell’essere arrogante e presuntuoso
che è “l’uomo delle certezze assolute”;
una volta credeva di vivere al centro dell’universo limitato, finché
Copernico, Galileo e Newton non gli hanno rivelato che la terra è un
minuscolo satellite di una stella di secondaria importanza.
(Solo Pascal, il poeta ed il filosofo,  si misurerà per tutta la vita
con questa ferita producendo delle acute riflessioni sullo spaesamento
e sulla perdita di senso dopo questa  perturbante scoperta).
Dopo di che questo presuntuoso ed arrogante essere umano tra i viventi
si è consolato immaginandosi che Dio, in realtà, avesse scelto questa
collocazione periferica per creare l’unico organismo a Sua immagine,
finché non è arrivato Darwin che “ci ha relegato a discendenti di un
mondo animale.”

Abbiamo quindi – di cui anche noi in parte – cercato sollievo nelle nostre
menti razionali finché,  come Freud nota in una delle affermazioni
meno modeste della storia delle idee, la psicologia  ha scoperto
l’inconscio (cioè ha rovesciato quel secolare paradigma cartesiano
– cogito ergo sum – penso quindi sono – con  un altro, se vogliamo, per
parafrasare il primo – sentio ergo sum);
l’osservazione di Freud è acuta, ma trascura molte altre importanti
rivoluzioni iconoclaste (non voglio criticarlo: ha soltanto  cercato
di spiegare un processo, non ha preteso di fornire un elenco
esauriente);  in particolare omette il contributo fondamentale dato
dai miei campi di studi, geologia e paleontologia: il contraltare
temporale alle scoperte di Copernico sullo spazio.
Intesa letteralmente, la storia biblica era veramente confortante:
una terra di pochi migliaia di anni su cui l’uomo (maschio), tranne
che per i primi cinque giorni, è l’essere dominante. La storia della terra
era un tutt’uno con la storia dell’uomo (maschio) e quindi perché non
pensare di essere fine e causa dell’universo?
Ma i paleontologi hanno poi scoperto il deep time (tempo profondo),
per citare la felice locuzione Mc Phee. La terra ha miliardi di anni e
la sua età va tanto indietro nel tempo quanto l’universo visibile si
estende nello spazio. Il tempo da solo,  non solleva minacce
freudiane.
Se la storia umana fosse durata per tutti questi miliardi di anni.
La nostra arroganza, in virtù della più lunga egemonia sul pianeta,
sarebbe aumentata.
La  rivoluzione iconoclasta freudiana è avvenuta quando i paleontologi
hanno rivelato che l’esistenza umana occupa soltanto l’ultimo
“micro-momento” dell’età del pianeta: un centimetro cosmico, un minuto
o due dell’anno cosmico.
Questa estrema riduzione dell’epoca dell’uomo ha posto un’ovvia
minaccia alla nostra presunzione, specialmente in rapporto alla
seconda rivoluzione freudiana, quella darwiniana. Tale limitazione ha
una banale conseguenza, e in genere le affermazioni banali sono
corrette (anche se molte delle rivoluzioni intellettuali più
affascinanti celebrano la sconfitta di interpretazioni apparentemente
ovvie);
se noi non siamo altro che un minuscolo ramoscello del rigoglioso
albero della vita e se il nostro ramoscello ha gemmato soltanto un
momento geologico fa, allora forse non siamo il prevedibile risultato
di un processo intrinsecamente progressivo (la decantata tendenza al
progresso della storia della vita); forse, nonostante le nostre glorie
e nostri talenti, siamo un effimero accidente cosmico che non si
verificherebbe di nuovo neppure se si piantasse l’albero della vita
dallo stesso seme e lo si facesse crescere nelle stesse condizioni.
In occasione del centenario, nel 1959, della nascita di Darwin, il
grande genetista H. J. Muller ha smorzato i festeggiamenti con una
relazione intitolata Cent’anni senza Darwin sono abbastanza?
Muller ha affrontato il fallimento della rivoluzione darwiniana da due
fronti opposti: da una parte, il creazionismo che continua a
persistere largamente nella cultura popolare americana e dall’altra la
limitata comprensione della selezione naturale tra le persone istruite
che pure sono convinte della veridicità dell’evoluzione.
 Sono certo però che il maggiore impedimento al completamento della
rivoluzione darwiniana sia qualcosa di più grave, che non riguarda gli
atteggiamenti opposti.
Freud aveva ragione nell’identificare la soppressione dell’arroganza
umana come risultato comune alle grandi rivoluzioni scientifiche.
In termini freudiani, la rivoluzione non sarà completata finché Gallup
non potrà trovare che una manciata di detrattori o finché la maggior
parte degli americani non sapranno dare una definizione di selezione
naturale.
La rivoluzione darwiniana non sarà completata fino a quando non
distruggeremo il monumento dell’arroganza e non acquisiremo piena
coscienza delle semplici implicazioni dell’evoluzione, la non
prevedibilità e l’assenza di direzionalità nella vita (progresso), e
quando prederemo sul serio la topologia darwiniana, riconoscendo che
l’Homo Sapiens, per recitare la litania un’altra volta, è un sottile
ramoscello, nato ieri, nell’albero che, se piantato di nuovo, non
produrrebbe le stesse ramificazioni a partire dal seme. Noi ci
aggrappiamo al fuscello del progresso perché  esso rappresenta per noi
la migliore possibilità di conservare l’arroganza in un mondo
evoluzionistico. Solo in questi termini riesco a capire perché un
argomento così improbabile e debole mantenga su di noi un ascendente
tanto potente.
Tratto da – Gli alberi non crescono fino al cielo – paragrafo: “Come
ingoiare il quarto rospo freudiano.”


