PRESENTAZIONE DELL’EVENTO
1422-2022
600 anni di documentata presenza in città e di ‘ius soli'(o diritto del suolo) plurisecolare delle genti ‘romanì ‘ o rom e sinte per aver partorito una tra loro nel campo magno (ex piazza 8 agosto) un/a bambino/a ( ed in quel lontano tempo si presentarono alle autorità della città come pellegrini egiziani)
“e quisti funo li primi ‘cingani’ che mai venissero in Italia, lovvero
Egiptii”.” dalle cronache bolognesi del 1496 di Fileno della Tuata.
Stampa di quattro anni prima (1418) raffigurante l’arrivo a Basilea dei pellegrini egiziani.
Domenica 18 luglio 1422
L’arrivo dei Pellegrini-egiziani è ben documentato in modo univoco dalle cronache bolognesi del 1422, l’una la Varignana e l’altra la Rampona,e più di mezzo secolo dopo, nel 1496 , da un noto cronista Fileno dalla Tuata, che ne ripropone i contenuti trascurando l’episodio del contro-furto o della contropartita, ma aggiungendovi: “e quisti funo li primi cingani che mai venissero in Italia, ovvero Egiptii”.
Domenica 18 luglio 1422
“Anno Christi Mcccc22. Adì 18 de luglio venne in Bologna uno ducha d’Ezitto lo quale havea nome el ducha Andrea, et venne cum donne, putti et homini de suo paese; et si possevano essere ben da cento persone [….] (da Cronaca Rampona – XV sec)” el duca Andrea d’Egipto a Bologna nel1422.
Uno ducha d’Ezyto venne a Bologna adì xviii del mese de lulio, el quale avea nome el duca Andrea, e venne con donne e puti e huomeni de suo paexe, et possevano essere circha C huomeni […]” (da Cronaca della Varignana – XV sec.)
Si presentarono alla città come pellegrini, recando con sè un decreto – salvacondotto del re d’Ungheria,che assommava altre autorità quale l’investitura imperiale del Sacro Romano Impero.
Si trattava di un tal Sigismondo di Lussemburgo, re di Boemia e d’Ungheria,a quel tempo ritenuto un reale potere sovranazionale in Europa.
Tale disposto imperiale autorizzava quei pellegrini-egiziani, in quei sette anni, a viaggiare in sicurezza verso Roma, far visita al Pontefice, e farvi ritorno:
[….]per tutcti sette anni, in ogni parte che igli andasseno, che ‘l non ne posesse essere facto zustizia[…](da Cronaca Rampona – XV sec).
Con tale disposizione imperiale s’intende vincolare tutte le città e gli stati attraversati affinché si garantisca loro: la libera circolazione, l’ospitalità, l’esenzione da ogni tassa doganale, l’immunità per qualsiasi reato relativo alla sottrazione di beni necessari alla sopravvivenza dell’intera comunità. Inoltre,
per conv(i)(e)nzioni religiose, si deve provvedere all’ospitalità dei pellegrini e a fornire loro doni e beni, affinchè possano proseguire il pellegrinaggio verso Roma, e fare ritorno in quel Regno di Boemia e d’Ungheria da dove si supponeva provenissero.
Le ragioni di questo viaggio verso Roma non furono dettate da desiderio d’esplorazione, ma, come il salvacondotto e i loro racconti esplicitano,
[…]El quale ducha avea renegato la fede cristiana e ‘l re de Ungheria presa la sua terra e lui; el quale ducha dise al dito re de volere retornare a la fede cristiana, e così se batezò con alquanti de quello popolo, ziò furon cyrcha cccc huomeni et’ quili che non se volsero batezare fono morti. E da poi che ‘l re igli avè presi e rebatezati volse che igli andassero per il mondo vii anni et che igli dovessero andare a Roma dal papa e posa retornassero in suo paexe […..] (Cronaca Varignana – XV sec.), fu un pellegrinaggio di espiazione o penitenza che doveva durare sette anni, viaggio che l’Imperatore Sigismondo pretendeva da loro per sanare quel grave reato e colpa d’apostasia, che nell’età bizantina corrispondeva ad alto tradimento contro l’impero, e forse era considerato così anche nel ‘sacro romano impero’, e che consisteva nell’apostatare o rinnegare la fede cristiana.
La fede cristiana fu infatti rinnegata a seguito della loro conversione all’islam, avvenuta sotto la pressione e l’occupazione turca-ottomana di quelle terre balcaniche e greche-bizantine, in cui per secoli risiedettero e da cui ora erano costretti a fuggire.
Da pochi anni erano arrivati nelle terre imperiali di Sigismondo, l’Ungheria e la Boemia, ed era l’inizio del XV secolo, e a Bologna essi raccontarono che le prime richieste fatte loro dalle autorità imperiali per riottenere il ‘diritto alla terra’ , cioè a risiedere e viaggiare in quelle terre sottoposte all’imperium, erano molto precise: ribattezzarsi, pena la morte, tanto che, come dissero, alcuni fra loro morirono per non averlo fatto.
Ma questo all’imperatore non bastava: dovevano anche andare dal Papa a Roma, per ottenere perdono e riconoscimento ed un nuovo salvacondotto o bolla papale se volevano risiedere o viaggiare in quelle terre sia di diretto dominio pontificio, che in quei regni o città che riconoscevano l’autorità papale, come faranno nei tempi successivi, viaggiando in ogni direzione per l’Europa (Lucca,Fermo,Francia,Spagna ecc).
Salvacondotti papali che alcune fonti storiche dicono essere stati ottenuti, mentre altre invece lo negano.
(R) Et quando gli arivono a Bologna se erano già andati cinque anni (Cronaca Rampona)
(V) Et quando igli arivono a Bologna se erano andati anni v per lo mondo (Cronaca Varignana)
E dissero anche che quando arrivarono a Bologna,dopo tanto che erano per il mondo, di loro, nel viaggio, ne erano morti più della metà.
Bologna offrì loro accoglienza in una delle porte principali della città, quella di Galliera, concedendo che dimorassero, dentro e fuori le mura e sotto i portici delle medesime, che a quel tempo si collegavano alle rovine della rocca papale.
[“Sì che, quando arivono a Bologna, si demorono a la porta de Galiera, dentro et de fuora e si dormiano sotto li porteghi, salvo che el ducha, che steva in albergo da re; et steno in Bologna 15 dì, et in quello che steno in Bologna, gli andava di molta zente a vedere, perché gli era la mogliera del ducha, la quale diseva che sapeva indivinare e dire quelo che la persona dovea havere in so a vita et ancho quello che avea al presente, e quanti figlioli havenvano [….] (Cronaca Rampona – XV sec)
La scelta del luogo, cioè Porta Galliera, era motivata sicuramente dal fatto che nelle adiacenze si trovava l’antica piazza del mercato o Campo Magno della città, mercato del bestiame e di ogni altro genere di animali domestici ed oggetti d’uso quotidiano, vocazione mercantile che conserva ancora oggi, però più ristretta agli oggetti d’abbigliamento e vestiario, piazza che prende il nome da più moderne vicende storiche: l’ 8 agosto 1848 (cioè la cacciata degli austriaci da Bologna, per l’occupazione militare della città e per il ruolo di sostegno che gli Asburgo avevano concesso fin dal 1287 ad un invadente ed ormai decadente Stato Pontificio).
[…]et le femine si andavano in camisa et poi portavano una schia’vina a armacollo et le anelle a le orecchie et pur assai velame in testa, et una de loro fè un putto in suso el marchato sotto el portegno, e de cho’ tre dì ella s’andò intorno cum le altre.[….] (Cronaca Rampona – XV sec)
Ed è proprio sotto quelli antichi portici della piazza del mercato (o Campo Magno), che una donna-egiziana partoriva, con lo stupore di tutti/e, ma lo stupore più grande era che dopo tre giorni se ne andava in giro con le altre ed il/la bambino/a entro una fascia ad armacollo.
Un bambino o bambina, chi lo sa, si potrebbe immaginare attraverso la nota canzone ‘Futura’ di Dalla, che quella ‘Futura’ che il poeta-musicista ci canta, non fosse nient’altro che l’inizio di una ‘Futura’ e prima generazione di romanì, partorita a Bologna in quel primo esodo nell’Europa occidentale, a cui nei secoli successivi se ne aggiungeranno degli altri/e dalle terre greche e balcaniche, e dal sud dell’Italia, genti suddivise e nominate su base ergonimica (o dalle attività svolte): artisti, musicisti, lautari o suonatori di liuto, danzatori, saltimbanchi, circensi, giostrai,violisti, lovari o allevatori di cavalli, ursari ammaestratori di orsi, maniscalchi, lavoratori dei metalli (argintari, aurari o slatari, costarari, ramai) salahori o costruttori di carri, calderari, fabbri, e keramidari o fabbricanti di mattoni, setari oproduttori cesti di vimini,curari o affilatori di coltelli,arrotini, machavaja o cantastorie o chiromanti, rudari o intagliatori ecc.
E per tornare a Bologna del XV secolo, è in quella che viene chiamata oggi la Montagnola, che i pellegrini-egiziani ricaveranno delle nicchie per tenervi oggetti di valore e cavalli, il cui commercio rappresenterà per quella comunità pellegrina e fuggiasca la principale fonte di ricchezza e prestigio.
