Simposio semestrale 2022-23Ecologie poetiche e della mente:Paesaggi e territà, nuovi sguardi, nuove narrazioni e nuove soggettività terrestri
Seconda conversazione Dietro il paesaggio (1951) con il poeta Andrea Zanzotto:Progresso scorsoio, luoghi dei traumi e psyché ferite tra guerre eco-ansie ed eco-cidi
Relazionano e conversano: Pino de March -docente-ricercatore ed accordatore di Comunimappe -libera comune università-pluriversità bolognina e Giuseppe Raddi – storico dell’arte e co-ricercatore
“….bisogna fermare lo scempio che vede ogni area verde rimasta come area da edificare. Una volta esistevano i campi di sterminio, oggi siamo allo sterminio dei campi”. Così si pronunciava il poeta A.Zanzotto,in un’intervista apparsa nel 2007, pochi anni prima della sua scomparsa.
immagine Terra desolata e Cielo atono: isolati,disseccati, mutili, alberi ed edifici di William Rothenstein:Francia de Nord,Fronte occidentale 1917-18
“Per me il paesaggio è prima di tutto trovarmi davanti a una grande offerta e un immenso donativo che corrisponde proprio all’ampiezza dell’orizzonte, nonostante venga continuamente ferito, ci raccoglie sempre allora bisogna sempre amarlo. Ricostruire le ragioni (e le passione) di un eros che è rivolto proprio alla terra come tale. “(A.Zanzotto)
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“Tutti i vivi ci somigliano/Tutti i vivi che noi amiamo.
(Paul Eluard interpretato da F.Fortini)
Accade qui che non ci si ami più
se non da cyborg o da lupi solitari da tastiera tutti/e afflitti da una molteplici pestilenze
Stamattina la prima neve di quest’anno mi riporta al silenzio dell’infinito, alle morti stagioni, alle passate e alla sera,
“quando dal cielo nevoso riversi sul mondo tenebre minacciose e lunghe, e sempre scendi [da me invocata], ed occupi dolcemente le vie nascoste del mio animo“,
rifletto non tanto sull’acquietarsi al giungere della sera dell’animo inquieto del Foscolo e del mio o della potenza dell’immaginazione nel superare ostacoli o barriere del Leopardi che faccio mia,
bensì di altri vissuti e frammenti
di analisi psico-analitiche –sociali sulla comparsadi una strana peste che Wilhelm Reich codificherà come emozionale in un un Europa reattiva di passioni tristi, arrabbiata, scontenta e nazi-fascista a caccia di colpevoli, peste che avevamo già conosciuta nei secoli passati e ripresentasi in ripetute ondate, in forme e nomi diversi: la caccia alle streghe e agli eretici, il pogrom contro ebrei e “zingari” o romanì,
di poesie surrealisti d‘amore, guerra e Resistenzae coprifuochi e confinamenti nella Francia della metà del secolo scorso,
ingenerati da un’occupazione umiliante e soffocante ogni espressività da parte delle truppe nazifasciste e “non resta che combattere a chi attenta alla vita degli altri, a chi s’oppone alla loro felicità“, ma anche d’amore e di liberazione, di cui ci narra Jean du Haut (pseudonimo scelto da Paul Eluard per sfuggire ad un mandato d’arresto della polizia segreta collaborazionista-petanista dopo che le forze dell’aviazione alleata britannica avevano inondato i cieli e le città di Francia con volantini che riproducevano in migliaia di copie un suo poema in versi di una poeticità e vitalità sorprendente “libertè, j’ecris ton nom”, libertà, io scrivo il tuo nome”.
Sui quaderni di scuola
Sulla mia scrivania e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Scrivo il tuo nome
Su tutta la carne concessa
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano tesa
Scrivo il tuo nome
Sui miei rifugi distrutti
Sui i miei fari crollati
Sui muri della mia noia
Scrivo il tuo nome
Sull’assenza del desiderio
Sulla nuda solitudine
Sui passi della morte
scrivo il tuo nome
Sul ritorno della salute
Sul rischio scomparso
Sulla speranza senza memoria
Scrivo il tuo nome
E per il potere di una parola
ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.
Chiaramente cosa diversa e di dimensioni esistenziali incomparabili con quello di cui soffriamo,oggi, nel nostro in-quieto, a volte noioso quotidiano sopra-vivere, con un rischio però incalcolabile di incrociare un asintomatico agente di viralità in codice “Rna-Covid 19” attraverso sconosciuti, amici o parenti, il quale si è introdotto subdolamente nel nostro piccolo mondo bio-politico, tecnico ed economico, facendosi scoprire improvvisamente tutta la nostra fragilità;
s’avvale di un classico espediente cavallo di Troia o di moderno bio-trojan, che circola attraverso goccioline di saliva infetta di proteine virali,
sfuggita a dire dei complottisti da un improbabile laboratorio cinese di virologia di Wuhan ove si sperimentano vacini con patogeni pericolosi, ma più probabilmente invece da come ci documentano scienziati di vari discipline (zoolog*, epidemiolog*, climatolog*, virolog* ecc.) “si sia generato per ricombinazione tra due coronavirus di pipistrello ed un di pangolino all’interno dello stesso ospite. E’ probabilmente un ibrido naturale, i cui pezzi di virus si sono fusi con i pezzi di un altro. La ricerca è stata pubblica da Science Advances “(WIRED, 4/06/20 di Mara Magistroni).
Per contaminazione da carni di pipistrello o da medicine tradizionali cinesi tratte dalle squame del pangolino (formichieri squamosi), animali selvatici stressati ,che nel loro stato di cattività rilasciano grandi quantità saliva infettante;
animali catturati e tratti da buie caverne o foreste native, e poi venduti alla luce del sole in un Wet market della stessa città;
animali che possiedono in corpo enormi serbatoi di virus, a cui sono immuni ma portatori sani, virus trasferirtisi a noi, con un terribile salto mortale di specie, e propagatisi sulle rapidissime reti aeree di interconnessione transnazionali in ogni parte di mondo(mondo trans-moderno che si presenta con rilevanti contrazione di spazio e tempo);
a questo dobbiamo aggiungervi la nostra hybris o complicità arrogante antispecista ed una visione ristretta antropocentrica di mondo, che ha comportato nel corso della storia moderna (1492 ad oggi):
invadenze coloniali di ogni spazio sulla terra, appropriazione di spazi per-destinati ad altre specie o a altre popolazioni native in ogni angolo del pianeta, e danni collaterali quali:la riduzioni e la scomparsa a partire dalla metà del secolo scorso, di immense aree protette di foreste, brughiere e paesaggi di biodiversità, in particolare nell’emisfero australe dalle foreste amazzoniche a quelle australiane, oggetto di dolosi incendi per lasciare spazio ad allevamenti intensivi, provocando all’inizio di questo tragico anno 2020,un’immensa ecocidio o olocausto con sacrificio milioni di specie viventi piante, animali e popolazioni native sorpresi dalle fiamme.
La nostra pandemia “per salto di specie” è stata preannunciata nel romanzo “Spill Over” dal divulgatore scientifico David Quammen, nella quale vi documenta i suoi molteplici viaggi al seguito di cacciatori di virus nelle grotte della Malesia sulle cui pareti vivono migliaia di pipistrelli selvatici o nel folto delle foreste pluviali del Congo alla ricerca di rarissimi ed inoffensivi gorilla, pagine che ci inquietano per la scoperta di strani patogeni che i Sapiens mai hanno incrociato nella loro esistenza e dei quali per questo non possiedono immunità;
salti di specie o di zoonosi già avvenuti da una specie animale all’uomo tra il Neolitico e l’età del Bronzo a causa della concentrazione di uomini e animali in conglomerati promiscui, come le più recenti epidemie scoppiate in allevamenti intensivi e prevalentemente circoscritte nelle aree del sud del mondo quali: l’aviaria,la Sars, l’influenza suina, la Mers, l’Ebola ad esclusione dell’Hiv, della Mucca pazza, del Covid e dell’influenza H1N1 che sono divenute pandemiche coinvolgendo l’intero pianeta.
La Covid-19 dalle ultime inchieste-ricerche pare veicolata attraverso i wet market – mercati ove si macellano dal vivo animali selvatici, ritenuti carni rare e pregiate(pipistrello) o con supposte proprietà taumaturgiche o afrodisiache(pangolino), giunta in Europa, ed in particolare in Baviera attraverso un presunto viaggiatore europeo asintomatico, uno dei molteplici mercanti che intrattengono relazioni commerciale oppure di un tecnico o di un manager di imprese multinazionali che operano in Cina, riportata e diffusasi in Lombardia ed in altre Regioni d’Europa.
Un mercato parallelo quello degli animali selvatici a quello delle carni allevate, di cui possiamo ritrovare ancora in alcune nicchie di mercato delle nostre città europee: per esempio quello delle lumache, delle rane,dei cervi,delle lepri e perfino degli degli orsi.
E’ accertato ormai che queste zoonosi siano all’origine dell’attuale pandemia e di altre dormienti in altre specie selvatiche o imprigionate nei ghiacciai non più perenni.
L’informato lettore di saggi o di romanzi non riuscirà più a dormire se non dopo aver letto questo inquietante romanzo “Spill Over” come è capitato anche a me.
Recenti pubblicazioni scientifiche ci rivelano che 142 sono i virus di origine animale passati agli umani a seguito di distruzioni sistematiche di eco-sistemi, e nell’attuale era capital-antropo-cenica ci s’avvia a scoperchiare nuovi vasi di Pandora.
La differenza con le precedenti guerre, epidemie emotive e confinamenti del secolo scorso, consiste nel fatto che questo virus ci costringe alla distanza, all’isolamento più che ad una ricercata solitudine, e per un certo verso approfondisce una a-socialità già affermata con le ideologie e pratiche neo-iberiste già presenti dalle fine secolo scorso, quando nel 1987 quando Margaret Thatcher pronunciò queste parole: “la società non esiste, parole di cui siamo ancora ipnotizzati sia da liberisti di destra che di sinistra, che hanno determinato una radicale mutazione antropologica dell’homo Sapiens in Homo Oeconomicus , per il filosofo Emil Cioran “avviato un piano di occultamento e di cancellazione delle vite considerate non degne e che non trovano spazio neanche ai margini”. E chi volesse vivere come ha fatto lui, girovagando in bicicletta per tredici anni per tutta la Francia nel secolo scorso, riuscendo a vivere di quest’arte d’arrangiarsi, oggi a suo dire “ne sarebbe spacciato”, da “Ultimatum all’esistenza. Conversazioni ed interviste 1949-1994” con Emil Cioran.
(citato da Stefania Tarantino, Emil Cioran, il manifesto 3/12/20)
Da questa catastrofe esistenziale e sanitaria è emerso anche un senso etico seppur a macchia di leopardo, un sentimento comune di protezione verso gli altri o i propri familiari dall’infezione epidemica”, una riscoperta del “noi” dopo tanto individualismo e ricerca esasperata di un profilo sempre insoddisfatto di personalità narcisista, e del riemergere di un’eticità residuale ed empatia sottostante che può aiutarci a ricostruire quel senso del Comune e dell’amore per l’altro/a attraverso una riscoperta cooperazione o mutualismo economico-sociale, un’urgente prendersi cura di sé e dei mondi di vita comune con un approccio transpecista (tra umani, animali e piante tutt* assoggettat* e piegati a logiche utilitaristiche) ed intersezionale (tra nature,culture, società e generi, tutt* oppress* da etero-normatività maschiliste,o visioni sociali classiste, mono culturali e speciste).
L’auto-isolamento pandemico ci costringe ad una strana vita egoica e robinsoniana quella tanto ironizzata da Marx,come robinsonate.
“L’individuo isolato è stato fatto passare dagli storici della civiltà come una forma di ritorno all’uomo di natura,in contrasto agli eccessi dell’uomo civilizzato, al punti che si è voluto vedere nel “contratto sociale” di Rousseau un patto ” tra soggetti per natura indipendenti. Il che secondo Marx non ha senso. Tali robinsonate serviranno piuttosto, per anticipare, legittimandola, la “società civile”, quella che tutela la proprietà”; e prosegue:”Smith e Riccardo hanno avuto tutto l’interesse a presentare l’uomo borghese come un Robinson che esce dallo stato di natura, rozzo e primitivo,per diventare finalmente un uomo libero, autonomo e soprattutto “sociale”. Per Marx l’uomo l’individuo isolato non era affatto un “uomo di natura”ma il prototipo d’individuo di cui la classe borghese aveva bisogno per affermarsi. Il contratto tra individui liberi per Marx è illusorio della libertà dei due contraenti, in particolare quello privo di proprietà. Per gli economisti borghesi l’individuo isolato è “il punto di partenza della storia”, per Marx è invece il risultato storico “quello del crollo del feudalesimo e della nascita sulle sue ceneri del capitalismo” (e completo:con le sue asimmetrie sociali,naturali, di genere e culturali) .
Riflessioni tratte da Marx: Grundisse, lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58).