IL PASSATO CHE RITORNA COME FARSA

Stefano Rodotà è stato l’estensore del referendum sull’acqua. Senza la necessità di fare troppi passaggi logici si può dire che 26 milioni di italiani hanno approvato l’enunciato da lui elaborato per esprimere un’opinione di rilevante valore politico. Meglio di così per dare inizio ad un’esperienza democratica partecipata non si poteva avere. Da presidente della Repubblica, senza aspettarsi svolte rivoluzionarie, avrebbe probabilmente dato vita ad una nuova stagione democratica sensibile a istanze decisionali dirette. (Anche lo statuto della nostra associazione si ispira a suggestioni giuridiche di tutela dei beni comuni stilate da Rodotà per il teatro valle occupato.) Oggi, con la riconferma di Napolitano, questa schiarita istituzionale apparsa per un attimo lascia spazio ad una tetra e grigia nuvolosità diffusa.  

Tanti sono i modi di intendere la democrazia; che non è, sia chiaro, un bene in sé. La democrazia semmai, parafrasando le parole di Simon Weil, può essere un veicolo verso il bene comune, a certe condizioni. Vi sono democrazie che fanno cose immonde (vedi in Palestina), che non per questo diventano accettabili. La democrazia che avrebbe fatto seguito ad una presidenza Rodotà sarebbe indubbiamente stata in grado di stimolare un riavvicinamento dei movimenti, delle opinioni sociali più rappresentative, alla vita politica. Quello che succederà da domani in Italia avrà poco di condiviso con una vastissima opinione pubblica. Ipocritamente si tornerà a parlare di “riavvicinare la gente alla politica”, magari mobilitando i pifferai magici che si spacciano per giornalisti o con provvedimenti di facciata. 