( Nel suo saggio ” Il popolo delle discariche” l’antropologo Leonardo Piasere, ribadirà che da sempre i luoghi a loro destinati come rifugio di fortuna erano rovine o luoghi dismessi) .
Ricordiamo in proposito che la Montagnola era chiamata così per uno strano apparente rilievo di terra, ora boscoso, sotto il quale si celano i resti delle gallerie dell’antica Rocca pontificia, rocca che si estendeva fino alla medesima piazza del mercato o al Campo Magno, demolita dal popolo bolognese, per la terza volta, proprio alcuni anni prima, nell’ aprile del 1416, dopo l’insurrezione popolare del 5 gennaio 1416. L’insurrezione portò alle dimissioni del legato pontificio Cardinal Casini, alla cacciata dalla città di tutti i funzionari pontifici e al ripristino degli ordinamenti comunali.
Oltre al commercio dei cavalli, praticato dagli uomini, le donne s’ingegnavano girovagando per le strade, entrando in case e botteghe, nelle antiche arti divinatorie, leggevano la mano, per predire futuri, ma anche individuare nel presente, il tipo di carattere della persona amata, dei figli o del/la consorte: uniche attività svolte da quei pellegrini-egiziani per procurarsi il necessario alla sopravvivenza della comunità, anche se queste attività si dimostreranno con il tempo insufficienti.
In quei giorni che dimorarono a Bologna, molta gente andava a vederli incuriositi a Porta Galliera, ma soprattutto dove le cronache indicavano che il duca e la moglie ‘alloggiassero da re’ (con ogni probabilità nel ‘Palazzo Nuovo’ costruito tra il 1245 -46 per imprigionarvi Re Enzo, accanto a quello più vecchio del Podestà),
Accorrevano in particolare dalla moglie del duca,dopo che si era sparsa velocemente voce in città che sapesse indovinare e predire ‘ciò che accadrà nella vita, nel presente, quanti figli s’avrà, e per scoprire i fatti della vita, e molti dicevano che raccontasse il vero’.
E le donne, come descritto nelle cronache bolognesi, andavano con lunghe camicie, una fascia di stoffa ad armacollo, che si annodava ad una spalla, anelle alle orecchie, e molte stoffe arrotolate in testa a mò di turbante.
E siccome a molti di quelli che andavano da lei o che s’intrattenevano in quei giorni con le donne per scoprirvi il destino, poteva accadere che gli venissero sottratti oggetti e valori (come contro-partita delle attività divinatorie), le autorità, allarmate, dai cittadini diffusero delle grida od ordinanze in città, in cui stabilivano che : “chiunque andasse da loro, veniva sanzionato con 50 ducati, e perdipiù andava incontro alla scomunica”.
[…] Onde li feno uno gran robare in Bologna,tanto che l’andò la grida che nessuno non adasse da loro, a la pena di 50 duchati et sotto pena di scomunicatione[…] (Cronaca Rampona – 1422)
E fu data licenza a chiunque avesse subito un furto di recarsi a riprendersi quanto sottratto. Una forma di contropartita (o contro-furto), una vera e propria contro-mossa diplomatica che le autorità cittadine, il legato ed il podestà escogitarono,per salvaguardarsi dal violare da un lato i disposti del decreto imperiale, e dall’altro i dettami etici e religiosi, o “le opere di misericordia” che richiedevano ai fedeli di accogliere i pellegrini nei viaggi di devozione o espiazione”, (o verso coloro che etimologicamente andavo per-ager, o per i campi aperti verso i luoghi di culto).
[…] e fue dato licenzia a coloro, ch’erano robadi che igli posesseno robare loro infino a la quantitate del suo danno[…]
(Cronaca Varignana – 1422)
Ed allora alcuni uomini insieme, una notte, andarono là dove i pellegrini tenevano i cavalli, e si presero il cavallo più bello che questi possedevano, ed i pellegrini sorpresi ed volendolo restituito, convennero nel ridare tutto quello che le donne avevano preso, e vedendo che erano venute meno le condizioni di sopravvivenza ripartirono per Roma.
A conclusione di quanto sopra descritto, che narra quel ‘primo contatto’ tra pellegrini egiziani, poi riconosciuti come ‘cingari’ ed infine romanì
e cittadini bolognesi, possiamo con ragione affermare che Bologna nel corso dei secoli, pur nelle sue drammatiche vicende interne, si è dimostrata una città cosmopolita, aperta ed accogliente, l’unica città comunale ed europea in cui sia menzionata dalle cronache antiche la nascita di un bambino/a egiziano/a –o romanì.
Mai prima nè dopo di queste cronache, si rammenta a tutt’oggi un evento simile in qualsiasi altra città-comunale italiana o europea.
E nella sua storica Biblioteca universitaria, Bologna,conserva ancor oggi nei ‘codici antichi’ la testimonianza di tutto questo.
Fonti e note storiche
E’ importante analizzare il contesto storico per comprendere meglio l’evento, questo irripetibile ‘first contact’, non solo con le popolazioni ed amministrazioni cittadine italiane bolognesi, ma con dei nativi italiani, così come lo definisce l’antropologo Leonardo Piasere, ed altri/e autori ed autrici: Antonio Campigotto, Massimo Aresu, Patrizia Bianchetti in “Questo genere di uomini” ed.Cisu (Centro informazione e stampa universitaria di Roma).
In questo tempo, noteranno gli storici, non abbiamo i Rom – fabbri – che giungeranno un secolo dopo dall’Europa balcanica e dal sud d’Italia, ma egiziani/e pellegrini/e provenienti dal Nord che barattano cavalli e predicono futuri e presenti.
Fonti
Qui di seguito si riporta il testo della Cronaca Rampona tradotta in un romanes ‘standard ‘ affinché tutti i romanì possono finalmente avere una loro madre lingua comune in un patria transnazionale, dato che per loro da sempre la ‘loro patria è il mondo intero’, ma devono anche poter godere della cittadinanza (o di un ius soli) là dove desideranovivere ed abitare.
Nell’anno 1422 dell’era cristiana, il giorno 18 luglio (quel giorno era domenica) venne in Bologna
Ando bersh 1422 _ po 18 lulja (kava dive sas kurko) aviló andeBologna
un duca d’Egitto, il quale aveva nome ‘Duca Andrea’ e venne con donne,
jekh baro raj katar o Egitto, so biciavélas “Baro Raj Andrea” haj aviló le giuvljantsa,
bambini e uomini del suo paese: ed erano circa cento persone.
le ciavorentsa haj le manushentsa katar o peskero them: haj sas pashcí shel žené.
Quando essi arrivarono a Bologna, dimorarono a Porta Galliera, dentro e fuori le mura
Kana jon avilé ande Bologna, beshlé ande Porta Galliera, andré haj avrí katar le zidurja
e dormivano sotto i portici, salvo il duca stava in albergo da re.
haj sovenas telál le pragurja, samo o baro raj beshelas ando kralieskero stano.
E stettero in Bologna una quindicina di giorni. E per tutto il tempo che dimorarono a Bologna,
Haj acilé ande Bologna pashcí deshupanč dive. Haj pe sori vrjama ka acilé ande Bologna,
molta gente li andava a verdere. Le donne andavano in giro con lunghe camicie,
but žené gianas te dikhenles. Le giuvljá gianas trujál lungone gadentsa,
e portavano una fascia di traverso annodata a una spalla,
haj anenas jekh paramenka pe regate phandli po dumo,
le anella alle orecchie e molti veli arrotolati in testa a mo’ di turbante,
le cinjá kanenghe haj but diklé amboldiné po shero sar jekh shtadí,
e una di loro partorì un bambino al mercato sotto il portico
haj jekh mashkar lende bijandiló jek ciavo po pjatso telál o prago
e dopo tre giorni andò in giro con le altre.
haj pala trin divegeló trujál le vavrenca.
Ando bersh 1422 po 18 lulja (kava dive sas kurko) aviló andeBologna jekh baro raj katar o Egitto, so biciavélas “Baro Raj Andrea” haj aviló le giuvljantsa, le ciavorentsa haj le manushentsa katar o peskero them: haj sas pashcí shel žené.
Kana jon avilé ande Bologna, beshlé ande Porta Galliera, andré haj avrí katar le zidurja, haj sovenas telál le pragurja, samo o baro raj beshelas ando kralieskero stano.
Haj acilé ande o Bologna pashcí deshupanč dive. Haj pe sori vrjama ka acilé ande Bologna, but žené gianas te dikhen les. Le giuvljá gianas trujál lungone gadentsa, haj anenas jekh paramenka pe regate phandli po dumo, le cinjá kanenghe haj but dikle amboldiné po shero sar jekh shtadí, haj jekh mashkar lende bijandiló jek ciavo po pjatso telál o prago, haj pala trin divegeló trujál le vavrenca.
Testo tradotto per l’occasione in uno standardizzato romanes da Angelo Arlati – glottologo e linguista che si può ritenere appartenente a quella multipla e comune identità ‘romsintogagina’.
A proposito del “first contact” si riportano le osservazioni di Leonardo Piasere, che ritengo sia uno dei più importanti e attendibili storici-antropologi di riferimento che per l’evento oggetto di questo testo.
“ Cerchiamo quindi di interpretare questo first contact. Lo farò riportando direttamente dei passi dalle due cronache (citando nell’ordine dalla Rampona (R) e poi della Varignana (V), e di seguito analizzandoli.