Sindemie e non pandemie
Solo con l’arrivo di qualche “Venerdì” sociale, soggettività tecniche proletarizzate ed operanti nelle nostre isole di sopravvivenza e di cura, trasfigurate e mascherate da “eroi” sanitari o della protezione civile, o del volontariato sociale, che Robinson nella sua ormai nuda vita e confinata in numerose terapia intensive o sub intensive può trovare un ultimo sguardo e tocco d’umanità. o di altri “Venerdì” solidali vicini di casa, di strada o organizzazioni non governative (caritas, emergency,medici senza frontiera ed altro) che riattivano momenti di riscoperta umanità che storicizza in nostro essere umani e sociali(Trump e Berlusconi pur se infettati sono “risorti o salvati” in pochi giorni, non per natura o immunità clemente ma per denaro e proprietà differente,evidenziando che trattasi più di una diseguale sindemia che uguale pandemia).
sindemias. f. L’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata. (da enciclopedia Treccani)
L’attualità della peste emozionale che s’aggiunge alle sindemie
“La Haine est un ivrogne au fond d’une taverne, Qui sent toujours la soif naître de la liqueur Et se multiplier comme l’hydre de Lerne.
Mais les buveurs heureux connaissent leur vainqueur, Et la Haine est vouée à ce sort lamentable De ne pouvoir jamais s’endormir sous la table.
L’Odio è un ubriaco in fondo a una taverna, / che sente sempre la sete rinascere dal bere / e moltiplicarsi come l’idra di Lerna. // Ma i bevitori felici sanno chi è il loro vincitore, / e l’Odio è condannato a questa sorte lamentevole: / di non potersi mai addormentare sotto la tavola.)“ (Versi tratti dalla poesia “Le Tonneau de la Haine”- “Barili d’Odio” ,in cui le Danaidi o le donne dannate sono protagoniste, inclusa in “Fleurs du mal” di Baudelaire)
Questa pandemia Covid-19 va a rafforzarne delle altre di sconosciute come ci documenta lo psico-analista – sociale Wilhem Reich, cioè le antiche forme di peste emozionali quali:l’indifferenza, la paura, i feroci odi contro chi non è simile, e esaspera la ricerca di capri espiatori, archetipi o simbolici già sedimentati nell’immaginario europeo, peste emozionale fattasi pandemica in molte altre parti del mondo (Brasile, India, America del nord).
Questa epidemia o peste emozionale parallela ad altre viene ben rilevata dai media (e social) anche in questi giorni senza coglierne la portata e l’infettività, e che s’insinua con una martellante e ripetitiva propaganda, ed ora s’avvale anche di flash mob in piccoli gruppi davanti alle prefetture d’Italia, ed urlata in Parlamento a favore del mantenimento delle leggi “razziali” salviniane e di sicurezza (Meloni-Salvini);
il “mostro-migrante -clandestino” viene ora rappresentato in un’altra forma fantasmatica non più di “ladro, spacciatore, assassino o accusato furto di lavoro agli italiani “ma portatore di terrorismo e pandemia”;
questa febbre epidemica emozionale è ben evidenziata dai sondaggi che danno i sovranisti di Lega e Fratelli giorno dopo giorno in crescita quotidiana con una curva di contagio che sale drammaticamente dopo una breve pausa di primavera-estate. “Tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, come esuli pensieri, nel vespero migrare” , e le ottuse visioni sovraniste ed hobbesiane di “homo homini lupus” ;uomo come lupo feroce per l’altro uomo, metafora antropomorfica e paranoica di lupo , non certo empatica e francescana di fratello lupo immagine pacifica, mistica, poetica e transpecista.
Uno strano mondo il nostro popolato di tanti lupi solitari da tastiera in un mondo digitalizzato per alcuni perversi modi de solidarizzato e disincarnato nelle relazioni tattili per dirla con Merleau Ponty, ed altrettanto inconsueto per dei Sapiens che nella loro più che millenaria storia di nomadismo,socializzazione e cooperazione hanno sempre cercato nuove terre d’abitare ed agito ricercando una certa comune coesione prima tribale e poi sociale, ed una necessitata lunga presenza educativa degli adulti con i minori.
W.Reich analizza i meccanismi psicologi per comprendere come abbiano potuto incanalareed assoggettare la volontà politica di un’immensa massa popolare, ad un leader populista e ad un gruppo autoritario, in sé alienante.
Per far ciò Reich utilizza metodologie di psicoanalisi freudiana, sociologia weberiana e materialismo dialettico marxista.
Il concetto di “peste emotiva,” proposto da Reich, è definito come la somatizzazione della repressione sessuale, economica e politica che viene esercitato a livello individuale e che produce comportamenti di natura fascista nella società e che apre la strada a governi fascisti in tutto il continente europeo accompagnati da espressione di violenza e terrore diffusi.
La peste emotiva sarà una categoria analitica della psicoanalisi reichiana considerata da essa un comportamento anomalo della società che minaccia la ricerca di una società aperta, libera e includente.
“Qualche meccanismo di peste emozionale“, e qui di seguito una serie di frammenti di quel vasto discorso analitico su una strana peste emozionale in forma multidisciplinare dello psicoanalista W. Reich:
“Non ci sono motivi per supporre che passi, in modo ereditario da madre a figlio. Piuttosto, viene impiantato nel bambino dal suo primo giorno di vita. E’ una malattia epidemica, come la schizofrenia e il cancro, con questa importante differenza: si manifesta essenzialmente nella vita sociale”.
“Gli effetti della peste emotiva devono essere visti nell’organismo e nella vita sociale. Periodicamente come ogni altra peste, la peste bubbonica o il colera, la peste emotiva assume le dimensioni di una pandemia sotto forma di una gigantesca ondata di sadismo e criminalità, come l’inquisizione cattolica nel Medioevo o il neofascismo internazionale,in questo periodo storico”.
“La peste emotiva non ama il pensiero, come non ama il regno razionale, può anche giungere ad una conclusione corretta ma cercherà piuttosto di confermare un’idea irrazionale già esistente e proverà a razionalizzarla.
Questo è generalmente chiamato “pregiudizio”; ciò che viene trascurato di questo “pregiudizio” ha conseguenze sociali di notevole entità, che è molto diffuso e praticamente sinonimo di quella che viene chiamata “tradizione”, e l’umano afflitto da questa peste emozionale è intollerante, cioè non tollera il pensiero razionale che potrebbe metterlo in ombra; di conseguenza il pensiero della peste emotiva è inaccessibile agli argomenti; ha la sua “logica”, per così dire;
per questo motivo, dà l’impressione di razionalità senza essere realmente razionale. “
“La disposizione alla peste emotiva è generale. Non esistono individui completamente liberi dalla peste emotiva. Proprio come ogni individuo, da qualche parte nell’organismo nell’inconscio, può sviluppare il cancro, la schizofrenia o l’alcolismo, così ogni individuo, sia esso il più sano o il più vivo, ha una tendenza alla peste emotiva”.
“La sessualità dell’individuo dominato dalla peste emotiva è sempre sadica e pornografica. E’ caratterizzato dall’esistenza simultanea della lascivia sessuale (a causa dell’incapacità di gratificazione sessuale) e dal moralismo sadico. Questo fatto è dato nella sua struttura;
non può cambiarla anche se avesse intuizione e conoscenze;
…questo è il nucleo della struttura caratteriale della peste emotiva. Sviluppa un odio violento contro qualsiasi processo che provoca desiderio nostalgico e, con ciò, ansia da orgasmo”.
Frammenti tratto di “Some Meccanismo of the emotional Plague”, scritto d W.Reich, ed apparso sull’International Journal of Sex-Economy and Orgone Research, vol.4, n,1 , aprile 1945, Orgone Istitute Press 1945
Se ritorniamo a confrontarci con altri coprifuoco e pandemie emozionali della metà del secolo scorso le passioni polarizzate sono chiare e distinte:
amore, solidarietà, autodifesa delle comunità e delle varie forme di disabilità,libertà individuali e sociali, pluralità culturali da una parte con un fronte ampio e plurale di antifascisti, e di odio, ostilità, oppressione, deportazioni e stermini dei diversi su altro versante dominante da parte di fascisti e nazisti.
Coprifuoco
Testo poetico di Paul Eluard tratto da “poesie e verità”, considerate come quelle della Resistenza pubblicate nel 1943, e tra esse “libertè, j’ecris ton nom”(libertà, io scrivo il tuo nome o l’urlo della libertà) che apre la raccolta.
“Che volete la porta era difesa
Che volete noi là s’era chiusi
Che volete la via era sbarrata
Che volete la città era domata
Che volete ella era affamata
Che volete s’era disarmati
Che volete la notte era discesa
Che volete noi ci siamo amati
Scritta durante la sofferta ed subita occupazione nazi-fascista della Francia, investita in quel tempo come il resto d’Europa di una peste emozionale, così la definirà il virologo austriaco, comunista e psico-analista-sociale Wilhem Reich in un’opera “Psicologia di massa del fascismo”, pubblicata nel 1933, in una data che coincide con l’ascesa di A.Hitler al potere.
Il lavoro di riferimento è una denuncia del comportamento della società in quel momento storico, fase che ha sviluppato una psicologia di massa caratterizzata dalla sottomissione psicologico-comportamentale di un popolo ad una mistica della razza ariana o del nord, per legittimare l’ascesa di un leader politico (monocratico, capo che dispone di pieni poteri e per alcuni versi assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo democratico)che ha favorito la classe borghese e benestante (agrari ed industriali),con acclamante appoggio di masse risentite, rancorose ed immiserite dalla crisi sistemica economica, sociale e valoriale(crisi del 1929 che ha investito prevalentemente le società industrializzate del Nord del Pianeta), i cui i principi ideologici erano protetti dal partito nazista, guidato da Hitler.
Che volete noi ci siamo amati (Paul Eluard)
Da “Coprifuoco“ come da tutti i testi poetici della raccolta “poesia e verità” e della Resistenza,
emana una nota freschissima di quell’amore conservato intatto nel marasma della guerra, il solo capace di garantire e dare senso alla vita nella pestilenza, ma affiora anche un tono di scusa del poeta per la propria felicità conservata rifugiandosi e trovando ospitalità in un inconsueto asilo manicomiale per quei tempi bui, in cui in tutti gli ospedali psichiatrici di Francia, più di 50 000 pazienti sono stati deliberatamente lasciati morire di fame e di stenti, riducendo giorno dopo giorno la dieta alimentare, deliberatamente perché era nelle teorie razziali nazi-fasciste di quel sistema totalitario “la ricerca della purezza della razza nordica ed ariana” veniva perseguito sia nei territori del Reich come nei territori invasi, lo sterminio di cioè non corrispondeva a quella normalità “di non degni di vivere” definita a priori da criteri di mistica razziale eugenetica.
“E noi siamo il comune
E tutto è comune sulla terra
Semplice come un solo uccello
Che confonde d’un solo colpo d’ala
I campi nudi ed i raccolti.”
A Saint-Alban a differenza di quei lager psichiatrici si è costituita una comune sommersa aperta, accogliente e terapeutica di pazienti, di infermieri, di psicoanalisti marxisti e surrealisti, di rifugiati ebrei, intellettuali ed artisti surrealisti e dadaisti, tutti e tutte antifascisti clandestini, che resistono insieme nella macchia (maquis) contro l’occupazione terrorista nazi-fascista dei territori ma anche contro ogni sistema concentrazionario di alienazione mentale e sociale ,
ove l’amore o “la fraternitè” , la cooperazione sociale tra gli abitanti dentro l’Ospedale psichiatrico e fuori nel villaggio di Saint-Alban, costituiscono una comunità di destino e di resistenza prefigurante non solo la liberazione dei territori dall’oppressione, dai rastrellamenti, dalle deportazione e dal minacciato sterminio di pazienti ed oppositori da parte dei dominanti nazi-fascisti ma anche la liberazione dei folli e della follia da un sistema di concentrazione ed alienazione mentale e sociale di tipo totalitario fascista(società autocratiche-autoritarie, militrariste ed illiberali) ma anche autoritarie-borghesi pre-fasciste(società conservatrici liberali).
Nella coppia illimitata senza origine e senza fine, di cui Paul Eluard e di Maria Benz nell’arte e nella danza Nusch (di famiglia sinta e circense alsaziana), rovesciando il processo di una coppia-limitata in una coppia-moltitudine di coppie.
“Noi non abbiamo cominciato mai
Sempre ci siamo amati
E perché noi ci amiamo
Vogliamo altri liberare
Dal gelo della loro solitudine
Vogliamo e dico io voglio
Dico tu vuoi e noi vogliamo
Che la luce perpetui
Coppie splendenti di virtù
Coppie in corazze d’audacia
Perché hanno sguardi che s’affrontano
E il loro fine sta nella vita degli altri”.
L’epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato
Oggi 3/12/20 è presente sul “il Manifesto”,
(un quotidiano che mi mi accompagna da quando è uscito, e mi riservo di leggerlo postumo al ritorno delle vacanze estive o dalle mie assenze dall’Italia, chiedendo ad da un amico o al giornalaio di metterlo da parte o prenderlo per me, e che leggo sempre rigorosamente alla araba, cioè parto dalle ultime pagine, mi soffermo su quelle culturali sugli inserti alias o extraterrestre, e poi mi incammino frettolosamente verso la prima pagina),
è uscito un articolo di Enrico M. E. Moncado che merita di essere letto, sottolineato e poi tratto delle parti che più colpiscono per la capacità di cogliere l’insieme e anche di evidenziare cosa si nasconde sotto l’immenso iceberg di questa epidemia “Covid -19”, ma anche di dissentire da alcune improprie messa in stato di accusa di quella che a suo giudizio severo a mio sentire ingiusto da Cardinale Borromeo nei confronti di un’intellettualità di massa o diffusa (studenti, docenti, intellettuali e politici della sinistra critica) che E. Moncado taccia di pavidità o donabbondismo, sottolineando in forma manzoniana che “il ministero sacerdotale” o della cultura nel nostro caso “pecca” di “un eccesso di fredda razionalità traducendo la vita collettiva in irrazionali conflitti davvero lontani da un pensiero critico e plurale. Quest’ultimo invece è sempre comprensione qualitativa e anche quantitativa delle forze che intessono di senso ogni accadere, poiché la critica, se è veramente tale, è un esercizio di necessaria giustizia esterno ad ogni atteggiamento d’obbedienza.”.