La memoria di quanto successo in questi giorni, destinata a cancellarsi col tempo (questo sperano gli asserragliati nel palazzo – ed ancora saranno chiamati i pifferai a provvedere), bisognerà tenerla viva e farne ricorso per non dimenticare la plastica immagine del terrore transitato nel volto di tutti quei figuri, dirigenti partitici, che si sono per un attimo visti perduti se fosse collassato il pd. Tutto il sistema dei patiti li avrebbe seguiti a ruota, evidenziando dunque che il sistema si regge vicendevolmente: senza il pd non avrebbe retto il pdl, così senza il pdl non esisterebbe il pd (di conseguenza anche monti e lega sarebbero finiti nel tritacarne). Bruciando anche Prodi il pd ha gettato la mascherina: una parte dei deputati (i famosi cento) non potevano accettare nemmeno la figura dell’anti-berlusconi in salsa moderata, figuriamoci Rodotà. Il pd è un partito di ingegneri disegnatori di strategie, travestiti da riformatori, posizionati nelle retroguardie e incaricati di entrare in azione ogni qual volta il sistema va in crisi. Per loro l’ambientalismo, la dignità di chi fatica a campare, la democrazia diretta, i beni comuni, sono opzioni da usare al massimo quando serve (per i grillini Bersani pensava ad un mix di belle intenzioni, magari da buttare sul tappeto e poi lasciarle sciogliere come neve al sole). Anche le primarie le hanno considerate un momento fine a se stesso: mica dopo si prevedeva il persistere di un legame tra elettori ed eletti. Anche lo slogan “Italia bene comune” non era altro che uno schizzo propagandistico, volutamente confuso, di nazionalismo e comunitarismo. 

Ieri, 20 aprile, mentre ri-eleggevano Napolitano, un violento acquazzone con tuoni e fulmini si è abbattuto su Bologna. L’aria adesso si sta schiarendo, i contorni della realtà si definiscono meglio di prima. I grilli canteranno monotoni, rimuginando sugli errori (enormi) commessi.
Le scuole popolari hanno tanto lavoro dinanzi per costruire sapere critico e una nuova schiera di intellettualità diffusa. 

Comune Accademia – Osservatorio sulla democrazia diretta e di base.

UNIVERSIDAD DE LA TIERRA

A Oaxaca, la capitale dello Stato più meridionale del Messico, Gustavo Esteva e Sergio Beltrán hanno fondato un’università piuttosto bizzarra. 
Nella Universidad de la Tierra non ci sono insegnanti né esami, non ci sono programmi da rispettare né libri definiti da leggere. I ragazzi non rivendicano il diritto di studio ma esercitano la libertà di studiare. 
A Unitierra la conoscenza e la vita di ogni giorno non sono due mondi separati e si prova ad andare oltre l’educazione e il suo rito di iniziazione alla società dello sviluppo. Il sapere ha più valore se non viene certificato ma è una libera relazione con il mondo e con gli altri. La costruzione dell’autonomia è un cammino da percorrere. Per questo Unitierra non è un progetto con un piano prestabilito e degli obiettivi ma un processo di liberazione. 

per approfondire il discorso sarà a Bologna il 10 aprile Gustavo Esteva
Xm24, Via Fioravanti 24 
Antistasis. L’Insurrezione in corso

Presentazione del libro omonimo con l’autore, Gustavo Esteva
Crisi sociale e alternative dal basso: difesa del territorio, beni comuni, convivialità. La degenerazione autoritaria del capitalismo, di cui gli Stati-nazione stanno diventando meri esecutori, rimane inalterata dai sempre più vuoti esiti della democrazia elettorale. Dall’America Latina all’Europa, dal movimento No-Tav alle comunità autonome Zapatiste in Messico, la difesa e riscoperta dei commons, gli ambiti di comunità, come spazi di resistenza e insurrezione, anticipa le alternative e le forme possibili della società in divenire.

– Dalle 19.30 – Aperitivo e cena vegetariana.
– 20.30 – Presentazione e incontro
– 22.30 Concerto Benefit : AlphaSud – Musiche popolari di tradizione orale – Giacomo Bertocchi, Clarinetto 
– Giusi Lumare, Percussioni – Michele Murgioni, Basso Tuba – Salvatore Panu, Fisarmonica – Carmine 

Scianguetta, Flauto.