Partiamo con l’incipit con cui i cronisti iniziano questa sorprendente narrazione:
(R) Anno Christi Mcccc22. Adì 18 de luglio venne a Bologna uno ducha d’Ezitto lo quale havea nome el ducha d’Ezitto lo quale havea nome el ducha Andrea.
(V) 1422. Uno ducha d’Ezyto venne a Bologna adì xviii del mese de luio, el quale avea nome el ducha Andrea.
[…]
Andrea, in qualità di duca del “piccolo Egitto”, era già comparso nelle cronache a Saint Laurent, in Savoia, nel 1419 e a Bruxelles e Deventer (nel Brarbante) nel 1420. Da notare però, che a Bologna non si parla di “Egitto minore” o di “piccolo Egitto”, come in tante altre cronache europee, ma semplicemente d’Egitto. Il cronista bolognese non mette mai in dubbio la provenienza, che evidentemente era affermata oralmente dal ducha e confermata e scritta nel salvacondotto dell’Imperatore che portava con sé.
Ma già alla fine del Quattrocento si dava per certo che si trattasse di una ‘menzogna’ e nel settecento Ludovico Muratori (storico,scrittore e bibliotecario che odiava gli ‘zingari’) era al riguardo caustico nei loro confronti (vedi Muratori 1741); dopo la scoperta dell’origine indiana del romanes, si rafforzò e fu sancita l’idea della menzogna.
Diversi autori alla fine dell’ottocento hanno cercato di dimostrare che quel “piccolo Egitto” andava ricercato ovunque eccetto che in Egitto: nel Peloponneso (Hopf,1870,p.11), nell’Epiro (Bataillard,1888-89 p.286), in una regione dell’Anatolia (Hermann,1899), in varie località d’Europa (McRitchie, 1988-89, io (Piasere) invece, sono convinto che quei Rom (perché sono pure convinto che a quel tempo la distinzione tra rom e sinti ancora non esistesse)fossero convinti d’essere egiziani. La convinzione di essere egiziani è attestata per quelli presenti in Grecia già nel Trecento; ancora oggi in Macedonia e Kosovo esistono Rom che vantano la loro “egizianità” in contrapposizione ad altri rom;l’etnografia del ventesimo secolo ci dice che qualche gruppo è ancora chiamato “gli egiziani” da altri gruppi rom (Uhlik, 1955-56).
Ad esempio i ròma sloveno-croati chiamano gìftaria o giìftarsko ròma quelli che oggi si definiscono sinti; etimologicamente gìftaria significa “egiziani”, “rom egiziani”, appunto (Piasere,1985a).
Ossia nel Quattrocento eravamo di fronte ad una costruzione identitaria ben nota all’odierna antropologia dei rom, che ha appurato che le distinzione interne si costruiscono spesso a partire dal legame che un dato gruppo può aver avuto con una data regione (od un arte ed un mestiere, annotazione aggiunta di redazione).
Tale legame può essere reale o fittizio, non è questo l’importante: può essere capitato un qualsiasi avvenimento, importante, futile o ridicolo, nella storia pre-europea dei Rom che abbia messo in contatto, direttamente o indirettamente, un gruppo di famiglie con l’Egitto.
L’importante è che tale relazione con una data regione serve a distinguere un gruppo dagli altri. Gli esempi etnografici potrebbero essere decine.
Quei Rom erano sinceramente “egiziani”, questa è la mia supposizione – sinceramente perché si contrapponevano ad altri rom che non si consideravano tali.
E’ questa esigenza interna d’identificazione creò gli egiziani quali li conobbero gli europei di allora. Come in altri tipici malintesi di first contact, per le parti che si trovano di fronte, ognuno intende il termine a modo suo.
(R) Lo quale ducha si avea renegandola fede christiana, et lo re d’Ungheria prese la soa terra et lui, et si li disse lo dicto ducha ch’ello voleva retornare a la fede christiana, et si battezzò cum tucto quello puovolo. (Cronaca Rampona, 1422)
(V) El quale ducha avea renegato la fede christiana e ‘l re d’Ungaria prese la sua terra e lui, el quale ducha disse dise al dito re de voler retornare a la fede christiana, e così se batezò con alquanti de quello popolo. (Cronaca Varignana, 1422)
Anche qui, il peccato d’apostasia che essi stanno scontando può non essere un’invenzione, come la secolare incrostazione storiografica porta a pensare.
Noi sappiamo bene che i Rom in Grecia nel Trecento erano cristiani e seguivano il rito greco, come attesta un un francescano irlandese in viaggio da quelle parti (Piasere, 2006).
E’ possibilissimo che gruppi rom trovatisi inglobati in territori bulgari o rumelici occupati dai turchi ,una o due generazioni prima del duca Andrea, fossero passati ufficialmente all’islamismo (che cade in mano ottomano giusto nel 1417), per poi ridiventare cristiani una volta entrati nel regno d’Ungheria o in Valacchia.
A differenza di altri casi di “primi contatti”, come quelli famosi analizzati da Todorov (1984) da Sahlins (1986), da Connolly e Anderson (1987), qui non abbiamo gli europei che girando alla conquista alla conquista del mondo scoprono via via nuovi indigeni (o nativi), ma abbiamo gli indigeni(o nativi) dell’Europa occidentale che vengono scoperti dai Rom. E quei Rom che si spingono fuori dai confini dell’Ungheria con un intento parimenti preciso: conquistare la ricca Europa occidentale.
E’ notevole come gli egiziani con il loro racconto mettono in contatto i bolognesi con le lontane vicende che stavano succedendo nei Balcani. Il riferimento alla ‘soa terra’, cioè del duca, poteva pure essere un malinteso, intendendolo gli egiziani in un modo (un territorio di tipo “r”, come dirò subito), e i bolognesi come un “regno” quale poteva essere passato allora, cioè un normale territorio di tipo “K”.
Strategia “K”
Cioè imponendo il proprio dominio su un territorio, scalzando dei concorrenti e sviluppando localmente in modo più o meno intensivo lo sfruttamento delle risorse disponibili ….e trasformando i concorrenti perdenti in subalterni.
Strategia “r”
In un senso inverso:acquisendo risorse ovunque e in qualsiasi modo possibile, senza al contempo imporre alcun dominio o subalternità.
Da Hermann Corner sappiamo che nel 1417 contro i furti, e nonostante le lettere dell’Imperatore, la risposta delle autorità locali tedeschi fu “normale”: ‘per alcuni in diversi luoghi essere presi presi ed ammazzati’ (“et plures de eis in diversis locis sunt deprehnsi ed interfecti”)
Ma il cardinale di Sant’Eustachio (o legato pontificio Carrillo Albornoz), allora unico signore di Bologna, come sappiamo, o il podestà Antonio Alexandri per lui, non agisce in questo modo, ma agisce in due direzioni diverse: contro i bolognesi e non tanto contro gli egiziani, ma i loro beni.
La prima direzione tende a isolare gli egiziani dal resto della città, cioè a togliere loro clienti: la minaccia spirituale della scomunica è senz’altro tesa ad impedire ai cittadini di sottomettersi all’arte diabolica della divinazione (a Parigi si seguirà la stessa modalità), mentre la minaccia dell’ammenda serve da rinforzo o a dimostrazione della serietà temporale con cui è presa la cosa. L’ammenda è molto altra, sia che si segua la Varignana che parla di “libre L”(pari al 140 lire di bolognini): 50 lire di bolognini corrispondevano in quelli anni grosso modo alla paga di duecento giornate di lavoro di uno zappatore, oppure alla metà delle tasse annuali di un banchiere giudeo (cfr. Bocchi, 1971, p.28; Muzzarelli, 1994,p.108), ma anche al permesso del contro-furto.
(R) Et se fu dato licentia a coloro, ch’erano stà rubati che li possevano rubare loro per infino alla quantitade del suo danno.
La minaccia di scomunica o di multa può bloccare i bolognesi dall’andare dagli egiziani, ma non viceversa, dal momento che, abbiamo visto, questi hanno ampia libertà di movimento e, come coglie bene il politologo Geremek(1982), per leggere la mano o “dare ciance”(tener a bada qualcuno con qualche promessa) le donne non sembra che abbiano alcun problema per farsi capire, e quindi, aggiungiamo, non possono essere zittite. Perché semplicemente , il Cardinale di Sant’Eustachio non li bandisce (in un momento in cui il bando era cosa comune), non li fa impiccare (come aveva fatto impiccare in piazza due bolognesi giusto l’anno prima), non li elimina in qualsiasi altro modo senza chiedere conto a nessuno visto che è il signore assoluto?
Perché egli si trovò a risolvere una delicata questione giuridica e diplomatica.
Gli egiziani si presentavano a tutti gli effetti, come dirà a Forlì Girolamo de Fiocchi, come “quedam gentes misse ab imperatore, cupientes recipere fidem nostra”, gente mandata dall’Imperatore al Papa, desiderosi di ricevere la nostra fede.
Un conto è presentarsi come tali nel Meklemburgo o nel Brabante, un conto è nello stato del Papa.
Come poteva il legato spagnolo Alonso Carrillo de Albornoz, fatto cardinale da un antipapa(Giovanni XXIII), confermato nella carica per volere del nuovo e legittimo pontefice (Martino V), andare contro un volere dell’Imperatore?