Dialogo manzoniano tra il Cardinale Borromeo e Don Abbondio:
“Voi non rispondete?” riprese i cardinale?
“Ah, se aveste fatto dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva nel vostro ministero sacerdotale
in qualunque maniera le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta.
Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete unito all’iniquità, non curandovi di ciò che il dovere vi richiedeva.
Vedendo qualcosa bisognava rispondere, disse (don Abbondio) con una certa sottomissione forzata:
“Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando al vita non si deve contare, non so cosa mi dire . Ma quando si ha a che fare con certa gente che ha la forza, e che non vuol sentire ragioni anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si può guadagnare. E’ un Signore quello con cui non si può ne vincerla né impattarla”.
Invece potrebbe trattarsi di una nuova consapevolezza che questa pandemia costringe a riflettere e a muoverci con prudenza:mascherine, distanza fisica e non sociale per rispetto delle altrui esistenze oltre che delle nostre, in quanto il virus ci usa come agenti infettanti, non di “una fredda razionalità o di una paura introiettata” che paralizza la nostra vita attiva costringendoci ad una passiva nuda vita,ma piuttosto di autolimitazioni a narcisismi autodistruttivi comparabili piuttosto alla confusa reattività delle mitiche Dana idi, che dopo essersi rivolte verso il padre e in molti casi contro sé stesse, in quest’era capital-antropo-cenica accadde che ci si torce anche contro l’intera umanità o l’intero mondo di vita.
Non condividendo per nulla questa parte di reprimenda di Enrico M. Monca do contro l’intellettualità critica considerata remissiva al potere costituito, paralizzante ed “incrinata in modo radicale sul piano di una narrazione mediatico-televisiva colorata di un oscuro protezionismo biologico della vita, specie della vita in quanto vita” (sottinteso nuda).
“E cosa più significativa, lo scarto tra società e stato è parso appiattirsi per svuotamento di opposizione, in nome dell’impossibilità di fare altrimenti di fronte alla novità di in fenomeno senza precedenti. Introiettati, forse irreversibilmente, quali dispositivi necessari per la conservazione della vita, soprattutto di quella degli -ultimi – DPCM – Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri -, che hanno stabilito le soglie di comprensione dell’esistenza, dei suoi confini e dei diritti elementari.”
E poi il riferimento diventa esplicito al donabbondismo, alla soggezione e al controllo “del più forte” nella parafrasi manzoniana:
“Quando la vita non la si può contare, enumerare, proteggere o quando non la si può raccontare altrimenti se non con dispositivi di controllo di cui si dispone all’occorrenza, non ne rimane più nulla. Ed è questo un approccio quantitativo al mondo insieme al dissolversi dei corpi, degli spazi, delle relazioni, della didattica che i tanti Don Abbondio (studenti, docenti, intellettuali e politici della sinistra critica)hanno voluto celebrare “proteggendo la nuda vita, vita che non conosce altro all’infuori di se stessa, vita che è costante terrore della morte:il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica è infatti ed esattamente la la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso.”
E qui dissento nuovamente e mi differenzio dal pensare che la nostra intellettualità critica abbia potuto subire costrizioni “a capo basso del povero prelato di campagna nei confronti dei “Bravi o di quel tal Innominato Signore” :”come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un aria che non ha mai respirata”.
Per verità ed esperienza il personale della scuola nella sua totalità (o meglio l’intera comunità educativa) non si è mai mai sottratto al loro “ministero sacerdotale”, o culturale attraverso il mantenimento di un contatto costante affettivo e docente con i loro student*, sia da remoto cioè sui dispositivi mobili:cellulari, tablet e computer che in presenza nelle classi,cercando di conservare quel rapporto intenso passionale, d’esperienza e e di sapere che caratterizza il fare/disfare della scuola.
Inoltre va anche ricordato che molti tra loro hanno ridotto le loro ferie, per impegnarsi in modo diretto nelle scuole:e qui non troviamo solo i dirigenti scolastici ed amministrativi, ma anche docenti, ausiliari ed i tecnici, tutti insieme a predisporre le classi nelle modalità e le distanze che il comitato degli esperti aveva fornito loro, e all’apertura del nuovo anno scolastico nei primi giorni d’autunno (tra settembre ed ottobre) gli studenti e le studentesse si sono ribellati a questa alterazione virtuale (dad), piazzandosi in molti con mascherine e dispositivi mobili nei pressi della scuola per seguire le lezioni, e protestare chiedendo di stare in presenza dei loro docenti e compagni/e;
nei giorni successivi a questi gruppi studenteschi spontanei si sono aggregati via via che passava il tempo anche i loro docenti trasformando strade, parchi e vicoli delle città in agorà o scuole epicuree (scuole che nell’antichità Epicuro prima e Lucrezio poi, usavano incontrarsi sotto gli alberi e fuori città, perché trattava-si la loro di scuole anti-accademiche con frequenza aperta alle donne e agli schiavi).
Per documentare tale affermazioni in dissenso a E. Moncado mi avvalgo di alcune informazioni di R. Ciccarelli sul Il Manifesto del 6/12/20:
“I licei come gli Istituti tecnici e professionali, sono rimasti aperti da novembre 2020, quando il Governo ed i Presidenti di Regione li hanno chiusi in presenza però mettendo docent* e student* in didattica a distanza (DAD).
In via eccezionale si provvedeva diversamente per student* con disabilità (diversamente abili) e per i Bes (Bisogni educativi speciali, che sono student* che non presentano disabilità psico-fisiche piuttosto psico-sociali, in quanto provenienti da famiglie migranti e povere autoctone,da territori periferici che presentano rilevanti disagi e povertà materiali ed educative), per questo è stata prevista la presenza nelle aule assieme a docent* di sostegno, ‘per garantire inclusione scolastica e mantenere una relazione educativa.
[….]
A questa eccezionalità però se ne sono autorizzate delle altre con disposizioni dei DS (Dirigenti Scolastici), che per non lasciar da soli disabili e bes nelle classi, si è autorizzato che dei piccoli gruppi di student* volontar* si unissero per dare vicinanza affettiva e socialità ai loro compagni/e.
C’è da riferire poi che tra i docenti come tra (il personale sanitario) vi è un forte spirito di servizio di tipo “etico e passionale ” tutt’altro che donabbondismo, che spinge a prendersi cura e a esporsi a rischi che altri non osano.
In molti istituti si sono create attività di laboratorio seppure con numeri limitati e a rotazione per garantire a tutti accesso allo studio e alla convivialità .
Nell’articolo di Enrico M. Moncado viene presentato anche il saggio a più mani e voci di “Krisis”, le cui analisi esposte nei testi condivido e sottoscrivo, e che E.Moncado ben sintetizzate nel titolo dell’articolo:”l’Epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato”.
L’argomentazione critica che ne segue nell’articolo di E. E. Moncado: “Che l’epidemia non sia soltanto un fatto medico o biologico è il presupposto fondamentale per comprendere criticamente il tessuto sociale e politico nel quale l’umano abita. Il fatto o meglio il dato di fatto epidemiologico non esiste come qualcosa di separato – giudicabile quindi in modo unidirezionale – bensì è in costante reciprocità con l’ambiente nel quale sorge“.
Un ambiente che è sempre plurale e profondamente interrelato”. E prosegue presentandoci il saggio “Krisis” e sottolineando che “la complessità e l’interdipendenza dei mondi è uno dei principali suggerimenti metodologici di Krisis: corpi, confino e conflitto Catartica edizione, pp.118, e tra gli autori figurano: Afshin Kaveh, Alberto Giovanni Buso, Xenia Chiaromonte, Cristiano Sabino, Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil”.
La tanatopolitica, o una politica della distruzione o dell’estinzione è quella che scinde l’umano dall’intero ed inverte le ragioni del malus attribuendone la colpa allo straniero.
Chi sarà vettore di cambiamento?
Quali saranno le azioni che lo produrranno
Il Chi, in un scenario di decisione imminenti, è la grande domanda.
“E’ difatti una storia di reclusione e di estrema plasticità dei corpi, di degenerazione e decostruzione dello stato di diritto quella vissuta sotto il Covid-19, considerato come panottico(come architettura circolare adibita a carcere ideata alla fine del XVIII sec .dal filosofo inglese J. Bentham in modo tale che da un punto si può sorvegliare tutte le celle) .
Il rischio d’appiattirsi c’è “andrà tutto bene, possiamo tornare a fare quello che facevamo prima”ed in aggiunta con la superficialità con cui s’affronta quest’emergenza, pensando trattarsi di una crisi passeggera e superabile con un vaccino, ignorandone tutte le connessioni e la sistematicità che la crisi rivela. Una punta di un iceberg di dimensioni molto più devastanti.
E’ una pagina di storia che se letta, come fanno gli autori di Krisis, con sguardo genealogico, rivela i rapporti di forza che sottendono alla prassi d’internamento e domesticazione fisico-virtuale, la cui scaturigine è qui
nel dispositivo -sicurezza, legalità, meritocrazia e darwinismo sociale. Lo sguardo genealogico che lega insieme il trinomio -capitalismo, crisi-ecologica, crisi epidemica-, non soltanto coglie l’immediatezza del fenomeno eccezionale ma dispiega anche le sue mediazioni all’interno di un concatenamento di rapporti interni al fenomeno stesso: la crisi del capitalismo è -la crisi ecologica, è la crisi epidemica è la crisi finanziaria-.
(“il grande gioco della storia è impadronirsi delle regole ,e e utilizzarle in controsenso e rivolgerle contro chi le aveva imposte, in modo tale che i dominatori si trovino dominati dalle loro stesse regole”, M. Foucault, F. Nietzsche, la genealogia, la storia).
“Covid -19 è quindi un marchio d’insostenibilità politico-economica dei paradigmi che già da tempo disegnano le geometrie del mondo contemporaneo: controllo ed assoggettamento,sfruttamento agro-alimentare e allevamento intensivo, cementificazione delle aree verdi e distruzione della biodiversità. Sono questi alcuni esempi della tanatopolitica che scinde l’umano dall’intero ed inverte le ragioni del malus attribuendone la colpa allo straniero, al dissidente, all’untore a chi abita a chi abita i margine dei fatti, così che i cittadini si possono riconoscere come causa stessa dei loro malanni. Resta infine, aperta la serie di domande che scuote questo sogno illuministico:
Chi sarà vettore di cambiamento?
Quali saranno le azioni che lo produrranno
Il Chi, in un scenario di decisione imminenti, è la grande domanda.”
Annota bene questa frase di Teresa di Lisiueux (santa): “la paura mi fa indietreggiare, con l’amore non soltanto vado avanti, ma volo” , oppure un altra :” non si conta niente, ma bisogna fare come se ci contasse“, e questa frase la ripeteva più volte la partigiana di pace – Lidia Menapace”, che è venuta a mancarci in questi giorni, e che diventò il moto di riaffermazione d’esistenza politica e culturale del “il Manifesto” quando Lei dissidente crisitano sociale s’unì poco dopo al gruppo di dissidenti comunisti;
non ci mancheranno la sua resistenza e la sua lotta per la restituzioni delle libertà civili ma anche sociali confiscate dalla tirrannide nazi-fascista , e per queste libertà enunciate ma ancora sulla carta per lunghi anni, Lei ha continuato a resistere nel dopo guerra per resituire alla donne la liberazione “dalle tradizionali oppressioni patriarcali e agli ultimi (i migranti) ma anche ai penultimi (i marginali e precari d’Italia) , quelle le libertà sociali enunciate nell’art.3 comma 2 della Costutuzione partigiana-repubblica: “
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociali, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (la liberazione delle classi subalterne (stabile o precarie) dalla soggezione e dalla paura) e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Possono esser un buon consiglio le parole di Teresa di Lisiex anche per i non credenti, e la vita attiva di Lidia Menapace per non credenti e credenti.