Il ricavato della serata andrà in sostegno alle attività della Universidad de la Tierra de Oaxaca, Mexico. 
(Organizzano: Rete Ivan Illich, Associazione InterCulture)

——————-

Gustavo Esteva, 76 anni, è attivista sociale e “intellettuale deprofessionalizzato” messicano, cofondatore 

dell’Università della Terra di Oaxaca, diffusore del pensiero di Ivan Illich, consulente dell’EZLN nella stesura 

degli Accordi di San Andrés, partecipante nel 2006 nell’assemblea popolare dei popoli di Oaxaca – APPO. 

E’ autore di vari libri e innumerevoli articoli, attento osservatore delle articolazioni assunte dal capitalismo 
contemporaneo in America Latina e nel mondo, interprete della molteplicità di risposte che dal basso, dai 

movimenti sociali, dal mondo indigeno-campesino e dai marginali urbani, oppongono resistenza e costruiscono 

alternative sociali alle relazioni di potere imposte dal mercato e dallo Stato. 

L’Universidad de la Tierra di Oaxaca da 12 anni è uno spazio di apprendimento libero e di produzione 

autonoma di saperi, radicata nei movimenti sociali, nel fermento delle comunità indigene e nei barrios della 

città di Oaxaca. E’ gratuita, non richiede alcun titolo di studio per potervici accedere, non ha insegnanti. Al 

suo interno si impara collettivamente il cammino per la costruzione di alternative politiche e sociali, sia 

attraverso attività pratiche – dalla comunicazione autonoma delle Radio Comunitarie allo sviluppo di tecnologie 

appropriate (bici-macchine, forni solari, bagni secchi) – sia attraverso la riflessione su politica, istituzioni e 

movimenti sociali, in circoli e seminari.


Esteva sarà a Venezia il 4 aprile, a Torino il 5, in Val di Susa il 6 e 7 matt., di nuovo a Torino il 7 sera, a Milano l’8, a 
Padova il 9, a Bologna il 10, a Lucca 11, a Firenze il 12, a Roma il 13 e il 14. 


(programma completo: QUI)

Per approfondimenti:

INTERVISTA A GUSTAVO ESTEVA

Articolo su Università della terra 

SULLA DEMOCRAZIA DIRETTA








Più che un’indicazione di governo con il voto gli italiani hanno espresso la volontà di autogovernarsi. Come se il potere pubblico sia stato tolto a chi lo possedeva (i partiti) per consegnarlo al controllo diretto e a coloro che di questo controllo si sono fatti portavoce.

Nella nuova realtà creatasi dopo il voto in Italia sembra ci siano le condizioni per sperimentare una qualche forma di democrazia diretta. Mai come questa volta tante persone comuni sono state elette in parlamento, nonostante una legge elettorale dove è totale il controllo dei partiti sui candidati, anzi forse proprio in risposta ad essa, sia il pd (non per vocazione ma per marketing) che 5 Stelle hanno promosso la selezione dei candidati a partire dai territori.

Come ulteriore evoluzione, la rete potrebbe permettere la realizzazione di un canale per quel rapporto, quella corrispondenza, tra società e nuovi eletti nelle camere.  Già adesso è possibile facilmente entrare in contatto con loro tramite i profili pubblici.

Si tratta dunque di mettere in essere una intellettualità organica, sociale, popolare, che dialoghi con quei nuovi parlamentari che il 15 marzo si insedieranno. Oggi non è molto difficile fare leva su alcuni argomenti che limitino, per quanto possibile, la dipendenza dei parlamentari dai propri partiti di riferimento. Non si tratta di fare richieste o pressioni, ma chiedere loro il rispetto anzitutto del vincolo di lavorare per il bene e l’interesse generale. Certo sono parole generiche, ma chiare. Come chiare sono alcune parole della Costituzione. Come quelle che dicono: «Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.» (titolo IV, art. 50). Sempre della Costituzione non va dimenticato l’articolo 71 : «L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli». L’identificazione dell’interesse generale potrebbe avvenire regolando al meglio lo strumento referendario per poi utilizzarlo per temi come l’ambiente, la scuola, alcuni beni fondamentali che chiamiamo comuni etc.