Si trattava di quell’Imperatore cui si doveva l’elezione di quel Papa ora diventato suo protettore, ed egli non poteva permettersi di coinvolgerlo in una grana diplomatica, a causa del duca egiziano.
Tanti autori hanno evidenziato che i conti tornano perfettamente,rispetto alla prima comparsa in Germania nel 1417.
Questa è la lettura che i bolognesi danno del fatto che alla compagnia del duca è garantita l’autonomia giuridica di cui si è parlato. Vero o falsa che fosse la lettera di Sigismondo – e i bolognesi non ne dubitano un istante della sua autenticità – gli egiziani (o quelli che saranno i cingari e poi i rom) si presentano come un ‘ imperium in imperio’ ; (uno stato nello stato) una modalità che ha delle basi giuridiche ampiamente accettata in un’epoca in cui, con le parole di Ascheri (1988, p.12), ogni categoria di persona ha un proprio status, e “si assiste ad una frantumazione soggettiva (….) della categoria dello straniero, per cui(….) per il giurista coevo diviene soprattutto una categoria residuale”. Tanto che in quel periodo si dibatteva “fino a che punto potesse applicarsi al non cives lo statuto di una città (ib., p.14).
Oltre che a presentarsi come giuridicamente autonomi, quelli egiziani si presentano anche come pellegrini, e sappiamo bene che i ‘peregrini’ avevano di per sé uno statuto particolare. Si potrebbe dire che la somma delle due condizioni li rende giuridicamente intoccabili.
….
A Bologna, invece, succede (a differenza delle altre cronache che segnalano il passaggio degli egiziani in altre parti d’Europa) una cosa strana: “mentre il duca e la moglie alloggiano in albergo (da re)”, gli altri “dormono alla Porta de Galliera, “dentro et de fuora” Cronaca Rampona) / “alozono a al porta de Galiera, e de fuora”(Cronaca Varignana).
Occupano lo spazio a cavallo di una porta delle mura costruite de fresco (s’era finito di costruirle nel 1374), proprio sul confine tra il dentro e fuori, o meglio tra il dentro e il quasi fuori, visto che Bologna era circondata dalla cosiddetta Guardia Civitatis, una fascia di territorio che correva intorno alla città, profonda circa tre miglia dalle mura e distinta amministrativamente sia dalla città stessa che dal contado. E a cavallo di questa frontiera che sfumava il dentro e fuori che gli egiziani s’accampano ….
Se guardiamo una delle prime mappe leggibili della città, la pianta prospettica affrescata nei Palazzi Vaticani nel 1575, ci accorgiamo, inoltre, che la zona di Porta Galliera interna alle mura era una zona verde, ampiamente non costruita con ampi tratti di “campagna in città”(Ricci, 1980,p.90-92); apparentemente questi campi non vengono usati dagli egiziani in quel periodo di canicola per
piantarvi le tende, perché sottolinea il cronista, essi dormono sotto quei portici delle vie che ancora oggi caratterizzano Bologna. Si può dire che sfruttano totalmente la contaminazione tra città e campagna presente a porta Galliera. Bisogna dire che parte di quella zona incostruita era costruita dalle macerie della rocca di Galliera, simbolo del potere pontificio, che era stata abbattuta di fresco nel 1416, come si ricorderà e non ancora ricostruita (sarà in seguito ricostruita ed abbattuta altre due volte, l’ultima nel 1511, a cui si riferiscono il “guasto o macerie” della pianta vaticana del 1575.
E’ in questa zona incostruita e/o demolita, “guastata”, chiamata il Campo Magno, che si trova il mercato grande, il mercato del bestiame, ed qui, anzi in un portico nei suoi pressi, che nascerà (per ius soli, il primo ‘egiziano-bolognese-italiano’.
E quando torneranno da Roma, scoprendo che il loro territorio (collocato fuori dal Regno d’Ungheria) resterà occupato dai turchi, e non potendovi più farvi ritorno diverranno in Europa per sempre ‘stranieri interni”.
Commento
Il testo della cronaca bolognese è oggi molto noto nella storiografia sui ‘cingari’.
E’ da segnalare, però, che vicende riguardanti il duca Andrea entrano nella storiografia internazionale sui rom solo dopo la pubblicazione di Muratori (1741) e grazie ad autori stranieri del secondo Settecento.
Come vedremo qui di seguito, il testo in forma manoscritta sarà solo sporadicamente citato dai cronisti locali e non diventerà mai parte dei discorsi italiani sui ‘cingari” che andiamo a riportare in luce.
Solo a partire dal 1841 Francesco Predari, comincerà a parlare del duca Andrea, sulla scia di autori stranieri come Grellmann e Augustini ab Hortis (allora citato come anonimo).
Il duca Andrea arriva a Bologna in un momento di lotta tra le due famiglie più potenti, i Bentivoglio e i Canetoli, ed in tempo di sospensione delle magistrature popolari della città, quando al governo della città vi era il Cardinale Alonso Carrillo de Albornoz, legato pontificio,nominato dal papa Martino V, e il Podestà il fiorentino Antonio di Alexandri de Alexandria, nominato dal legato pontificio.
Per il resto, eccetto il contro-furto del cavallo da parte dei bolognesi, i fatti riportati nelle cronache vi corrispondono a quelle coeve descritte in tante cronache riguardante l’arrivo degli egiziani in altre parti d’Europa. L’unico studio di ampio respiro che cerchi di utilizzare in modo estensivo quei materiali resta Paul Bataillard. Più recentemente Angus Fraser (autore ‘the Gypsies’ )ha ripreso i materiali con nuove considerazioni.
Ma tuttora manca un’analisi completa ed integrata di queste fonti.
La cronaca di Bologna resta il primo documento che attesti la presenza degli egiziani in Italia.
Bisogna anche segnalare una potente differenza esistente tra le cronache Rampona e Varignana da un lato e la Miscellanea che descrive Muratori nel 1731 dall’altro; mentre le prime due parlano di cento egiziani riconvertitisi al cristianesimo, la terza parla di quattromila. Si tratta forse di discrasie (cattive mescolanze) esistenti tra i due manoscritti della Biblioteca Estense di Modena utilizzati dal Muratori (scrittore, diplomatista e bibliotecario presso la Biblioteca di Modena) , e gli altri due codici conservati nella Biblioteca Universitaria di Bologna che riportano la Rampona e la Varignana(Rampona n.431, Varignana n.432 del secolo XV). Ricerche mirate saranno benvenute. Ricordo solo che cifre basate sul “quattro ” ricorrono nelle cronache svizzere del Cinquecento riguardo ai “pagani egiziani” che si sarebbero presentati in svizzera nel 1418: a seconda degli autori, sarebbero stati quattromila o quattordicimila o quaranta mila: l’arrivo di gruppi sparpagliati e composti di qualche decina di effettivi viene trasformata in un’invasione
(si vedano, fra gli altri, i passi delle cronache Stumpf e di Tschudi riportati in R. Gronemeyer, “Zigeuner in Spiegel frueer Chroniken und Abbandlungen”, Giessen,Focus,1987,p.32 e 37).
BIBLIOGRAFIA
(cfr. F. Predari. Origine vicende dei ‘zingari’, Milano, Lampato, 1841)
Per analisi mirate rimandiamo ai saggi di Bronislaw Geremek e Leonardo Piasere.
B.Germek, “L’arrivèe des Tsiganes en Italie: de assistance à la rèpression”, in G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta (a cura di), Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, Atti del Convegno “Pauperismo e assistenza negli antichi stati italiani”, Cremona, Annali della Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona, 1982, p.27-44; versione italiana in B. Geremek, Uomini senza padrone,Torino, Einaudi,p.151-172). “
L. Piasere, “First Contact, analisi della grana internazionale che si trovano di fronte i bolognesi nei giorni della canicola del 1422, e come lo risolsero”,
M. Aresu, L. Piasere (a cura di ), Italia Romanì, vol. V: i Cingari nell’Italia di antico regime, CISU, 2011, p.41 -46, “contatto”-
GRANDE STORIA
Da Costanza a Bologna
“Gli egiziani entrano nella piccola storia di Bologna presentandosi come il frutto della -Grande Storia di quelli anni.
Sono queste due storie che dobbiamo brevissimamente ricordare.
Sigismondo di Lussemburgo è il re che combatté e perse la battaglia di Nicopoli, sul Danubio nel 1396, per tentare di arrestare l’avanzata ottomana nei Balcani.”
(da First contact di L. Piasere,in Italia Romanì,Vol 5, p.14)
[…]
“Il 25 settembre 1396, nelle pianure a sud della centrale città bulgara di Nicopoli fu combattuta una storica battaglia. Da un lato Bayezid I, sultano dei turchi ottomani, e da tutti i suoi paesi conquistati e vassalli:serbi, bulgari, bosniaci, e albanesi, e un un corpo di giovani cristiani convertiti all’islam, e dall’altra parte un’alleanza di truppe provenienti da tutta L’Europa occidentale ed orientale, definiti come ‘crociati”:ungheresi, valacchi, transilvani,tedeschi, borgognoni,francesi ed inglesi. Nicopoli è stata la prima battaglia dove gli Ottomani incontrarono un esercito europeo. Le forze alleate europee raggiunsero Buda, in Ungheria, per soccorrere il paese retto dal re Sigismondo I. E dopo aver marciato fino a Nicopoli,in un solo giorno le truppe alleate europee furono sbaragliate e subirono una schiacciante sconfitta inflitta dai turchi-ottomani[…] (tratto dalla storia militare medievale)
[….]