Gabriella Covri – animatrice filosofa di comunimappe
Accordatore assembleare
Pino de March
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APPROFONDIMENTI
(!): CORO PER UN”EUROPA MINORE:
passaggi interiori/ ti immagino metafora deleuziana / non ti immagino Grande Europa letteraria/economica/ militare/ imperiale /ti immagino /deterritorializzata / sconfinata come tuoi cieli invernali/ /Blu notte/ illuminata dalla luna / Ti detesto Europa/ territorializzata nella bandiera / rare stelle/ cielo blu opaco /senza mediterranee lune/ Ti detesto Europa territorializzata / /con i tuoi temporanei lager di detenzione/ /senza cieli blu / /senza stelle/ in tutte le stagioni /notti atroci per gli stranieri/ ti detesto Europa delle torri dei mercanti/ delle Banche/ degli stati di precarietà senza socialità/ Ti immagino Europa in divenire/ coi migranti/ mondo d’umani/ Ti Ascolto/ Ti Danzo /europa ribelle/ con i cantanti beuers/ delle tue banlieus/
passaggi esteriori/ ti ritrovo nelle mappe dei tuoi movimentati sognatori/: passaggio numero 1: in Europa nessun essere umano è illegale / passaggio numero 2: in Europa tutti gli umani devono avere un reddito di cittadinanza /per esistenze extra/ passaggio numero 3: in Europa la guerra è bandita/ come lo sono il razzismo / le diseguaglianze di ogni genere/
passaggi anteriori/ Ti rimmagino metafora benjaminiana/ Ti rimmagino europa nomade dei tuoi Ulissi/ naviganti / esiliati / senza terra/ dei tuoi tempestosi/ celebrali freethinkers/scienziati/ filosofi /politici/ dei tuoi tempestosi/emozionali freelands/artisti/poeti/musicisti/ Ti rimmagino europa bruniana dei mille campi di fiori /dei mille liberi pensieri/ dei mille liberi giudizi/dei mille liberi amori/ Ti rimmagino europe de l’ amour/ pour la libertè, l’ègalité, la fraternité des citoyenes de la Comunne de Paris Ti rimmagino europa der Liebe/ fuer die Gleicheit der Karl Marx /der Rosa Luxemburg /der Karl Liebnecht / der Bertold Brecht/ Ti rimmagino europa libertaria e cosmopolita/ de los Durrriti anarquistas espagnoles/ Ti rimmagino europa della fratellanza universale di Francesco D’Assisi Ti rimmagino europa delle donne sagge /bruciate come streghe/sui roghi/ nelle piazze delle cattedrali/ sfidanti il cielo/ Ti rimmagino europa beat/ desiderante nel pensiero e nell’azione/ degli operai/ degli studenti/ dei filosofi autonomi del maggio/degli altri mesi / degli altri anni/ a venire/in tutte le tue città /
Ti rimmagino europa della glastnost/della trasparenza/dell’insostenibile leggerezza dell’essere nel pensiero e nell’azione/ degli operai /degli studenti/ dei filosofi dissidenti/ / nelle varie primavera di Praga/ di Budapest / di Varsavia/ Ti rimmagino europa gaya dell’amore/ negato per secoli/ Ti rimmagino europa della libertà/ dell’uguaglianza/ della sorellanza/ tra/ tue/ lingue / disparate/ Ti rimmagino europa della resistenza delle masse/ Ti agisco europa della disobbedienza delle moltitudini/ Ora e sempre/ Europa delle sognatrici/ Ora e sempre/ Europa degli amanti delle umane genti/ Europa minore/ minore/ minore come l’asia / del pastore errante/ dai passi leopardiani/
Pino De March
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Omaggio a Danilo Dolci
La maieutica dolci
In questo tempo urlato ove ogni giorno dalle ceneri spuntanociarlatani e pubblicitari con sempre nuovemenzogne,che fanno brecciatra la gentecomune sollevando aspettative edillusioni (like-mi piace) che si tramutano in rapide delusioni (no like-non mi piace),la maieutica di Dolcifatta di circle timeemetafora della domanda può essere una buona terapia per vaccinarsi contro questa liquidità diffusa.
Circle time
Negli anni immediatamente successivi alla proclamazione della Repubblica, e sono gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, nella Sicilia come nel resto del paese perdurano analfabetismo, miseria, emigrazioni, ingiustizie sociali ed oppressioni verso le donne e le nuove generazioni;
Danilo Dolci un poeta e un filosofopacifico non pacificato,
s’impegna adattivare assemblee popolari con la gente comune: braccianti, contadini, pescatori, operai, artigiani, intellettuali, giovani e donne;
vi è in lui “una costante tensione a generare quelle condizioni antropologiche,sociali e politiche che permettono ai singoli individui di maturare una consapevolezza del proprio valore, del proprio potere, il bisogno di farsi sentire, di valorizzare la propria esistenza. È un processo che trova in Danilo Dolci una connotazione pedagogica. “
crescita diun popolo
“Tali processi dal basso vengono dalui stesso definitidi “crescita collettiva”, di crescita di un popolo, che non possono essere imposti dall’alto”, ma generati in circle time, in una circolarità che si fa reciprocità e conoscenza di sé e della propria condizione antropologica e sociale.
Il suo impegno come educatore è volto a organizzare la speranza di un cambiamento a partire dalla presa di coscienza di ciascuna persona del proprio valore, delle proprie capacità e
quindi delle potenzialità di generare nuove strutture auto-organizzate e generatrici di saperi popolari volti a progettare solidipresenti comuni e solidali con uno sguardo lungo sul futuro.
Questo processi immersi nei conflitti sociali del suo tempo: hanno generato individuazioni di classe, di genere e di generazione, e nella comune problematizzazione pacifiche soluzioni.
metafora della domanda
“Se c’è una metafora che può caratterizzare l’esperienza pedagogica di Danilo Dolci è senz’altro la
metafora della domanda. Possiamo definire Dolci come l’educatore della domanda, ossia l’educatore che innesta tutta la sua azione formativa sul chiedere, sull’esplorare, sul creare,
sull’interrogazione, ovviamente non in senso scolastico, ma nel senso dello scavo, dell’andare oltre
l’apparente, cercando di scoprire il “non-noto”, ciò che è velato dalle tradizioni, dalla consuetudine,
dagli stereotipi. In questo sta il richiamo all’approccio maieutico, per cui Danilo Dolci è famoso,
alla pratica del tirar fuori, del porre gli educati nella condizione di allargare la propria sfera di
apprendimento a partire dalla capacità di utilizzare in maniera costruttiva le domande. “
(per queste riflessionimi sono avvalso di un testo di Daniele Novara, il gusto della domanda)
Per la comune accademia di comunimappe pino de march
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CAOSMOSI EUROPEA
Europa minore nel suo divenire uno dei tanti mondi minori
L’attraversamento dei territori Kafkianida parte di Deleuze e Guattari e le osservazioni che essi ne hanno tratto, ci permettono di formulare una costituzione immaginaria di quello che desidereremo diventasse l’Europa.
“La letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. Kafka definisce in questi termini l’impasse che impedisce agli ebrei di Praga l’accesso alla scrittura e fa della loro letteratura qualcosa di impossibile; l’impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di scrivere in un’altra lingua… L’impossibilità di scrivere in una lingua diversa dal tedesco è per gli ebrei di Praga il sentimento di una distanza irriducibile rispetto alla primaria territorialità ceca.
Insomma il tedesco di Praga(e di Kafka) è deterritorializzato, adatto a strani usi minori(si veda in un diverso contesto, cosa possono fare i neri con l’americano). La letteratura minore è tutta diversa: l’eseguità del suo spazio fa si che ogni fatto individuale sia immediatamente innestato sulla politica…” La letteratura minore, infine – ed è questo il terzo carattere – tutto assume un valore collettivo.
(Attraversamento di Deleuze e Guattari di Kafka, pp. 27-29.)
I geofilosofi Deleuze e Guattari concepiscono la letteratura dopo l’attraversamento dei testi di Kafka come concatenamento o enunciazione collettiva di un popolo minore con tutta una serie di divenire.
Un divenire molteplice in cui è in gioco la vita, il desiderio e l’evento.
In questo momento in europa si giocano due visioni dell’europa:
una chiusa, spaventata e celebrativa della sua ricchezza economica e culturalmente eurocentrica ed una altra aperta, riflessiva e critica della società delle virtuali e reali abbondanze, empatica verso lo sconosciuto e pronta a confrontarsi anche con la durezza del divenire impetuoso dei migranti.
La prima visione rimanda alla clinica, al socio-patologico, al modo in cui il desiderio delle moltitudini viene piegato e bloccato lungo le linee ormai militarizzate delle frontiere-fortezze di Senghen e nei centri di detenzione per stranieri.
Il Castello-Europa sognato dai migranti come luogo della ricchezza (passaggio imperiale) e dei diritti umani (passaggio umano) si trasforma rapidamente in una reale fortezza kafkiana appena qualcuno dei altri mondi prova ad avvicinarsi alle sue mura virtuali; alla maniera del guardiano-super-io dell’agrimensore del castello di Kafka, il migrante viene bloccato sulla soglia malgrado che le porte siano aperte. Ma qui a bloccare l’accesso al castello non è l’autocensura del super-io dell’agrimensore ma la censura del super-io paranoico degli europei che si interdicono un possibile incontro con lo sconosciuto-migrante.
La seconda visione rimanda invece alla critica, in quanto fa interagire i desideri dei fuori(gli extra-comunitari) con i desideri dei dentro (intra-comunitari), provando così ad inventare nuove lingue e nuove forme di vita europee.
Lingue minori alla maniera di Proust, che come lo leggevano i nostri amici e filosofi Deleuze e Guattari ha saputo inventare una nuova lingua straniera dentro alla lingua francese.
Lingue minori anche alla maniera di Kafka che scrivendo in tedesco ha saputo inventare una nuova lingua tedesca attraversata dalle inquietudini della sua vita, dalla cultura ebraica appresa dalla madre e da quella ceca della sua città.
Lingue queste tutte minori non certo minoritarie.
L’europa minore nel suo divenire-ricombinante degli europei
Nella letteratura minore si iscrivono i movimenti di creazione dei vari divenire della vita e dei desideri.
I movimenti migranti nel divenire europei (flussi migratori) e i movimenti europei nel divenire mondo (flussi degli alterglobal), determinano un doppio movimento fuori-dentro-dentro-fuori, che ricrea nuovi passaggi comunicativi e di ricchezza non solo per l’Europa minore ma anche per i mondi minori attraversati dai flussi bidirezionali.
Il pensiero critico e minore si trova a fronteggiare oggi sia contro gli stati clinici locali e globali euro-americani con le loro guerre umanitarie e sicuritarie, con i loro no-tollerance, con il loro fondamentalismo economico liberista ma anche contro gli stati clinici neo-localistie fondamentalisti extraeuropei con il loro terrorismo, con le loro guerre etniche, con le loro segregazioni, con le loro guerre religiose.
Stati clinici psicotici occidentali bloccano i passaggi di vite alle soglie delle loro fortezze, lasciando passare solo degli schiavi a termine di lavoro e stati clinici nevrotici globali mercificano le forme di vita umane e naturali nello loro stressanti borse valori, dove tutto viene ridotto a merce.
Gli aggregati politici, sociali e culturali spontanei dell’Europa-minore e gli aggregati degli altri mondi minori con cui si è in relazione dopo Seattle e Porto Allegre non sono differenze o minoranze irriducibili nell’identità, come qualcuno continua a presentarci mediaticamente nella versione noglobal, ma singolarità comunicanti e disposte alle mutazioni (alterglobal o alterlocal).
L’europaminore non è l’europa delle differenze identitarie alla maniera dei Baschi, dei Bretoni, dei Celti-padani etc o dei vari separatismi) ma neppure l’Europa dei fondamentalismi religiosi in qualsiasi forma si presentino ( cristiani, ebraici, mussulmani, induisti, testimoni di geova etc), economici(liberismi moderati o radicali) o politici(terrorismi, razzismi, nazionalismi, localismi, xenofobia, omofobia).
L’europa minore non è la semplice europa delle differenze ma un’europa complessa delle singolarità comuni (differenza della differenza della differenza).
Ci sono delle differenze date storicamente e dal dominio(classe, genere, etnico etc) ma queste differenze comuni nei loro processi di liberazione(movimenti specifici) danno origine ad altre differenze(singolarità).
E queste singolarità si concatenano con altre singolarità(movimento dei movimenti) per dare vita ad una sfera pubblica comune delle singolarità.
Il dominio globale contemporaneo riconosce solo le differenze sociali, politiche, antropologiche e comunitarie ipostatizzate nella forma del benettonismo, del corporativismo, dei localismi, e dei nazionalismi e le individulità ipostatizzate in forma consumistica ed imprenditoriale ma disconosce qualsiasi forma di singolarità comune che aspiri all’autogoverno locale-comunalista o all’autorganizzazione economica e sociale nella forma della cooperazione politica o nelle pratiche dell’autovalorizzazione.
Singolarità comuni o comuni singolarità che si costituiscano in sfere comuni per ricreare rapporti di cooperazione autonoma al fine di aprire conflitti con i poteri dominanti per creare nuove possibilità di socializzazione della ricchezza socialmente prodotta(reddito), per rendere autonomi e produttivi socialmente i saperi, per lasciare ibridare le culture e permettere a queste di inventare nuove forme di società.
L’europa minore è l’europa delle città autogovernate che immagina e pratica la moltiplicazioni delle forme di vita ricombinate dal desiderio di vita, di una vita.
L’europa minore allude a forme di vita dis/identitarie e dis/topiche.
L’europa minore non è un luogo o un non luogo ma un passaggio,
l’europa minore non ha una identità definita e neppure una identità indefinita ma è una concatenazione comune in divenire creolo o ibrido di singolarità desideranti che si lasciano contaminare dai flussi umani e culturali che vengono dai vari fuori.(altri mondi).
L’europeo in divenire è un europeo complesso, non semplicistico e afasico alla maniera di Bossi –Fini-Berlusconi, è un intra-comunitario-extra (afro-europeo, euro-asiatico, euro-americano etc)
L’europeo in divenire porterà con sé non un segno bloccato(trattino) di separatezza metafisica(extra-comunitario) ma un segno nomade (trattino) di legame complesso(extra-comunitario-intra).
