Stefano Rodotà è stato l’estensore del referendum sull’acqua. Senza la necessità di fare troppi passaggi logici si può dire che 26 milioni di italiani hanno approvato l’enunciato da lui elaborato per esprimere un’opinione di rilevante valore politico. Meglio di così per dare inizio ad un’esperienza democratica partecipata non si poteva avere. Da presidente della Repubblica, senza aspettarsi svolte rivoluzionarie, avrebbe probabilmente dato vita ad una nuova stagione democratica sensibile a istanze decisionali dirette. (Anche lo statuto della nostra associazione si ispira a suggestioni giuridiche di tutela dei beni comuni stilate da Rodotà per il teatro valle occupato.) Oggi, con la riconferma di Napolitano, questa schiarita istituzionale apparsa per un attimo lascia spazio ad una tetra e grigia nuvolosità diffusa.
Tanti sono i modi di intendere la democrazia; che non è, sia chiaro, un bene in sé. La democrazia semmai, parafrasando le parole di Simon Weil, può essere un veicolo verso il bene comune, a certe condizioni. Vi sono democrazie che fanno cose immonde (vedi in Palestina), che non per questo diventano accettabili. La democrazia che avrebbe fatto seguito ad una presidenza Rodotà sarebbe indubbiamente stata in grado di stimolare un riavvicinamento dei movimenti, delle opinioni sociali più rappresentative, alla vita politica. Quello che succederà da domani in Italia avrà poco di condiviso con una vastissima opinione pubblica. Ipocritamente si tornerà a parlare di “riavvicinare la gente alla politica”, magari mobilitando i pifferai magici che si spacciano per giornalisti o con provvedimenti di facciata.
La memoria di quanto successo in questi giorni, destinata a cancellarsi col tempo (questo sperano gli asserragliati nel palazzo – ed ancora saranno chiamati i pifferai a provvedere), bisognerà tenerla viva e farne ricorso per non dimenticare la plastica immagine del terrore transitato nel volto di tutti quei figuri, dirigenti partitici, che si sono per un attimo visti perduti se fosse collassato il pd. Tutto il sistema dei patiti li avrebbe seguiti a ruota, evidenziando dunque che il sistema si regge vicendevolmente: senza il pd non avrebbe retto il pdl, così senza il pdl non esisterebbe il pd (di conseguenza anche monti e lega sarebbero finiti nel tritacarne). Bruciando anche Prodi il pd ha gettato la mascherina: una parte dei deputati (i famosi cento) non potevano accettare nemmeno la figura dell’anti-berlusconi in salsa moderata, figuriamoci Rodotà. Il pd è un partito di ingegneri disegnatori di strategie, travestiti da riformatori, posizionati nelle retroguardie e incaricati di entrare in azione ogni qual volta il sistema va in crisi. Per loro l’ambientalismo, la dignità di chi fatica a campare, la democrazia diretta, i beni comuni, sono opzioni da usare al massimo quando serve (per i grillini Bersani pensava ad un mix di belle intenzioni, magari da buttare sul tappeto e poi lasciarle sciogliere come neve al sole). Anche le primarie le hanno considerate un momento fine a se stesso: mica dopo si prevedeva il persistere di un legame tra elettori ed eletti. Anche lo slogan “Italia bene comune” non era altro che uno schizzo propagandistico, volutamente confuso, di nazionalismo e comunitarismo.
Ieri, 20 aprile, mentre ri-eleggevano Napolitano, un violento acquazzone con tuoni e fulmini si è abbattuto su Bologna. L’aria adesso si sta schiarendo, i contorni della realtà si definiscono meglio di prima. I grilli canteranno monotoni, rimuginando sugli errori (enormi) commessi.
Le scuole popolari hanno tanto lavoro dinanzi per costruire sapere critico e una nuova schiera di intellettualità diffusa.
Comune Accademia – Osservatorio sulla democrazia diretta e di base.