Al suo ritorno Sigismondo di Lussemburgo, fu proclamato dai principi elettori, Imperatore del Sacro Romano Impero, per la prima volta senza l’incoronazione papale;
sarà lo stesso Imperatore dei Romani a chiedere la convocazione del Concilio di Costanza (1414-18) “per cercare di porre fine allo scisma d’occidente che attraversava da secoli ormai la Chiesa cattolica.
Durante il Concilio, seguito strettamente e a volte presieduto dall’Imperatore stesso, che papa Gregorio XII (Angelo Correr) dà le dimissioni, ed al contempo vengono deposti nel 1415 i due antipapi, l’uno eletto a Bologna Giovanni XXIII (Baldassare Cossa) e l’altro Benedetto XIII (Pedro Martinez de Luna)eletto ad Avignone.
Nello stesso anno, sempre a Costanza, l’eretico Jan Hus venne portato al rogo (Jan Hus, teologo e riformatore religioso boemo, e rettore dell’Università Carolina di Praga, promotore di un movimento religioso ispirato alle idee del filosofo inglese John Wycliffe, che con Marsilio da Padova, era un convinto sostenitore della superiorità dello Stato sulla Chiesa, che doveva conservarsi povera ed apostolica, senza possedimenti e coinvolgimenti politici).
Nel 1417 viene finalmente eletto (in modo ecumenico) papa Martino V (Oddone Colonna), e con questa elezione si concluse di fatto il lungo scisma.”
(in parte tratto da First contact di L.Piasere,in Italia Romanì,Vol 5, p.15)
[…]
PICCOLA STORIA
“Da quando l’imperatore Rodolfo degli Asburgo aveva donato Bologna al papa nel 1278, la storia della città è stata ovviamente molto legata alle vicende pontificie.
E’ stata come si dice, una storia di lotta per l’autonomia da Roma (o dal potere temporale pontificio).
Proprio uno dei tre co-papi, Baldassare Cossa, fu legato e di fatto signore di Bologna, direttamente o indirettamente, dal 1402 al 1414, però il 17 maggio 1410 si fa eleggere papa come ‘Giovanni XXIII’ da un conclave raccogliticcio
[….]
e nello stesso giorno pose la prima pietra per ricostruire per la seconda volta il castello papale.
La Rocca fu fatta edificare come Palazzo pontificio nel 1330 dal Cardinale Poggetto, per conto del papa Giovanni XXII, che risiedeva in Francia, il quale riteneva Bologna la città più vicina ad Avignone ma anche Roma, e per questo prescelta dal medesimo come possibile nuova sede pontificia, al fine anche di controllare le città italiane precedentemente guelfe,o fedeli al Pontefice, che in sua assenza erano passate ai guelfi bianchi, alleati di quei regnanti, quali i Visconti di Milano, l’aristocratica Repubblica di Venezia ed altri in Italia, ostili al potere temporale della Chiesa.
Il 17 marzo del 1334 fu l’anno della prima insorgenza contro il legato pontificio, che causò la distruzione della Rocca e la cacciata dalla città del cardinal Poggetto; ed in questo abbattimento andarono perduti per sempre degli affreschi di Giotto che ornavano la ‘Cappella Magna’ all’interno della Rocca, destinata e dedicata al pontefice.
L’anno successivo, ed era Il 28 aprile del 1411, fu ridistrutta a furor di popolo per la seconda volta, quando Giovanni XXIII, era partito per Roma.
il medesimo antipapa che l’08 marzo del 1413 la fa ricostruire per la terza volta;
Rocca,osteggiata negli anni dal popolo bolognese, e diventata nel tempo simbolo del potere pontificio a/su Bologna, situata nei pressi dell’ omonima porta Galliera.
Il 5 gennaio 1416 i bolognesi venuti a conoscenza dell’avvenuta destituzione al Concilio di Costanza dell’antipapa Giovanni XIII,costringono alle dimissione il Cardinale Casini (deposto dal quel 5 gennaio 1416) , legato pontificio, che era stato nominato legato (dal 20 dicembre 1413) dall’antipapa Giovanni XXIII, e con lui cacciano dalla città tutti i funzionari pontifici,ottenendo il ripristino degli antichi ordinamenti comunali, e l’elezione delle magistrature – a guida della città: i 9 anziani e i 16 riformatori dello stato della “libertas”.[…..]
(ricerche storiche di pino de March)
[….]
La sommossa riesce bene poichè sono riunite le due fazioni tradizionalmente nemiche, “i caneschi”, riuniti attorno alla famiglia Canetoli, ed i “bentevoleschi” che fanno capo al Bentivoglio.
Nell’aprile del 1416, il comandante della rocca di Galliera, zio di Baldassare Cossa, si fa corrompere per diecimila ducati e la consegna ai bolognesi, i quali ne cominciano seduta stante l’ennesima demolizione.
Martino V , finito il Concilio, inizia un lento viaggio di ritorno a Roma.
Si ferma a Milano, Brescia, Mantova.
Di lì chiede di entrare a Bologna, ma i bolognesi gli negano l’accesso.
Si sposta quindi a Ferrara e poi a Firenze, da dove dal 1419 guida la riconquista della città.
Nel frattempo, nel gennaio 1420, Anton Galeazzo Bentivoglio, con un colpo di mano, caccia i caneschi e s’impossessa della città facendo eleggere persone a lui vicine fra i 16 Riformatori prima e fra i 10 Ufficiali di Balìa poi (una magistratura per i periodi di crisi).
Il papa lancia l’interdetto sulla città.
Falliti gli incontri con gli ambasciatori bolognesi, che erano pur riusciti strappargli un concordato molto favorevole nel 1419 (concordato che concedeva il vicariato al Comune, il che rendeva la città de facto, se non de jure, indirecte subjecta, cioè di fatto autonoma),
Martino V assolda il perugino Braccio da Montone che nell’estate comincia ad occupare il contado bolognese.
Anton Galeazzo cede: si ritira nella nuova proprietà di Castel Bolognese che Martino V gli concede, e Bologna si ridà al papa dopo aver dovuto subire un nuovo concordato.
“La città di Bologna subì in quell’estate una dura sconfitta sul piano militare e politico che si concluse con la pace di Borgo Panigale del 16 luglio 1420, pace stipulata tra Forte Braccio (Braccio da Montone), il cardinale Condulmer e Anton Galeazzo Bentivoglio.
Il potere pontificio viene restaurato ufficialmente il 21 luglio del 1420 proprio da Gabriele Coldulmer, che cede il governo ad un altro cardinale il 21 agosto dello stesso anno.[…..]”
(ricerche storiche di Pino de March)
[….]
Costui indicato nelle cronache coeve come il cardinale ‘hyspanus’ (Griffoni), o come ‘messere Alfonso Cardinale di Santo Eustachio” (cronaca Rampona) o come “Alfonso Casiglia” (Gualandi,1960-61), è al secolo Alonso Carrillo de Albornoz, un nobile spagnolo, allora vescovo di Osma, poi di Siguenza-Guadalajara, diacono di Sant’Eustachio (a Roma), il cui padre era stato precettore del re di Spagna Giovanni II.
Alonso Carrillo era stato fatto cardinale dall’antipapa Benedetto XIII, e riconfermato da Martino V.
Il testo del concordato del 1420 è andato perduto (Fink,1931-32), ma si capisce dagli avvenimenti che doveva essere più restrittivo di quello del 1419 o, se simile, non rispettato, visto che riportò Bologna ad essere pienamente directe subjecta, cioè completamente dipendente dal papa.
Il Legato fa rientrare i Canetoli dall’esilio e, fino a che questi non si ribellano a sua volta, nel 1428, s’appoggia a loro contro i bentevoleschi per governare al città.
Dal 1420 al 1428 non vengono eletti nè Consigli degli Anziani nè Riformatori.
Su questo le cronache sono molto avare, e solo in quella di Fileno dalla Tuata si dice chiaramente che “e Legato non volse se feseno più signori nè confalonieri” (2005, Vol. I p.229).
Nella lista dei governanti stilata da Gualandi (1960-61), per il 1421 viene indicato semplicemente il ‘cardinale Alfonso Casiglia spagnolo’, mentre il periodo 1422-1428 resta semplicemente in bianco
(anno dell’arrivo degli pellegrini -egiziani)
Eppure i podestà continuano ad essere eletti annualmente, ma apparentemente designati direttamente da Roma (Partner,1979,p.240).
Il 1 settembre del 1420 viene nominato un perugino Matteo di Pietro, in evidente continuità con la riconquista di Braccio di Montone;
il 1 maggio 1421 è la volta di Antonio di Alexandri de Alexandria di Firenze,
ed il 1 agosto 1422 di Simoncino Buondelmonti, sempre di Firenze, in un periodo i cui l’ufficio di tesoriere della città era pure tenuto da un fiorentino (Petro Bartolomeo de Borromeis).
Peter Partner,(1979,p.240), uno dei pochi storici che ho trovato che si sia interessato con precisione e a questo periodo storico della storia bolognese,“ponendo meno ai prestiti che i fiorentini avevano fatto al Papa per sostenere l’apparato amministrativo pontificio a Bologna”.