C’è un trattino linguistico che blocca i flussi desideranti di vita (frontiere-fortezze)-/-/–/–/
C’è un trattino linguistico che lascia passare i flussi desideranti di vita (passaggi) —-____——-__
Europa minore immaginata e il suo futuro anteriore
L’europa minore non allude a forme di vita alienate e mercificate dal capitale economico -finanziario .
L’europa minore crea nuovi passaggi di ricchezza tra nord e sud e tra ovest e est, crea nuovi passaggi culturali che ci permettono di pensare un’europa minore ed impensata, un’europa dove la vita scorre dentro di essa.
Nelle frontiere tra l’europa e il mondo, l’europa minore intende far parlare l’indicibilità dei migranti e degli europei in movimento nei due sensi.
L’europa minore immaginata è terra di passaggio, come del resto l’europa è stata nei secoli per gli invasori, i nomadi, i pellegrini e gli umani in cerca di nuove terre.
Tutti questi flussi deterritorializzanti nel bene e nel male hanno permesso all’europa geografica di divenire storia, alla natura europea di divenire cultura europea attraverso quella greca, romana, fenicia, romano-barbarica, normanna, araba, ebrea, asiatica etc.
L’europa e gli europei sono il prodotto di ricombinazioni genetiche e linguistico-culturali disparati.
Se si vuole fare una storia dell’europa, questa storia la si deve riscrivere perché è storia di attraversamenti e contaminazioni.
Testo elaborato da pino de marchper un’azione teatrale di strada dentro all’European Social Forum di Firenze 2001
Settimo Convivio dedicato a Ivan Illich Bologna, sabato 30 novembre – domenica 1 dicembre 2013
Presso l’HUB di via Luigi Serra 2/G, Bologna
Organizza: Banca del Tempo Momo con la collaborazione di Comunimappe
Sabato dalle ore 10 con pausa pranzo conviviale (ognuno può contribuire portando qualcosa da bere o da mangiare) – Domenica dalle ore 10 alle ore 13
Interverranno
Jean-Michel Corajoud (Cercle des lecteurs d’Ivan Illich, Losanna, Svizzera): Ivan Illich e l’autonomia secondo la parabola del Samaritano
Andrea Sedini (San Feliciano sul lago Trasimeno): Intorno a “Non ci indurre nel diagnostico, ma liberaci dalla ricerca della salute” – Lettera di Illich a Manfredo Pace per il Simposio “Malattia e salute come metafore sociali” (Bologna 25-28 ottobre 1998) – Il corpo cibernetico come non corpo.
Adele Cozzi, Gabriella Orsi, Maria Messina, Daniela Conti (gruppetto di amici di Marzabotto e dintorni: Una pagina di Illich da leggere
Luigi Finelli: Illich e Platone – Riflessioni di uno s-docente di filosofia
Claudio Orrù e Matteo Chinosi (Varese): Beni comuni? Commons? Ambiti di comunità? – La difficoltà di descrivere il “fare comune” attraverso il linguaggio odierno
Pino De March (Comunimappe, Bologna): Illich, Marx, Polanyi e i Beni Comuni
Paolo Bosco (Comunimappe, Bologna): Il gigante dalle gambe di argilla non può fallire – Oltre il concetto di morfologia applicato alla realtà sociale, Illich e la sua eredità oggi.
Giusi Lumare (Banca del Tempo Momo, Bologna): Pratiche sociali di reciprocità
Salvatore Panu: Pratiche dell’autogestione collettiva ed estorsione istituzionale
Parteciperanno inoltre
Aldo Zanchetta (Lucca), Moreno Morara (San Lazzaro di Savena), Mauro De Filippo (Bologna) ed altr*…
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APPROFONDIMENTI
DISOCCUPAZIONE CREATIVA
Ivan Illich
Prefazione.
Nell’ultimo decennio ho preparato e pubblicato un certo numero di saggi (1) sul modo di produzione industriale. Durante questo periodo mi sono soprattutto occupato dei processi attraverso i quali una crescente dipendenza da beni e servizi prodotti in serie elimina a poco a poco le condizioni necessarie per una vita conviviale.
Ciascun saggio, nell’esaminare un settore diverso della crescita economica, dimostra una regola generale: i valori d’uso vengono ineluttabilmente distrutti quando il modo di produzione industriale raggiunge quel predominio che io ho chiamato monopolio radicale. Questo saggio e quelli che lo precedono descrivono in che modo la crescita industriale produce la versione moderna della povertà. Questo tipo di povertà fa la sua apparizione quando l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia. Sul piano soggettivo, essa è quello stato di opulenza frustrante che s’ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale. Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà e del potere di agire autonomamente, di vivere in maniera creativa; le riduce a sopravvivere grazie al fatto di essere inserite in relazioni di mercato. Questo nuovo tipo d’impotenza, proprio perché vissuta a un livello così profondo, difficilmente riesce a trovare espressione. Siamo testimoni di una trasformazione appena percettibile del linguaggio corrente, per cui verbi che una volta indicavano azioni intese a procurare una soddisfazione vengono sostituiti da sostantivi che indicano prodotti di serie destinati a un mero consumo passivo: imparare, per esempio, diventa acquisto di un titolo di studio.
Traspare da questo un profondo cambiamento dell’immagine che gli individui e la società si fanno di se stessi. E non è solo il profano che fa fatica a descrivere con precisione ciò che avverte. L’economista di professione non sa riconoscere quella povertà che i suoi strumenti convenzionali non sono in grado di rilevare.
Il nuovo fattore di mutazione dell’impoverimento continua tuttavia a diffondersi. L’incapacità, peculiarmente moderna, di usare in modo autonomo le doti personali, la vita comunitaria e le risorse ambientali infetta ogni aspetto della vita in cui una merce escogitata da professionisti sia riuscita a soppiantare un valore d’uso plasmato da una cultura. Viene così soppressa la possibilità di conoscere una soddisfazione personale e sociale al di fuori del mercato.
Io sono povero, per esempio, una volta che per il fatto di abitare a Los Angeles o di lavorare al trentacinquesimo piano abbia perduto il valore d’uso delle mie gambe. Questa nuova povertà generatrice d’impotenza non va confusa col divario fra i consumi dei ricchi e dei poveri, sempre maggiore in un mondo in cui i bisogni fondamentali sono sempre più determinati dai prodotti industriali.
Tale divario è la forma che la povertà tradizionale assume in una società industriale, e che i termini tradizionali della lotta di classe adeguatamente mettono in luce e riducono. Distinguo altresì la povertà di tipo moderno dai prezzi gravosi imposti dalle esternalità che gli accresciuti livelli di produzione rigettano nell’ambiente. E’ chiaro che questi tipi di inquinamento, di tensione e di carichi fiscali sono ripartiti in maniera ineguale, e che in maniera altrettanto ineguale sono distribuite le difese da tali depredazioni. Ma, come i nuovi divari in fatto di accesso, anche queste iniquità dei costi sociali sono aspetti della povertà industrializzata per i quali è possibile trovare indicatori economici e verifiche oggettive. Non è così invece per l’impotenza industrializzata, che colpisce indifferentemente ricchi e poveri. Dove regna questo tipo di povertà, è impedito o criminalizzato qualsiasi modo di vivere che non dipenda da un consumo di merci. Fare a meno di consumare diventa impossibile, non soltanto per il consumatore medio ma persino per il povero. A nulla servono tutte le varie forme di assistenza sociale, dalle azioni positive alla formazione professionale. La libertà di progettare e farsi a modo proprio la propria casa è soppressa, sostituita dalla fornitura burocratica di alloggi standardizzati. negli Stati Uniti come a Cuba o in Svezia. L’organizzazione dell’impiego, della manodopera qualificata, delle risorse edilizie, i regolamenti, i requisiti necessari per ottenere credito dalle banche, tutto porta a considerare l’abitazione come una merce anziché un’attività. Che poi questa merce sia fornita da un imprenditore privato o da un “apparatcik” (denominazione della burocrazia statale nel vecchio sistema sovietico – ndr), il risultato concreto è sempre lo stesso: l’impotenza del cittadino, la nostra forma, specificatamente moderna, di povertà.
Ovunque si posi l’ombra della crescita economica, noi diventiamo inutili se non abbiamo un impiego o se non siamo impegnati a consumare; il tentativo di costruirsi una casa o di mettere a posto un osso senza ricorrere agli specialisti debitamente patentati è considerato una bizzarria anarchica. Perdiamo di vista le nostre risorse, perdiamo il controllo sulle condizioni ambientali che le rendono utilizzabili, perdiamo il gusto di affrontare con fiducia le difficoltà esterne e le ansie interiori. Porterò l’esempio di come nascono oggi i bambini nel Messico: partorire senza assistenza professionale è divenuta una cosa impensabile per le donne i cui mariti hanno un impiego regolare e che possono perciò accedere ai servizi sociali, per marginali o inconsistenti che questi siano. Esse si muovono ormai in ambienti dove la produzione di bambini rispecchia fedelmente i modelli della produzione industriale. Tuttavia le loro sorelle che vivono nei quartieri dei poveri o nei villaggi degli isolati si sentono ancora perfettamente capaci di partorire sulle loro stuoie, senza sapere che rischiano una moderna imputazione di negligenza colposa nei confronti dei propri bambini. Man mano però che i modelli di parto promossi dai professionisti arrivano anche a queste donne indipendenti, vengono distrutti il desiderio, la capacità e le condizioni di un comportamento autonomo.
In una società industriale avanzata, la modernizzazione della povertà vuol dire che la gente non è più in grado di riconoscere l’evidenza quando non sia attestata da un professionista, sia egli un meteorologo televisivo o un educatore; che un disturbo organico diventa intollerabilmente minaccioso se non è medicalizzato mettendosi nelle mani di un terapista; che non si hanno più relazioni con gli amici e col prossimo se non si dispone di veicoli per coprire la distanza che ci separa da loro (e che è creata prima di tutto dai veicoli stessi).
Insomma veniamo a trovarci, per la maggior parte del tempo, senza contatti con il nostro mondo, senza possibilità di vedere coloro per i quali lavoriamo, senza alcuna sintonia con ciò che sentiamo.
Questo saggio è un poscritto al mio libro “La convivialità” (Mondadori, Milano, 1974; ora red edizioni, Como, 1993).
Rispecchia i cambiamenti avvenuti nel decennio trascorso, sia nella realtà economica sia nel mio modo d’intenderla. Parte dalla convinzione che si è avuto un aumento piuttosto notevole dei poteri non tecnici, cioè rituali e simbolici, dei nostri maggiori sistemi tecnologici e burocratici, con una corrispondente diminuzione della loro efficacia scientifica, tecnica e strumentale. Nel 1968 era ancora abbastanza facile liquidare ogni resistenza organizzata dei profani al dominio dei professionismo come un mero ripiegamento su fantasie romantiche, oscurantiste o snobistiche. La valutazione che io facevo allora dei sistemi tecnologici, guardando le cose dai basso e a lume di buon senso, appariva infantile o reazionaria ai leader politici dell’attivismo civico e ai professionisti radicali che accampavano il diritto alla tutela dei poveri in virtù dei loro specifici saperi.
La riorganizzazione della società industriale intorno a bisogni, problemi e soluzioni definiti da professionisti era ancora il criterio di valore comunemente accettato, implicito in sistemi ideologici, politici e giuridici che per altro verso erano in netta e talora violenta opposizione tra loro. Il quadro ora è cambiato. Oggi, simbolo di competenza tecnica avanzata e illuminata è la comunità, il quartiere, il gruppo di cittadini che, fiduciosi nelle proprie forze, si dedicano ad analizzare sistematicamente e di conseguenza a ridicolizzare i bisogni, i problemi e le soluzioni definiti sulle loro teste dagli agenti delle istituzioni professionali. Negli anni sessanta l’opposizione dei profani ai provvedimenti pubblici basati sulle opinioni degli esperti pareva ancora fanatismo antiscientifico. Oggi la fiducia dei profani nelle scelte politiche basate su tali opinioni è ridotta al minimo. Sono migliaia ormai coloro che fanno le proprie valutazioni e s’impegnano, con molti sacrifici, in un’azione civica sottratta a qualunque tutela professionale, procurandosi le informazioni scientifiche di cui hanno bisogno con sforzi personali e autonomi.
Rischiando a volte la pelle, la libertà e la rispettabilità, esprimono un nuovo e più maturo atteggiamento scientifico. Sanno, per esempio, che la qualità e la quantità delle prove tecniche bastanti per dire di no alle centrali nucleari, alla moltiplicazione delle unità di cura intensiva, all’istruzione obbligatoria, al controllo fetale a mezzo monitor, alla psicochirurgia, alle cure con elettroshock o all’ingegneria genetica sono tali che il profano può recepirle e utilizzarle. Dieci anni fa la scolarizzazione obbligatoria era ancora protetta da potenti tabù.
Oggi i suoi difensori sono quasi esclusivamente fra gli insegnanti, che ne dipendono per l’impiego, oppure tra gli ideologi marxisti che difendono i detentori di sapere professionali in una fantomatica battaglia contro la borghesia d’avanguardia.
Dieci anni fa i miti circa l’efficacia delle istituzioni sanitarie moderne erano ancora incontestati. Quasi tutti i testi di economia recepivano la convinzione che l’attesa di vita degli adulti fosse in aumento, che la cura del cancro procrastinasse la morte, che la disponibilità di medici avesse come risultato un più alto tasso di sopravvivenza infantile. Da allora a oggi, la gente ha scoperto ciò che le statistiche demografiche avevano sempre mostrato: che l’attesa di vita degli adulti non è cambiata in misura socialmente significativa nel corso delle ultime generazioni; che nella maggior parte dei paesi ricchi è oggi inferiore a quella del tempo dei nostri nonni, e persino a quella che si registra in molti paesi poveri.