Se le elezioni sono generalmente un gioco che dura poco, perché sostanzialmente si chiede di mettere una croce e poi tornarsene a casa, oggi ci sono le condizioni perché questo non avvenga, perché la parte attiva della società apra e mantenga viva la corrispondenza con i parlamentari. Quelli che vogliono starci, almeno. 

Ma serve un linguaggio chiaro e un sistema informativo libero, che non veda attori predominanti che attuano un sistematico inquinamento informativo. Serve una regolamentazione del flusso comunicativo tra i due estremi: gli eletti e gli elettori. Sia i parlamentari che la società attiva devono comunicare in maniera efficace, sta in questo punto preciso la possibilità che si accenda la funzionalità della democrazia diretta.

Deputati e senatori disposti a lavorare con questo spirito, attuando un comportamento pubblico e inter-diretto con la società, non sarebbero lasciati soli, isolati e dunque raggiungibili dalle sirene dei corruttori. La parte di parlamento pulita renderebbe più visibile quella parte lercia e portatrice di interessi di parte, di privilegi oramai insopportabili.

In regime di democrazia diretta bisogna limitarsi a provvedimenti strutturali, demandando l’ordinaria amministrazione al Governo. Governo che giustamente non può non avere la fiducia, ma che può anche non avere la pretesa di essere il protagonista unico della ristrutturazione dello Stato e dell’indirizzo economico generale. D’altra parte si dice “potere esecutivo”, cioè esecutore di provvedimenti che altri hanno costituito (il parlamento).

Lasciamo correre per un attimo la fantasia: come lo immaginate voi il dialogo costante tra chi “dentro” vota i provvedimenti e le leggi mentre “fuori” una vasta platea di associazioni, blog, appelli correlati da firme e quant’altro, modulano un vasto dibattito sociale?

Democrazia rappresentativa significa comunicazione di massa unidirezionale, dal vertice alla base, come ci insegna tutta  la storia del Novecento. Mentre democrazia diretta significa comunicazione orizzontale e finalizzata non a convincere ma a permettere di decidere. 

La democrazia diretta è certamente di difficile attuazione, per riuscire deve tener presente le elaborazioni che arrivano dai movimenti sociali, dai forum di discussione dove i temi vengono affrontati con il dialogo più che attraverso votazioni a maggioranza. Le tecnologie possono facilitare ma anche ostacolare un progetto di democrazia diretta, i quanto non sempre la regola “una testa un voto” è il migliore dei sistemi possibili:  chi organizza al meglio l’esposizione di un argomento, anche se può non essere la soluzione migliore, può avere il maggior consenso. Dunque l’abitudine a documentarsi dovrebbe diventare la norma principale.

Serve uno sforzo collettivo, con anche risorse organizzative prelevate dalle istituzioni rinnovate. Servono giornali, radio, organizzazioni sociali che lavorino per convocare assemblee pubbliche nel territorio e per creare inchieste da riversare poi su una piattaforma pubblica e progettata per rispondere alla richiesta di facilitare la partecipazione. Lo stesso sito di camera e senato potrebbe, sulla scorta dell’esperienza di radio parlamento, essere la sede dove si depurano, si sintetizzano nel rispetto delle differenze, i temi da trattare e da indirizzare ai parlamenti corredati dagli orientamenti emersi dal basso.

… ma tutto quanto detto fin qui è pura utopia. Naturalmente non interessa a nessuno attuare un simile progetto. Nemmeno a chi, a parole, lo sventola come una bandiera.
Non interessa a Grillo, alle prese con manovre per non farsi schiacciare dal variegato mondo che lui stesso ha messo insieme. Non interessa al pd, da sempre dedito a cucire una sua tela fatta di banche, apparati, consorzi, società per azioni camuffate da cooperative.

Quelle espresse sopra sono fantasie di intellettuali visionari che si immaginano mondi perfettibili (anche il nostro sito lo fa). Infatti questo articolo in buona parte è frutto di un “taglia e cuci” ottenuto prendendo in considerazione diversi articoli di autorevoli personalità del mondo della cultura.

Paolo Bosco