In quelli anni di quella momentanea restaurazione papalina, è da segnalare che i bolognesi restarono anche senza il loro vescovo, Nicolò Albergati (che sarà in seguito fatto beato), nominato nell’anno della ribellione del 1416,ed inviato nell’aprile del 1422 come Legato pontificio in Francia ed in Inghilterra in una delle tante fasi della guerra dei Cento anni (ritornerà nell’agosto del 1423)
…
Bologna una delle città più grandi della Valpadana e forse la più popolosa dello Stato della Chiesa, con i suoi 35-38mila abitanti (la stima tradizionale per il 1371 è di 32mila abitanti e per il 1495 di 45mila; cfr. Montanari,1966; Dondarini 1990; Ginatempo e Sandri,1990). Era al contempo, la città più ricca dello Stato pontificio, essendo le sue entrate superiori a quelle di Roma stessa (Partner,1979,p.243)
Era, infatti una città abbastanza cosmopolita, sia per il giro di commerci, sia per la popolazione dei suoi monasteri,sia per il suo Studium che attraeva studenti (i famosi ultramontani”) da buona parte dei paesi europei.
“Ed essere stata la sede di due antipapi:l’uno Alessandro V, nominato in un raccogliticcio concilio di Pisa(sepolto nella Basilica di S. Francesco) , e l’altro Giovanni XXIII in un altrettanto raccogliticcio concilio di Bologna” (ricerche storiche di pino de March)
Alcune curiosità
La passione dei bolognesi per le cronache
La cosa da sottolineare è che tra le passioni dei bolognesi tra la fine del Medioevo ed il Rinascimento vi era anche quella di scrivere cronache della propria città.
Leonardo Quaquarelli nel 1993 ne ha censito centodue, molte delle quali spesso in più varianti a seconda delle mani che nei secoli vi hanno fatto aggiunte o tagli.
Delle centodue cronache, cinquantadue sono adespote (anonimo, senza nome d’autore), ma anche la paternità delle altre cinquanta in molti casi è solo ipotizzata; queste ultime, inoltre sono a volte delle vere e proprie opere collettive diacroniche con parti della paternità conosciuta e parti anonime. Quasi tutte sono rimaste manoscritte, pur tuttavia hanno nei secoli conosciuto una discreta divulgazione e sono state spesso usate come fonte le une per le altre, tanto che l’antropologo, meno abituato forse a scontrarsi con problemi d’autoriale rispetto ad uno storico, viene tanta voglia di dire di trovarsi di fronte ad una sorta di grande Cronaca Unica in analogia al famoso Mito Unico di Lèvi Strauss, raccontata nei secoli, pur nelle tante varianti, con ossessione di rendere immortale Bologna.
[..]
Non avendo competenza di cronachistica, di codicologia e paleografia bolognese, mi limito a dire che, per quanto mi risulta al momento, l’arrivo del duca Andrea è raccontato in una posta riportata uguale se non per dei dettagli in due delle cronache coeve, o in parte coeve, ai fatti che descrivono, quella conosciuta come cronaca Rampona e quell’altra come cronaca Varignana, entrambe pubblicate da Albano Sorbelli nel 1938, e tutt’e due usate dal Muratori (1731) per compilare l’Historia Miscellanea Bononiensis, pubblicata nel Rerum Italicarum Scriptores, la quale ultima è la versione usualmente citata e qui non sarà utilizzata.
Secondo il parere tradizionale, la cronaca Rampona si basa sulle ‘Antichità di Bologna’ del francescano Bartolomeo della Pugliola, che non è pervenuta autonomamente, e a sua volta si fonda su cronache precedenti fino al 1394, e poi continua autonomamente fino alla morte del del frate avvenuta tra il 1422 e il 1425(Zabbia, 1999,p.104)
In base a questa interpretazioni, quindi, la posta sul duca d’Egitto, potrebbe essere scritto da Bartolomeo della Pugliola.
Secondo altri, invece, Bartolomeo si sarebbe interrotto nel 1394, dopo di che la sua cronaca sarebbe stata continuata da Pietro Ramponi negli anni Trenta, e poi da Ludovico Ramponi alla fine del Quattrocento (Antonelli e Pedrini, 2000).
Dai raffronti da me fatti, solo quest’ultimo avrebbe potuto scrivere il passo sul duca d’Egitto,ma allora pretendendolo da qualcuno altro. E il passo originario potrebbe essere, invertendo l’ordine con cui le aveva pubblicate Sorbelli, quello della Varignana nella quale “numerosissimi i passi che attestano la contemporaneità dello scrivente rispetto ai fatti narrati tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento” (Quaquarelli,1993,p.219)
A meno che entrambi i passi non siano presi da una terza fonte, per ora sconosciuta.
A supporto della prima ipotesi, ricordo che le altre cronache scritte alla fine del Quattrocento riportano il fatto degli egiziani del duca Andrea (ad esempio, Albertucci de Borselli e della Tuata), ma allora già li individuano come “cingani” e già descrivono quell’arrivo come la prima notizia della presenza ‘cingani’ in Italia.
Dalla Tuata, nel 1496, dopo aver riassunto il nostro passo, ma già tagliando la vicenda del contro-furto (!), scrive chiaramente: “e quisti funo li primi cingani che mai venissero in Italia, lovvero Egiptii”.[….]
(da First contact di L. Piasere,in Italia Romanì,Vol 5, p.16-17-18).
Egiziani perché?
“Sono stati considerati per lungo tempo alla stregua di altre comunità diasporiche, stranieri al superlativo,’stranierissimi’, anche se vivono all’interno delle mura della città, nel ghetto ebraico come in quello turco, e hanno rappresentato una concentrazione di ‘ossimorità’, il cosiddetto straniero-interno.
Mappa del viaggio millennario tra India ed Europa
Storie maledette o malintese che hanno accompagnato i pellegrini-egiziani e i ‘cingari’ tra basso medioevo ed prima modernità
L’associare nella medesima locuzione ‘straniero-interno’, parole che esprimono concetti diversi 8per il sociologo G.Simmel ).
Gli ‘egiziani’ prima ed i ‘cingari’ poi sono stati considerati per lungo tempo in modo ‘simmeliano’ anche loro come stranieri-interni.
Bologna è la prima città italiana che stabilisce dei contatti o ‘first contact ‘come sostiene l’antropologo L. Piasere con questi stranieri-egiziani in quanto per lungo tempo essi si ‘considerano e vengono considerati tali, non si sa se erroneamente o per qualche trascorso d’origini egizie’.
Per lungo tempo nell’attribuzione dell’identità etnica o socio-culturale delle persone o delle comunità, s’usavano griglie o filtri d’interpretazione, derivati dalla tripartizione delle stirpi fatte dalla Bibbia, testo sacro tenuto ancora in grande considerazione con le relative letterature rabbiniche ed ebraico-cristiane, che facevano delle genti conosciute in spazi delimitati da mappe del mondo immaginate nel tempo antico.
Tutte le genti fin allora conosciute per una gran parte dei teologi, filosofi e linguisti del tempo erano ritenute figli di quel Noè o Noah, sopravvissuto al diluvio universale in un arca a più piani, che raccoglieva come la Genesi ci narra tutto il vivente, gli umani, ogni altra specie d’animali,i rettili e la varietà degli uccelli.
In quell’arca Noah portò con sé la moglie Naamah, e le tre moglie dei figli: Iafet, che avrebbe originato le genti bianche europee ed greche, Sem gli ebrei, gli arabi o gli africani bianchi e Cam, il minore, che avrebbe generato gli africani neri e tutte le persone di colore.
Gli egiziani giunti a Bologna erano anche loro di carnagione scura, e come tutti in Europa anche i bolognesi per questo, ritennero lo fossero.
Si era ipotizzato venissero dalla Nubia (Makuria), di religione copto-cristiana, in tempi molto recenti in fuga dalle loro terre, dopo la conquista di un sultanato mussulmano di quella regione collocata a sud dell’Egitto (641-654 dell’era nuova).
Si sottolineava anche che fossero originati da quella antiche stirpi ebraiche dei camiti, figli di Cush, generato da Cam, uno dei tre figli di Noah;
Cam ritenuto dal padre indegno e maledetto, per differenti accuse che vengono riportate dalle letterature rabbiniche e dalle diverse interpretazioni che intorno alla loro erranza e maledizione erano cresciute: alcune fonti, sostenevano che Cam avesse deriso il padre Noah ubriaco, che si aggirava nudo per casa, mancandole di rispetto, oppure l’aver avuto una relazione incestuosa con la madre Naamah, o altro ancora come l’aver generato Caanan contro l’interdizione a procreare posta da Noah ai viventi nell’arca;
per questi differenti e tra loro contraddittorie accuse, la stirpe di Cam e poi quella del figlio Cush,furono condannati per sempre non solo ad essere raminghi ma anche alla perpetua schiavitù;
fino a ritenere che quella pelle nera, tale come la terra africana da cui provenivano, ma soprattutto nera per quei lavori da schiavi a cui era stato destinati e sottoposti dalla maledizione paterna.
Studiosi del tempo avevano perfino ipotizzato fossero i figli degeneri di Caino.
Solo nei secoli successivi, il XVIII sec., un linguista slovacco, Augustini ab Hortis, in alcuni testi scritti tra 1775 ed il 1776, aveva fatto cenno ad una probabili origini indiane del romanes, lingua da ritenere a tutti gli effetti neo-indiana, parlata in seguito non solo dagli errones o erranti egiziani, ma anche da tutte le genti rom.