Dieci anni fa era ancora un obiettivo prestigioso l’accesso universale alla scuola post-secondaria, all’istruzione per gli adulti, alla medicina preventiva, alle autostrade, a un villaggio globale imperniato sull’elettrodomestico. Oggi i grandi rituali “mitopoietici” organizzati intorno all’istruzione, ai trasporti, all’assistenza sanitaria e all’urbanizzazione sono stati in parte demistificati. Non sono stati però ancora abrogati. I costi occulti e gli accresciuti divari nei consumi sono aspetti certamente importanti della nuova povertà, ma io guardo soprattutto a un altro elemento concomitante della modernizzazione: il processo per cui non c’è pressoché nessuno che non veda erosa la propria autonomia, spenta la propria capacità di soddisfazione, appiattita la propria esperienza e frustrati i propri bisogni. Ho esaminato, per esempio, gli ostacoli che nell’intera società si oppongono alla presenza reciproca e che sono inevitabili effetti collaterali di un tipo di trasporto ad alta intensità di energia. Ho voluto definire i limiti di potenza dei veicoli a motore equamente usati per accrescere le possibilità di contatto tra le persone. Ho ovviamente constatato che le alte velocità impongono necessariamente un’impari distribuzione dei fastidi, del rumore, dell’inquinamento, nonché del godimento dei privilegi. Ma non è su questo che ho posto l’accento. Il mio discorso si accentra sulle internalità negative della modernità: l’accelerazione che fa sprecare tempo, l’assistenza sanitaria che produce malati, l’istruzione che istupidisce. La distribuzione ineguale dei benefici surrogati o l’ineguale imposizione delle loro esternalità negative non sono che corollari della mia tesi di fondo.
M’interessano in questi saggi le conseguenze dirette e specifiche della povertà modernizzata, la capacità dell’uomo di sopportarle e il modo per sfuggire alla nuova miseria. Io condivido con altre persone il desiderio profondo di maggiore giustizia. Sono assolutamente contrario all’ingiusta distribuzione di ciò che può essere genuinamente e piacevolmente condiviso. Ma in questi ultimi anni mi è parso necessario esaminare attentamente gli obiettivi di qualsiasi proposta redistributiva.
Oggi vedo il mio compito con maggiore chiarezza di quando cominciai a scrivere e parlare della mitopoiesi controproduttiva latente in ogni progetto industriale recente. Il mio scopo è stato quello di scoprire e denunciare la falsa ricchezza che è sempre ingiusta perché può avere soltanto effetti frustranti. Mediante questo tipo di analisi si può porre le basi della teoria che dovrebbe ispirare la rigenerazione sociale possibile per l’uomo del ventesimo secolo. Durante questi ultimi anni ho ritenuto necessario sottoporre a un riesame continuo la relazione tra la natura degli strumenti e il concetto di giustizia che prevale nella società che li adopera. Ho dovuto constatare come la libertà declini laddove i diritti sono formulati dagli esperti. Ho avuto modo di misurare che cosa comporta il cambio tra gli strumenti nuovi che spingono ad aumentare la produzione di merci, e quelli altrettanto moderni che permettono di generare valori col loro uso; tra il diritto a merci prodotte su scala di massa e il livello di libertà che permette un’espressione personale soddisfacente e creativa; tra l’impiego pagato e la disoccupazione utile. E in tutti gli aspetti di questa sostituzione della gestione “eteronoma all’attività” autonoma, mi accorgo quanto sia difficile recuperare un linguaggio che ci permetta di porre l’accento su quest’ultima.
Come i lettori ai quali intendo rivolgermi, sono un così convinto e impegnato sostenitore d’un accesso radicalmente equo ai beni, ai diritti e ai posti di lavoro che mi sembra quasi superfluo insistere sulla nostra battaglia per questo aspetto della giustizia. Trovo molto più importante, e più difficile, affrontare il suo complemento, la politica della convivialità. Uso questo termine nell’accezione tecnica che gli ho dato in La “convivialità”, intendendo cioè la lotta per un’equa distribuzione della libertà di generare valori d’uso, e per una strumentazione di tale libertà che sia ottenuta mettendo al primo posto assoluto la produzione di quei beni e servizi industriali e professionali che conferiscano ai meno avvantaggiati il massimo potere di generare valori nell’uso. Un indirizzo politico nuovo, conviviale, si fonda sulla convinzione che in una società moderna tanto la ricchezza quanto i posti di lavoro possono essere condivisi equamente e goduti nella libertà solo ponendo loro dei limiti mediante un processo politico. Forme eccessive di ricchezze e impieghi formali prolungati, per quanto ben distribuiti, distruggono le condizioni sociali, culturali e ambientali di un’eguale libertà produttiva. I “bit” e i “watt”, che qui vogliono dire, rispettivamente, le unità di informazione e di energia, se forniti sotto forma d’un qualunque prodotto di serie in quantità che superino una certa soglia-limite, diventano inevitabilmente ricchezza depauperante. La ricchezza o è troppo rara per poter essere spartita o distrugge la libertà e le libertà dei più deboli.
Con i miei saggi, ho cercato di dare un contributo al processo politico che deve portare i cittadini a riconoscere le soglie socialmente cruciali dell’arricchimento e a tradurle in tetti o limiti validi per l’intera società.
NOTE alla prefazione.
Nota 1: “Descolarizzare la società”, Mondadori, Milano, 1972.
“La convivialità”, Mondadori, Milano, 1974 (ora red edizioni, Como, 1993).
“Energia ed equità”, in “Per una storia dei bisogni”, Mondadori, Milano 1981.
“Nemesi medica”, Mondadori, Milano, 1977 (ora red edizioni, Como, 1991).
Perché si pagano le tasse? Esiste una relazione tra tasse e debiti? A queste domande dare una risposta semplice è impossibile. Tante strade si aprono appena si prova a riflettere.
Le tasse si pagano perché in cambio si hanno dei servizi; così viene spiegata comunemente la questione. Con le tasse però si paga anche il debito pubblico, anzi, con l’aria che tira ai nostri giorni la tendenza è quella di pagare prima il debito e poi con le rimanenze far fronte ai servizi. E siccome di soldi c’è ne sono sempre meno, i servizi come istruzione e sanità si riducono qualitativamente. Di questo passo, se la logica ha ancora cittadinanza, e considerando l’accettazione supina della classe dirigente del concetto di debito composto o anatocismo, il destino già segnato è il fallimento sociale.
Vediamo di dare uno sguardo alle nostre spalle. Nelle città stato dell’antichità si poteva finire facilmente schiavi per debiti. Da uomini liberi a schiavi il passo avveniva perché un individuo incominciava a non avere più la capacità di rimborsare il proprio debito. Ad esempio, un contadino poteva essere costretto da un’annata difficile a chiedere un prestito, se negli anni successivi aveva messi ricche, tutto si risolveva, ma se per qualche motivo si presentavano altre annate dannate dalla siccità, allora era facile entrare nel circuito infernale dei debiti insoluti che aumentano inesorabilmente. Lo stesso può dirsi di un commerciante o di un possidente che per vari motivi si trova in difficoltà e costretto a chiedere un prestito. Tutto ciò, se reiterato e generalizzato per un gran numero di cittadini, poteva portare alla dissoluzione di quella società. Infatti il contadino che si vedeva in difficoltà, difronte alla prospettiva di finire schiavo, preferiva smettere di coltivare, abbandonare in tempo il suo terreno e darsi alla macchia, magari affiliandosi a qualche banda che scorrazzava nelle aree impervie o nelle foreste, la conseguenza era che aumentavano i campi incolti. Il passaggio dalla civiltà alla barbarie in questo caso, se la faccenda dei debiti diventava generalizzata, era inevitabile. Aumentando il numero di cittadini che finivano schiavi e incrementandosi il numero di bande dedite al delitto e alla rapina, non poteva che aversi il disfacimento di quello che con molta fantasia è stato chiamato “contratto sociale”. La soluzione era quella di “metterci una pietra sopra”; periodicamente i debiti dei privati venivano azzerati, così molti briganti per necessità potevano tornare alle loro campagne e coltivarle, con il vantaggio per la collettività e la sola perdita di un singolo usuraio.
Nel passato, rimaniamo sul generico e ipotizziamo solo un’epoca grosso modo contemporanea alla storia di Roma (700 a.c. – 400 d.c.), per costituire e mantenere un esercito vi erano enormi difficoltà. Per potersi permettere un esercito, cioè avere a disposizione ad esempio ventimila uomini armati, ad un monarca era necessario destinare almeno altrettanti occupati al loro mantenimento. Diversamente un esercito poteva ripagarsi e dunque riprodursi con il diritto di saccheggio concesso a loro da chi li assoldava. Ma il saccheggio, a parte le violenze e gli stupri e l’immediato banchetto successivo alla battaglia, voleva dire portarsi dietro animali e cose piuttosto ingombranti; a meno che non si trattasse di metalli ed oggetti preziosi. Vi era un modo molto semplice per ovviare a queste difficoltà: pagare un esercito di mercenari direttamente con una moneta con il conio del re. Il sistema trovava il suo equilibrio nel momento che quest’ultimo accettava la moneta come modalità per pagare le tasse; questo permetteva al re di stipendiare l’esercito che a sua volta poteva rifornirsi tranquillamente e senza altre questioni logistiche di tutto il necessario dalla popolazione. Cosa ci dice questo? Che emettendo una moneta e accettandola come pagamento delle tasse era possibile costituire un esercito. La forma primordiale dello stato si completava in un potere in mano a pochi, un esercito e un territorio sottoposto all’autorità (ma anche alla protezione). Inoltre, e non è secondario, si avviava una forma di mercato, dove tutti, e non solo gli stipendiati militari, si scambiavano merci e servizi con la stessa moneta circolante. Forse il re non aveva pensato a questa seconda conseguenza, ma ciò non significa nulla. Le faccende che noi consideriamo storiche, in fondo, sembra che siano frutto di un misto di casualità e contingenza; si mischia sempre, nelle dinamiche umane, un poco di caos con la determinazione di qualcuno. Quello che poi avviene a volte è prevedibile, a volte no.
Supponiamo che in un territorio vi sia uno stato un tantino assente (tanto per rendere più credibile il tutto immaginiamo un’isola di forma triangolare) dove alcuni, che si sono costituiti in gruppo e sono disposti ad usare la forza, impongano il pagamento di un pizzo. Questi signori del pizzo, con la ricchezza accumulata dovranno pur fare qualcosa, anche se inizieranno con il migliorare la propria qualità della vita, facendosi costruire piscine e carrozze, avranno comunque redistribuito quanto estorto alla collettività ad artigiani e portatori d’acqua. Avranno inoltre questi signori la necessità di reperire gli artigiani competenti se non ci sono in loco. Forse dovranno mandare i loro figli a studiare, per poi erigere scuole dove formare quelli che dovranno costruire gli oggetti e quanto serve perché sia resa la loro esistenza gradevole. In tutti questi casi avranno comunque stimolato la nascita di un mercato, avranno acceso il motore che strapperà dalla tendenziale inerzia gli individui.
Può sembrare questo un discorso che legittima le associazioni malavitose e sminuisce l’autonoma capacità degli individui di intraprendere iniziative che migliorino se stessi e la collettività. Oppure si può cogliere in quanto detto una sorta di genesi, un possibile inizio di una qualsiasi entità statuale. In questo caso dovrebbe dedursi che gli stati possono anche nascere a partire da un gruppo malavitoso. Vi è pure un’altra faccia della medaglia: i soldi accumulati col pizzo potranno essere dati in prestito; la forza del gruppo, la possibilità di riscuotere il debito in ogni caso, renderà facile avere il prestito perché a garantire non ci sarà la solvibilità del soggetto ma la certezza di poter disporre della sua vita se necessario. Comunemente ai giorni nostri questo si chiama strozzinaggio, ma il confine tra prestiti “legali” e prestiti “strozzini” non sempre è segnato in maniera netta. E siccome non tutti saranno insolventi o per contro non si potranno uccidere tutti i debitori, bisognerà prima o dopo far girare la ruota e rimettere in piedi un nuovo stato, oppure un esercito o stabilire delle regole per evitare di scivolare nel caos; questa ultima ipotesi oggi, in cui tutto ha dimensione planetaria e non più locale, significherebbe l’auto-distruzione dell’umanità, il suo dissolvimento, anche se individualmente nessuno lo vuole.
Esiste un legame indissolubile tra tasse, debiti, stato e regole condivise. Quando questi elementi incominciano ad avere valori incompatibili o muore la società che li ospita o essi elementi andranno ridefiniti. Una faccenda facile a dirsi ma complessa in misura della complessità in cui si aggroviglia la società.
Paolo Bosco
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P.S. questo articolo è stato scritto grazie ad un debito contratto dall’autore con un libro di David Graeber, Debito, ed. italiana Il Saggiatore. Inoltre piccole quote di debito si possono far risalire a qualche insegnate dei tempi andati, ad altri libri letti, alle discussioni tra adulti ascoltate negli anni dell’adolescenza etc. etc. – Esistono debiti estinguibili, altri, come quelli che costituiscono il nostro bagaglio culturale, non è possibile ripagarli. Essi ci suggeriscono semmai di essere a nostra volta generosi verso gli atri. A dispetto di chi pensa che le relazioni siano delle transazioni contabili, che tutto sia misurabile ed anche che esista una reciprocità perfetta.