Dopo questo primo riconoscimento linguistico e culturale, altri ne seguirono, fino ad essere liberati di quella infamante accusa, che pesava come un macigno sulle loro vite, quello di essere figli maledetti ed erranti di Cush, uno dei figli generati da Cam.[…..]
(Materiali tratti dalla stirpe di Cus di Leonardo Piasere ed. CISU- 2016)
- DALLA TRISTE DIS-IDENTITA’ ALLA COMUNE GIOIOSA MULTIDENTITA’ ROMSINTOGAGIANA ED ALTRE POSSIBILI PLURIVERSITA’
“Ci entri nell’anima che siamo fratelli (e sorelle): Rom e Gagè: questo andava dicendo sempre il poeta rom-bosniaco Rasim Sejdić”
“Il tema della dis-identità si fa ogni giorno più attuale , agganciato com’è al fenomeno del dissolvimento di riferimenti sociali, politici, religiosi, culturali che contribuivano a determinare e a sostenere l’identità individuale (e sociale). D’altra parte la tecnica comunicazione multimediale consente, oggi, di manifestare e sostenere identità alternative che sempre meno facilmente sono riconoscibili come diverse di un’unica persona, mentre appaiono sempre più sovente come personaggi che convivono in uno spazio soggettivo, a volte felicemente, a volte meno.”
(da l’Accademia delle tecniche conversazionali dell’Itat- Istituto Torinese Analisi Transazionale,2006)
“Alain Finkielkraut nel suo ‘l’identité malheureuse’ ( la triste identità) o il più pessimista Michel Houellebecq ha parlato di una progressiva dis-identità europea (o perdita della consapevolezza della propria identità europea), un lascito maligno che ha soppiantato valori e speranze consentendo ai populismi nascenti di proliferare sulla delusione collettiva” (Giorgio Ferrari, Avvenire,27 febbraio 2016,p.1, prima pagina).
Il fenomeno della perdita progressiva della propria identità (o dis-identità) riguarda in modo indistinto sia le nuove generazioni Rom che i Gagè (europei, extra-europei o migranti che siano), come l’affermarsi in contro canto di un’ottusa identità aggressiva e contrapposta, populista e razzista, fortemente identitaria sia nelle forme marcatamente localiste (lega nord) che in quelle neo-neo-nazionaliste(nuova Lega-salvini e fratelli d’Italia-Meloni), generando malessere, indifferenza e conflittualità distruttive in un contesto di relazioni tossiche e rancorose che spingono le individualità e le comunità verso un regressivo declino relazionale, culturale e valoriale.
Permane ancora a macchia di leopardo una resistente ricerc-azione di piccoli gruppi in movimento che perseguono una società aperta ed una identità comune neo-umana, interculturale o transculturale, che definirei multipla, nel nostro caso ‘Romsintogagiana’. come tra altre esistenze in ‘divenire se stesse e solidali’ nel genere, nelle culture e tra le specie viventi terrestri;
concatenazioni ecologiche, umane, culturali,di genere e sociali in divenire possono considerarsi una potenzialità concreta di emergenti forme di vita e cultura Romsintogagiana (Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti in Bologna) come per quelle Romanì (Ketané, Ucri (Unione delle comunità romanès in Italia ecc) , ,al fine di valorizzare singole culture,mondi di vita, esperienze e relazioni comuni vissute, elaborate e prodotte nel corso del tempo (Exticton rebellion, Friday for future, Lgbtqi, organizzazioni sindacali di base, forme associative e politiche di democrazie di base e partecipata).
Questa cooperazione trans-culturale e forme di auto-organizzazioni in un contesto di cura ed accoglienza, può generare relazionali di buona convivenza o convivialità ed interazioni gioiose e pacifiche tra Romanì e Gagè, abbandonando sguardi traversi giudicanti,discriminati,,indifferenti o diffidenti, alimentati dal lato gagè da un plurisecolare ed ingiustificato senso di superiorità etnocentrica,accompagnato da una svalutazione dell’Altro o delle culture o forme di vita considerate minori, e dal lato romanì ad un senso di disistima, fragilità e frustrazione frutto di plurisecolari e subita esclusione, colonizzazione, rifiuti, diffidenze, stereotipi, stigmi,violenze, persecuzioni e stermini, che li spingono a sfide donchisciottesche spavalde,assurde e perdenti ed autodistruttive.
Le reciproche frequentazioni tra gagè e romanì, che il poeta Aladin Sejedic vive ed auspica, hanno messo a nudo questa lunga inimicizia, scoprendosi gli uni non molto diversi dagli altri, come ci canta de André nella guerra di Piero, che non è solo da considerare un testo antimilitarista ma anche antidiscriminatorio: “E mentre marciavi con l’anima in spalla, vedesti un uomo in fondo alla valle, che aveva il tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”.
L’origine di questa stigmatizzazione anti-zigana non è di facile comprensione a nessuno, e si perde nella notte dei tempi, ma tracciare delle ipotesi non è scientificamente errato: se partiamo da quel ‘primo contatto’ o ‘first contact’ come ce lo enuncia e ce lo riferisce l’antropologo Leonardo Piasere attraverso l’analisi delle cronache locali bolognesi di quella lontana domenica 18 luglio 1422 tra genti locali bolognesi e ‘pellegrini-egiziani in viaggi d’espiazione’, scopriamo subito che la loro nomadicità o erranza, non è una caratteristica saliente di quella comunità, ma forzata dalla condizione di fuggiaschi, rifugiati ed esiliati dalle terre balcaniche da poco divenute mussulmane e turco-ottomane, ma anche da esplicite richieste politiche e religiose dell’ospitante imperatore del sacro romano impero, contemporaneamente Re di Lussemburgo, Boemia ed Ungheria.
Questa loro esistenza di pellegrini-egiziani e da lì a poco considerati in Italia come nel resto d’Europa come stranieri-interni, per di più intrappolati dentro l’Europa e lo sarà per molto tempo,messi nell’impossibilità di fare ritorno alle terra o da cui provenivano e fuggivano, cozza da subito contro la sedentarietà, la territorialità e le visioni di mondo delle altre genti italiane ed europee,le quali manifestano immediatamente un sentimento ambivalente nei loro confronti, da un lato d’irresistibile curiosità e dall’altra d’ostilità soprattutto verso quella loro improvvisata e per alcuni versi costretta dalle circostanze, ‘arte d’arrangiarsi ed arrabattarsi”;
non è tanto il commercio dei cavalli svolte dagli uomini, o le attività di predizione chiromantica del presente ed del futuro delle donne egiziane-pellegrine a creare malumore tra le genti bolognesi, ma la sottovalutazione che fanno i pellegrini-egiziani della proprietà privata, fatta di piccole sottrazioni di beni, che probabilmente giustificano come contropartita per le loro attività divinatorie fornite alla popolazione, indotta anche dallo ‘stato di necessità’, dato dalle condizione di estrema indigenza in cui si trova la comunità egiziana-pellegrina che i bolognesi ignorano, e che ritengono e giudicano come ‘furti’;
uno scontro di difficile conciliabilità tra stato di necessità, visioni antropologica -anti-utilitarista e comunitaria della condivisione o del dono,di cui ci ha parlato l’antropologo Marcel Mauss, a proposito delle comunità native, ed una visione utilitarista ed individualista mercantile (o proprietaria) delle società cittadine borghesi e medievali,
conflitto che rappresenta per le autorità comunali bolognesi anche un caso diplomatico, trattandosi di una comunità di pellegrini muniti di salvacondotto imperiale, che garantisce immunità penali, ed autonomia politica, amministrativa e giurisdizionale, un’imperium proprio,per alcuni versi assoluto o sciolto da ogni altro vincolo, ma anche etico-sociale essendo dei pellegrini in viaggio d’espiazione verso la città santa, che impone ai fedeli l’obbligo etico-sociale di fornire ospitalità, doni ed offerte di sussistenza al viaggio.
Le autorità comunali e papali sciolgono il dilemma diplomatico e religioso, proponendo ai deprivati o derubati bolognesi una contropartita, tra cavalli dei pellegrini-egiziani e i beni sottratti loro, che si conclude pacificamente per entrambi, con i pellegrini-egiziani costretti a restituire i beni sottratti e i bolognesi il cavallo preso in ostaggio come contro-scambio;
il comportamento verso ‘le proprietà’ viene documentato diversamente nelle cronache delle città attraversate dai pellegrini-egiziani, per esempio, là dove ricevono piena accoglienza, fatta di ospitalità, doni ed offerte come la città di Lucca non ci sono denunce di furti a loro carico, anzi si tessono lodi nei confronti degli ospitati,a differenza delle cronache di Bologna e di Forlì, ove nella città di Bologna, al duca Andrea e alla moglie, rappresentanti politici ed amministrativi della comunità pellegrina ed egiziana, viene riservata un’accoglienza da re, mentre alle altre centinaia di donne,bambini e uomini, una semplice ospitalità che si limita ad alloggiarli nei porticati, dentro e fuori le mura, di Porta Galliera, nei pressi del Campo Magno (ora Piazza 8 agosto), ove possono commerciare cavalli e altre oggetti di loro possesso.