IMMAGINE TRATTA DA http://nickcernak.com/2011/10/27/occupy-inspired-art-posters/
Tutti conoscono il gioco del Monopoli, gioco ritenuto con qualche approssimazione ispirato alle regole del capitalismo. Ma definire cosa sia il capitalismo non è cosa semplice, forse è possibile sintetizzarlo nella formula denaro – merce – denaro, il che vuol dire che comprando una merce col mio denaro ne ricavo una quantità maggiore nel momento in cui rivendo quella merce. C’è però un’altra questione affine al capitalismo: il denaro che produce altro denaro, cioè la speculazione, cioè guadagnare il diritto di comprarsi da vivere senza lavorare (a meno che speculare venga considerato un lavoro). Ma di questo parleremo tra poco.
Tornando al gioco del Monopoli e alla sua relazione con il capitalismo salta subito agli occhi una considerazione, la quale è di una ovvietà tale che assomiglia a quelle evidenze talmente plateali da non essere riconoscibili (come una mosca fatica a capire di essere sul dorso di un elefante quando si posa su di esso), l’evidenza è questa: vince a Monopoli chi manda in rovina tutti gli altri giocatori, vince chi possiede tutto. Ma nel momento che possiede tutto un solo giocatore finisce il gioco. Così è presumibile che il gioco del capitalismo finirà quando un solo mega super riccone, o una famiglia, o una corporazione manderà tutti gli altri in rovina avendo acquistato tutto. Bisogna però aggiungere che per attenuare questo fenomeno (che altrimenti si sarebbe forse già realizzato) chi ha vinto molto, per evitare la fine del gioco, presta il suo capitale in cambio di un interesse agli altri giocatori – denaro che produce altro denaro – rimandando la fine a un tempo indeterminato.
Il Monopoli sembra che abbia radici che prendono linfa da più sperimentazioni di singoli individui ma le basi del gioco si rifanno alla teoria economica di Henry George, il così detto georgismo. Questa teoria parte dalla considerazione che tutto quello che si trova in natura (terra e beni immobili creati nel tempo) appartiene all’intera umanità, mentre il frutto del lavoro individuale appartiene al lavoratore. Da qui l’idea che il prelievo fiscale dovrebbe avvenire su chi ha in uso o in comodato beni naturali, mentre il lavoro dovrebbe essere privo di tassazione. Infatti nel Monopoli si versa ad ogni giro una tassa su quanto posseduto.
Ma adesso lasciamo il gioco e affrontiamo la realtà, a partire da quella storica. Nei secoli i beni naturali sono stati oggetto di appropriazione, di accaparramento, di privatizzazione. E ad esse sono seguite guerre per difendere o appropriarsi di quanto altri avevano conquistato. Con la stabilizzazione della proprietà privata (epoca della borghesia) si è passati a ritenere quest’ultima come un dato naturale e la sua regolamentazione attraverso le leggi come la soluzione a tutti i mali. Anche la nascita degli stati nazionali segue la stessa logica, ed anche la costituzione dei catasti per avere una certezza sui possedimenti e sui possessori.
Il capitalismo prende piede da questi processi, tra la razionalizzazione analitica dei processi produttivi (grazie anche alle scoperte tecnologiche), facendo evolvere il lavoro artigianale in lavoro operaio guidato da un imprenditore, e il loro utilizzo per generare ricchezza: l’economia reale ad uso della speculazione finanziaria.
Una domanda sempre valida è la seguente: a cosa serve la finanza e la speculazione? A cui si può rispondere in molti modi, astrusi se derivano da addetti ai lavori, semplici se ricercate nell’osservare le vicende e i fatti. Il mondo finanziario è nato con la costituzione delle assicurazioni, cioè la possibilità di assicurare un bene contro la sua perdita accidentale. Già i veneziani, per evitare le rovine che potevano avvenire dalla perdita di una nave carica di spezie provenienti da oriente, avevano inventato lo stratagemma di assicurare la nave. Conveniva a tutti i mercanti pagare una cifra per ogni carico e non rischiare la perdita di un intero carico anche una sola volta, evento che significava la rovina della propria impresa commerciale. Ugualmente gli artigiani che lavoravano i metalli preziosi (siamo sempre verso la fine del medioevo) si erano trasformati in depositari delle ricchezze di coloro che temevano a lasciarli incustoditi nelle loro abitazioni. In entrambe i casi abbiamo un accantonamento di risorse, un patrimonio che certamente dispiaceva lasciare inoperante e che smuoveva grossi appetiti. Lo stratagemma appena descritto era nato per garantire tutti senza distinzione, come la creazione dei magazzini per accantonare le scorte alimentari nelle società precedenti i Grandi Imperi, era utile per superare senza gravi conseguenze i periodi di carestia.
Questo è il solo utile scopo che giustifica l’esistenza del mondo della finanza. Ed è talmente prezioso che ha fatto gola a coloro che delle risorse finanziarie erano grandi detentori. Un tale sistema per la sua natura sociale dovrebbe essere controllato dal pubblico, poiché è l’equivalente di un potente strumento tecnologico, simile a una bomba atomica, che se dato in mano ai privati può essere usata contro l’umanità. Purtroppo da sempre in mano ai privati, lo strumento finanziario è il principe dei sistemi per sfruttare e governare in maniera assoggettante le popolazioni. Il controllo dei magazzini determinò la nascita di una casta di privilegiati e la figura del re/imperatore; il controllo della finanza e la speculazione, tramite grandi masse di ricchezza monetaria (compresa la moneta virtuale), ha creato la grande borghesia e le ristrette famiglie di potentissimi banchieri.
La leva finanziaria ha la capacità di stimolare l’economia reale (come una sniffata di anfetamina) ma esagerando si cade nella dipendenza; il che vuol dire nella possibilità di fluttuare tra un up e un down, che è l’andamento tipico delle crisi a cui siamo abituati. Se la leva della finanza fosse sotto il controllo pubblico si potrebbe evitare questo alternarsi di alti e bassi dell’economia, poiché non ci sarebbe nessuna necessità di speculare. Infatti la speculazione serve per trasferire nei momenti “down” ingenti ricchezze dalle mani di tanti a quelle dei pochi speculatori. Ma il controllo pubblico non è di per se una panacea, specie se il pubblico poi equivale ad un controllo di gruppi ristretti e di massonerie che dietro le quinte muovono le pedine e gestiscono concretamente la macchina statale. Il pubblico significa bene supremo, in quanto appartiene a tutti, e perciò dovrebbe essere circondato da una considerazione sociale di altissimo profilo. Il pubblico non significa una cosa che, non essendo di nessuno nello specifico, è a disposizione del primo prepotente approfittatore. Il pubblico dovrebbe essere curato e gestito in maniera controllata e diretta dal basso, come la più sofisticata strategia democratica. Dovrebbe essere preservato da ogni appetito privato, coscienti che appartiene all’umanità nel suo insieme, passata, presente e futura, e non di volta in volta al rapace di turno. La gestione del pubblico è oggi la misura del grado di democrazia raggiunto e di quello che si vuole raggiungere.
Non ci deve essere posto per il mercato quando si tratta dei beni comuni fondamentali alla vita di tutti, quando rappresenta la garanzia per la dignitosa sopravvivenza di una umanità sempre più in pericolo di estinzione o, nel caso migliore, a rischio di guerre e carestie per la pressante crisi ambientale dentro cui ci troviamo.
Mettiamo in moto la zucca potrebbe essere una raccomandazione, il consiglio dato da un padre o una madre, il senso comune portato a sistema per auto-governarsi.
Mettiamo in moto la zucca è un libero comitato nato a Bologna, nel quartiere Bolognina, promosso da un gruppo di genitori preoccupati del cattivo stato del parco della Zucca.
L’inizio di questa storia assomiglia a tanti altri casi simili: prima di tutto appare la parola degrado.
Il parco, come purtroppo avviene in tanti altri luoghi pubblici, rischiava il degrado a causa della scarsa manutenzione; nonostante fosse il luogo dove tanti bambini e genitori vi passano le ore pomeridiane diventava gradualmente meno sicuro. Il taglio alla spesa pubblica riducendo gli interventi rischiava di lasciare questo, come tanti altri luoghi della città, in balia del caso e privo di progettualità. Ad aggravare la situazione la crisi economica e la disoccupazione crescente che colpisce le fasce più deboli e gli immigrati. Se un parco tende a degradarsi per motivi economici e sociali cosa si può fare per cambiare rotta? Alcuni chiederanno più controlli, più polizia. Appello all’apparenza ragionevole. Ma è possibile per qualsiasi amministrazione pubblica soddisfare questa richiesta? E soprattutto, è possibile militarizzare per dare più sicurezza? A guardare negli archivi della ragione (e della storia) la sicurezza militare di un territorio si può dare solo attraverso il coprifuoco. Se le persone che si trovano in giro sono solo coloro che disattendono un provvedimento di coprifuoco, allora è possibile il controllo di quel territorio. In un ambiente dove non circola nessuno, chi lo fa è palesemente un potenziale colpevole. Altri (ed è il caso dei genitori associati) hanno pensato di usare una strategia opposta: si sono messi in movimento (felice il connubio tra nome del parco e il doppio senso che acquista come nome per associarsi) rimboccandosi le maniche e hanno proposto all’amministrazione di assecondare la loro azione risanatrice. Questo è un caso emblematico di gestione condivisa di un bene comune.
Mettiamo in moto la Zucca ( qui il link ) da oltre un anno promuove insieme alle realtà sociali del territorio iniziative che puntano a rendere fruibile lo spazio pubblico, sicuri i giochi per i bambini, aperta e solidale la fruizione del parco.
ComuniMappe partecipa con un proprio contributo all’iniziativa che si terrà il prossimo
31 maggio
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Una breve cronistoria del comitato Mettiamo in moto la Zucca!
L’idea del comitato Mettiamo in moto la zucca! è nata in un assolato pomeriggio del settembre 2011 quando un piccolo gruppo di cittadini/e del quartiere della Bolognina che da tempo si ritrovavano al Parco con i/le propri/e bambini/e, ha sentito l’esigenza di cominciare a ragionare su come rendere questo piccolo ma prezioso spazio verde un luogo dove fosse sempre più piacevole incontrarsi, giocare, chiacchierare e creare momenti di socialità e condivisone fra tutti e tutte. Ai primi di ottobre abbiamo lanciato l’idea di un incontro pubblico per discutere insieme ad amministratori locali, altre realtà da tempo attive sul territorio (Centro Sociale Montanari, Casaralta Che Si Muove, Museo di Ustica) ed abitanti del quartiere su come valorizzare il Parco.
Nel volantino scrivevamo:
Piuttosto che solo lamentarci del “degrado” e trovare facili capri espiatori, vogliamo rimboccarci le maniche e lavorare insieme affinché il Parco diventi un luogo che sia sempre più piacevole frequentare. Vogliamo partire da piccole cose: la cura del verde, il potenziamento dell’area giochi e dell’arredo del parco (cestini per la raccolta differenziata dei rifiuti, panchine, tavoli per pic-nic …) e l’organizzazione di iniziative, ludiche e culturali, che favoriscano una gioiosa e serena partecipazione di tutti gli abitanti del quartiere alla vita della Zucca.
Ed è da queste “piccole” ma importanti cose che abbiamo cominciato a lavorare, trovando l’adesione entusiasta di altri frequentatori del parco che nel corso dei mesi si sono uniti a noi e l’appoggio di altre realtà attive nel territorio, come il Centro Sociale Montanari e Casaralta Che Si Muove, realtà con le quali il 18 dicembre 2011 abbiamo animato l’iniziativa C’è una zucca sotto l’albero!
Nell’ambito della Festa di Primavera organizzata tutti gli anni dal Centro Sociale Montanari, il 30 aprile 2012 abbiamo organizzato un incontro pubblico con gli amministratori del Quartiere e rappresentanti dell’Ufficio Verde del Comune per porre loro la questione del rinverdimento del Parco.
Il 6 giugno 2012 abbiamo organizzato la prima festa di Mettiamo in moto la Zucca!al Parco della Zucca, in collaborazione con il Centro Sociale Montanarie con il patrocinio del Quartiere Navile. Il ricavato della festa, che ha visto la partecipazione di tantissime famiglie, è stato destinato all’acquisto di nuovi giochi ed arredi per il Parco.
Nel corso del tempo abbiamo potuto contare sulla disponibilità del Quartiere che, nonostante la cronica mancanza di fondi, è venuto incontro ad alcune nostre proposte per migliorare la vivibilità del parco: piccoli interventi di manutenzione su giochi in precarie condizioni, l’ aggiunta di una nuova rastrelliera per le biciclette e soprattutto, in corrispondenza dell’uscita pericolosa su via Ferrarese, la posa di barriere di protezione che hanno molto migliorato in termini di sicurezza la frequenza del parco di genitori con bambini/e. Inoltre a luglio 2012 sono stati collocati nel Parco due nuovi giochi frequentatissimi dai bambini più grandi.
Durante il week-end del 21-22 ottobre 2012 abbiamo organizzato l’iniziativa Streghe, scope e colori, patrocinata dal Quartiere Navile.Sabato 21 ottobre, nei locali delCentro Sociale Montanarisi è tenuto un laboratorio di streghe: piccole mani di bambini/e aiutate da mani di adulti, hanno impastato, steso, tagliato la pasta per fare delle buonissime streghette poi infornate e portate a casa in deliziosi sacchetti con la ricetta. Il giorno dopo – una bellissima domenica di sole – abbiamo organizzato insieme con Legambiente Bologna una pulizia del Parco della Zucca . Insieme a tanti bambini/e e adulti abbiamo raccolte montagne di cicche, carta, plastica ed anche vetri di bottiglia così pericolosi in un parco in cui bambine e bambini corrono, giustamente spensierati, senza il timore di poter cadere su oggetti che possono mettere a rischio la loro incolumità. Infine un pranzo conviviale e campestre con tutti/e coloro che hanno accolto il nostro invito ha concluso la giornata.
Dopo la pulizia del Parco abbiamo chiesto al Quartiere e all’Ufficio Verde del Comune di Bologna di verificare la possibilità di installare il più celermente possibile nuovi cestini con posacenere, ed abbiamo dato la disponibilità a contribuire alla spesa attingendo dal ricavato della festa del 6 giugno.
Durante l’inverno 2012-2013 abbiamo proposto e realizzato una serie di laboratori presso lo Spazio Bimbi delle Officine Minganti.
Il 14 aprile 2013 abbiamo organizzato un’altra giornata di pulizia straordinaria del Parco, sempre in collaborazione con LegaAmbiente Bologna.
Infine il 31 maggio abbiamo organizzato, in collborazione con tante altre realtà operanti in Bolognina (Bolognina Sociale, Centro Sociale Monatanari, ComuniMappe, Dojo Equipe, Leggere Strutture, Piazza Grande) una grande festa nel parco che mostra la ricchezza e la vivacità del nostro quartiere.
Il sindaco di Bologna, la diocesi cattolica e tutte le autorità religiose non solo cittadine, l’economista Zamagni, Prodi, Matteo Renzi e tutto il pd, il pdl, il papa, l’intero arco che una volta si chiamava costituzionale e che oggi marcia contro la Costituzione ha dato indicazione per smentire ciò che dice l’articolo 33 ed hanno perso.
Un gruppo di genitori, partiti dall’indignazione nel vedersi esclusi dal diritto di accesso per i propri bambini alle materne pubbliche, è riuscita ad aggregare forze politiche e sociali e portare dentro le urne referendarie più votanti della grande coalizione di cui sopra.
Il referendum di Bologna, consultazione popolare prevista dallo statuto comunale, chiedeva senza ambiguità di esprimersi su come utilizzare le risorse pubbliche dedicate all’istruzione. Poteva essere solo un esercizio di democrazia diretta, poteva anche vedere su diverso fronte soggetti politici di uguale appartenenza, poteva dare un contributo su come si amministrano le risorse in maniera condivisa e aprire ad una partecipazione delle realtà sociali più interessate alla questione. Ed invece si è risolto tutto sul piano delle contrapposizioni, si è buttata “in politica” l’intera faccenda portandola all’attenzione nazionale, si sono cercate vittorie dal sapore disperatamente confermativo di tutto l’insieme delle intese larghe, dalle forze politiche alla chiesa universale. Questa mole mastodontica è riuscita a mobilitare un numero di cittadini misero, ed ora si schermisce e vorrebbe mettere in carico anche coloro che a votare non sono andati. Mentre i vincitori, il 60% dei votanti ha dato indicazione con il dettato dell’articolo 33, dovrebbero sentirsi perdenti.
Mettiamo in chiaro una faccenda che lo stesso Prodi ha rilevato: a votare sono andati tutti coloro interessati alla questione. Sono andati a votare le famiglie con figli in età scolare, le suore e il personale religioso, gli incalliti portatori dell’ideologia di ciascuno dei fronti. I primi han votato rivolti al fatto concreto (i figli da mandare a scuola senza doversi impiccare) i secondi han votato per salvare i soldi pubblici che ricevono annualmente (sfido chiunque a rinunciare senza battersi al dio denaro) e infine i terzi han votato per marcare il piano delle idee di entrambe le schiere.
Hanno votato per l’opzione A oltre cinquantamila persone, per la B trentacinquemila. Chi ha vinto?
Il referendum è un modo per raccogliere l’opinione dei cittadini. Ci sono questioni che riguardano tutti, problematiche settoriali che per la loro tecnicità non raccolgono l’attenzione di molti, domande rivolte in maniera incomprensibile, decisioni che viaggiano più nelle convenienze che nell’interesse pubblico, scelte che vanno ben oltre i limiti propri del problema posto. Quello che deve sopravvivere alle competizioni tra idee è il metodo con cui si raccoglie l’orientamento generale. Chi non vota ha semplicemente rinunciato a dire la sua, non lo si può tirare da una parte o dall’altra (sempre dalla parte di chi perde, chissà perché). Per migliorare la pratica del referendum, oltre ad abolire il quorum, si dovrebbe evitare l’utilizzo di argomenti e di logiche esterne al quesito. Probabilmente, come diceva Simon Weil, bisognerebbe prima abolire i partiti politici e poi dare corso alla libera fluttuazione degli schieramenti a seconda del problema posto.
«La conclusione è che l’istituzione dei partiti sembra proprio costituire un male senza mezze misure. Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista pratico lo sono i loro effetti. La soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro. E’ perfettamente legittima nel principio e non pare poter produrre, a livello pratico, che effetti positivi. I candidati non direbbero agli elettori: “Ho quest’etichetta” – il che dal punto di vista pratico, non spiega rigorosamente nulla al pubblico sul loro atteggiamento concreto relativo a problemi concreti – ma: “Penso tale, tale e tale cosa riguardo a tale, tale e tale grande problema”. Gli elettori si assocerebbero e si dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità. […] Questa soppressione estenderebbe la propria virtù di risanamento ben al di là degli affari pubblici, perché lo spirito di partito è arrivato a contaminare ogni cosa. In un paese le istituzioni che determinano lo svolgersi della vita pubblica influenzano sempre la totalità del pensiero, a causa del prestigio del potere. Siamo arrivati al punto da non pensare più, in nessun ambito, se non prendendo posizione “pro” o “contro” un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino.»
(da: “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” – Simon Weil).
Domenica 26 maggio si terrà a Bologna un referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata.
Banchetto in sostegno del quesito A al referendum sulla scuola a Bologna
17 maggio, venerdì, dalle 16
nella piazzetta antistante ilteatro Testoni – via Matteotti.
Informazioni sul referendum, interventi di esponenti della scuola, animazione e musica. Laboratorio per bambini (metodo Bruno Munari) a cura di Zoo.
Alcune considerazioni generali:
– Questo il quesito a cui il referendum chiede di rispondere:
“Quale, fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia ?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private”
Il quesito sottopone al corpo elettorale una scelta univoca tra le due seguenti opzioni di utilizzo delle suddette risorse:
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private
La scelta tra le due opzioni è in funzione di assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia.
La richiesta di referendum consultivo rispetta tutti i requisiti previsti dallo Statuto comunale e dal regolamento sui diritti di partecipazione dei cittadini.
Il sindaco di Bologna, che ha indetto il referendum perché lo statuto lo prevede, ha il compito di permettere ai cittadini bolognesi di esprimere il proprio parere. Una chiara circostanza in cui si esercita il potere di esprimere in maniera libera e certificata l’opinione generale. Una forma di democrazia diretta riconosciuta dalla costituzione.
Come sempre però la realtà complica le cose. I fautori della scelta B hanno denunciato il rischio di chiusura delle scuole private, il sindaco da super partes si è schierato trasformando il referendum in uno strano oggetto politico in cui ci mette dentro pure le sorti del PD.
Eppure dovrebbe essere chiaro che, come suggerisce in maniera non equivoca la costituzione, si tratta solo di far valere il principio della scuola pubblica (in quanto) la sola che ha il dovere di essere laica, inclusiva, per tutti. Mentre le scuole private hanno tutto il diritto di essere come meglio credono ma “senza oneri per lo stato”.
Ecco una lettera di una maestra in pensione indirizzata al sindaco Merola: Lettera
Ecco le cifre del finanziamento pubblico alle scuole private attualmente:
Nel costituire il Dipartimento della Terra abbiamo operato in piena sintonia con lo spirito dell’associazione Comunimappe. Nelle intenzioni sociali c’è al primo posto il voler intraprendere qualsiasi indirizzo del sapere umano in maniera critica. Numerosi sono gli ambiti che appartengono al sapere della terra. La terra è uno degli elementi fondamentali identificati fin dall’antichità per iniziare a fare ordine, a fare chiarezza nella nostra nebbia esistenziale. Partire dalla terra è dunque garanzia di scoperte utili in tutti i sensi, dalla naturale garanzia di sopravvivenza al benessere psico-fisico frutto della conoscenza degli organismi viventi nella loro complessità.
Dalla coltivazione di un orto non si ricavano solo ortaggi, vi si possono trovare in aggiunta alcune risposte a domande che per disabitudine non vengono più poste. Come ad esempio una riflessione sul tempo, oppure questo strano fenomeno del creare dal nulla (apparentemente) cioè vita dalla vita; ma la risposta più importante è quella che chiarisce il principio del ciclo chiuso, ovvero l’equilibrio che permette di ottenere un profitto senza intaccare il capitale basico: la terra appunto.
Per ogni operazione nell’orto c’è un tempo giusto. Un tempo dettato dalle stagioni e mediato dalla luna. Assomiglia ai mezzi di trasporto pubblico un tempo sì fatto, sapendo a che ora è la corsa si può partire senza problemi.
Da un semino minuscolo si ricavano pomodori a chili, come è possibile? Si direbbe una creazione dal nulla, una gran bella invenzione che fa ben sperare in un arricchimento facile. Molte le similitudini con la creazione di denaro dal nulla, una tecnica copiata dalla natura e stravolta dall’economia di rapina in cui siamo. Stampare banconote di carta è creare dal nulla, piantare un semino è in realtà avviare il ciclo della vita, dare la scintilla, inseminare la terra. I frutti ricavati (a differenza delle banconote o dei lingotti) vanno consumati, non possono essere nascosti per poi speculare sul loro valore.
Infine il ciclo chiuso è quello che vediamo in funzione nelle foreste vergini. Il terreno si fertilizza con la propria produzione, dentro la rotazione vita /morte. Un vero paradigma filosofico. La natura è il più attrezzato laboratorio chimico, una serie continua di combinazioni garantiscono che nessuno paghi per tutti e che tutti abbiano un vantaggio.
Come ogni Dipartimento che si rispetti anche quello della terra affianca a concetti teorici, filosofici, storici, antropologici, conoscenze pratiche scaturite dall’esperienza. Così finite le piogge invernali, con il primo sole, è stata risvegliata la terra. Cercando di non fare troppo rumore le abbiamo preparato un condotto digerente dove inserire gli scarti vegetali per mettere in pratica il ciclo del nutrimento reciproco. Abbiamo preso un fusto di plastica, lo abbiamo privato del fondo e lo abbiamo messo al centro dell’orto. Riempito di erbacce e scarti vegetali, inumidito e chiuso da un coperchio, il tubo digerente ha iniziato a chiamare gli agenti addetti alla decomposizione per indurli a dividere il tutto negli elementi costitutivi. Sono arrivati puntuali e lavorano incessantemente.
A partire da aprile ci si ritrova tutti i mercoledì e i sabato (dalle sedici in poi) nella zona ortiva di via Erbosa (vicino l’ippodromo).
Non è richiesta la presenza costante, al nucleo che gestisce il progetto si può aderire in qualsiasi momento scrivendo a:
comuneaccademia@gmail.com
(Nei post che seguiranno metteremo il programma dettagliato di ogni iniziativa, gli argomenti che porteremo all’attenzione dei soci e i progressi concreti dell’orto).
Nei tempidei tempi abbiamo umanizzato la natura. Ci siamo distaccati, da lontano l’abbiamo osservato per meglio addomesticarla. Ci siamo liberati dal giogo delle sue energie studiando e ipotizzando formule. Ci siamo ribellati alle sue regole e ne abbiamo create delle nostre, di rimando imponendole anche a lei. Non è stato un processo rapido, anzi, quasi un conflitto tra generazioni, tra madri, padri, figli, popoli, etnie. Sono state fatte tante cose, come armonizzare i fianchi delle colline, prosciugare le acquitrinose pianure, penetrare e disboscare foreste nere; si è dato sfogo a quel bisogno che è laboriosità ma anche follia e iperattività.
Si chiama agricoltura si legge semina, fecondazione assistita, innesto di mucose vegetali, fertilità. Si declina in tutto ciò che produce buoni frutti. La terra chiama a viva voce, inesorabilmente con gravità ci riconduce sempre ad essa; a chi sa ascoltare concede cibo e quiete. Le sue forme sono collirio per gli occhi, i colori luce armonizzata; la qualità dell’aria rinnova i polmoni agevolando lo sforzo necessario. Coltivando la terra si finisce col parlare alle piante, scoprirsi a osservare il cielo e sollecitare piogge e sole. Non è mai uguale al giorno prima un campo; invisibili animaletti nottetempo dissolvono i propri antagonisti, e il vento sposta spore e foglie secche. Piantine d’ogni genere, dalla linfa che risale radici e fusto, traggono crescita.