Da queste cronache si può ben dire che non è nella ‘natura’ nè tanto nella ‘cultura’ dei pellegrini-egiziani ‘rubare’ ma è piuttosto lo stato di necessità che li si impone. Come dice il filosofo Simmel: “non sono ‘criminali’ i poveri, ma lo è piuttosto la povertà”.
Ben presto dopo il loro lungo pellegrinaggio a Roma dal papa (durato più di sette anni, ed iniziato dalle terre ungariche-boeme nel 1415), imposto loro dall’imperatore Sigismondo per espiare la loro colpa d’apostasia,o di essersi convertiti ‘forzatamente’ dai turchi-ottomani’ all’islam, e la fuga lo convalida, si scoprono confinati all’interno di uno spazio chiuso continentale europeo senza la possibilità di fare ritorno in quelle terre d’oriente (Balcani e Bisanzio) da cui provenivano e dove stanziarono per alcuni secoli, occupate ora dai turchi-ottomani, e nello stesso tempo via via percepiti e considerati dai locali -sedentari italiani ed europei come ‘stranieri interni’ alla stregua degli ebrei (più barbari o stranieri, inferiori o privi di cultura latina e cristiana, che hostis, nemici che portano guerra ai cives, o peregrini, o forestiero esotico) a cui viene loro imposto dalle città o dagli stati di transito, di adeguarsi non solo alle loro leggi, ma a partire dal ‘700 da parte di Maria Teresa d’Austria, despota illuminata o che governa in modo illuminista, sui principi dell’illuminismo (tolleranza delle minoranze religiose,sottrazione dell’insegnamento religioso al clero, estensione delle tasse alla nobiltà ed al clero)e nei secoli successivi nei nuovi stati risorgimentali e borghesi (monarchie parlamentari o repubbliche), in cui viene riconosciuto agli stranieri-interni lo status di cives (o cittadino), ma anche obbligati a sottoporsi ad una dura assimilazione o colonizzazione ai costumi,tradizioni, lingue e culture dominanti (in cui s’imponeva a tutti i cittadini ‘maschi’ la leva militare ed ad entrambi i sessi l’obbligo scolastico); la scolarizzazione consisteva nell’alfabetizzazione e nell’apprendimento delle culture nazionali dominanti, con totale indifferenza e sottovalutazione verso le lingue e culture minori, che venivano ‘tagliate’ per usare un’espressione comune diffusa.
Altre minoranze di genere e culturale nell’Europa cristiana e borghese furono marginalizzate e molto spesso processate e bruciate (da parte di tribunali religiosi protestanti e cattolici): in particolare le streghe’, riconosciute dal femminismo contemporaneo come ‘donne sagge’, spesso accusate da quei tribunali d’ insegnare ad altre donne metodi contraccettivi e di controllo della fertilità, al fine di realizzare un’autonoma ‘autodeterminazione’ sui propri corpi (del mio corpo decido io);
prima di allora la gravidanza o la sua interruzione veniva decisa per via maschile o patriarcale, e la gravidanza spesso consisteva nel gravare la donna e obbligarla ad esclusivi ruoli domestici e di educazione dei figli/e, abbandonando per sempre ogni aspirazione alla realizzazione personale,culturale e professionale.
Lo stesso Paracelso,medico, alchimista ed astrologo, iniziatore di una medicina naturalista ippocratica, basata sulla sperimentazione e l’evidenza,osservazioni cliniche e biochimiche, venne in seguito processato e costretto all’esilio per aver criticato la dominate medicina di tipo medico-sacrale o una medicina teologica-scolastica;
diventato a sua volta un errante per l’Europa, dirà ai suoi studenti che se volevano imparare a curare i loro pazienti “devono recarsi presso le ‘streghe’ (o donne sagge) e le ‘zingare’ (le romanì) che conoscono l’uso delle erbe, delle medicine tratte da esse, della lettura delle mani e delle stelle al fine della conoscenza di sé”, a queste s’aggiungevano gli ‘omosessuali'(oggi Lgbtqi) banditi dalla città santa e bruciati per il loro orientamento sessuale non binario (l’esistenza di molteplicità di orientamenti di genere: culturali, affettivi e sessuali), non volti solo alla riproduzione sessuale, ma al godimento e alla scelta, acquisito attraverso la contraccezione che ‘le donne sagge’ insegnavano ad altre donne, al fine di autoregolare le loro gravidanze, e quindi l’autodeterminazione delle donne, veniva severamente punita con il rogo.
A queste minoranze di genere o sessuali s’aggiunse quella religiosa o linguistico culturale ebraica ritenuta pretestuosamente indegna di abitare la città, in quanto i loro sacerdoti ed il popolo ebraico, a giudizio dei cristiani, si resero complici della crocifissione del Cristo, e per questo accusati ingiustamente di essere degli eredi di quei lontani parenti deicidi), ed inoltre perché alcuni dei loro membri praticavano il prestito con interesse per denaro prestato, attività interdette ai cristiani, pena l’accusa d’usura, considerata attività impura che preferirono delegare ad alcuni banchieri ebrei.
Il nostro modo di assumere in controtendenza una forma ‘mentis’ con sguardi inclusivi ed accoglienti, è ispirata all’universalità diritti, che riconosce dignità e rispetto a tutte le soggettività, comprese quelle considerate per secoli ‘minori’ o ‘indegne’, secondo quanto affermato dall’art.3 della nostra Costituzione Repubblicana (1948) e dai altri molteplici articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (3sezione del 10.12.1948 a Parigi con la risoluzione 217A). Costituzione e Dichiarazione dei diritti conquistate da una comune lotta di Resistenza antifascista ed antirazzista delle genti gagè e romanì(rom e sinti) mossi dal desiderio di una ritrovata convivenza pacifica e civile e di restituiti legami di libertà, giustizia ed umanità. https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn
NOTA:
Nel testo quando trovate l’espressione Rom e Sinte s’intendono le varie ripartizione delle genti Romanì, e Romanì invece s’intende l’insieme di quelli genti che un tempo chiamavamo erroneamente e dai gagè attribuita per eteronomia ‘zingari’.
Gagè sono invece i non Rom (o precisamente il resto dell’umanità).
E per concludere uno dei precursore di questa multi-identità romsintogagiana, cioè Charlie Chaplin, e come altro importante momento di incontro tra la città di Bologna e la cultura romanì.
Parliamo dell’ incontro tra Bologna e Charlie Chaplin, uomo, attore, regista amato e apprezzato in tutto il mondo.
Infatti oggi Bologna oggi conserva nella sua cineteca tutte le opere cinematografiche e non solo, anche poetiche e teatrali, del grande artista, donate dalla stessa famiglia Chaplin cioè tutte le opere (opportunamente restaurate) di quel Charlotto Chaplin del quale è stato riconosciuto nel tempo, da lettere private e da conferme dei figli, la provenienza gipsy romanichal, una variante inglese etno-linguista dei romanì.
Dopo la morte di Chaplin, la figlia Victoria che aveva ereditato l’ufficio del padre, trovò tra le tante cose lasciatele anche una vecchia cassetta sigillata, senza chiave. Per aprirla dovette ricorre ad un fabbro, e all’interno scoprì una lettera indirizzata a suo padre da parte di un anziano signore di nome Jack Hill, che informava l’allora anziano Chaplin di essere nato dalla regina madre di una carovana di ‘Gipsy-romanichal ‘sulla Black Patch a Smethwich vicino a Birmigham.
Lo informava anche che il nonno di Chaplin apparteneva ad un circo che si muoveva per l’Inghilterra con la madre di Chaplin, e che finì per stabilirsi a Londra.
Jack Hill lo accusava in quella lettera, tra le altre cose, di aver mentito alle sue origini, poichè nelle sue memorie dichiarava di essere nato a Londra, ad East Lane, nel sobborgo di Wolworth.
“Se davvero vuoi saperlo, diceva la lettera, tu sei nato in un bel carrozzone nel parco di Black Patch di Smethwick, proprio come me due anni dopo, il 19 aprile 1889 da mia zia, regina ‘Gipsy’, di nome Henty. Il suo titolo di regina le era stato tramandato da Essau Smith il signore dei Gipsy romanichal”.
Il figlio di Chaplin, Michael Chaplin, negli anni successi riconobbe il profilo ‘gipsy-romanichal” della famiglia, e per questo donò ed inaugurò un memoriale per la comunità Black Patch di Smethwitch, nei pressi di Birmighan.[….]
(Gnews, 7 ottobre 2019)
Parlando di Charlie Chaplin, per evidenziarne l’opera e il coraggio, dobbiamo senz’altro ricordare che tra il 1950 ed il 1955, fu oggetto di un’ inchiesta condotta dall’autoritario ed illiberale Mc Charthy, senatore statunitense promotore e membro di una commissione d’inchiesta al Senato, animato da uno spirito cinico e spregiudicato, che mise sotto accusa molte persone di varia estrazione sociale, sospettate di essere ‘spie sovietiche e fautrici del comunismo’ (i tempi della “caccia alle streghe”) , denigrando così il ruolo democratico e critico di molti intellettuali, scienziati ed artisti. Tra questi ci fu anche Charlie Chaplin, accusato di attività anti-americane, e per questo, nel 1952, mentre era in viaggio verso la Gran Bretagna, gli fu tolto il permesso di rientrare negli Stati Uniti.
Era colpevole, secondo il maccartismo, di sovversione contro gli Stati Uniti per quelle sue celebri frasi :
“ Canta, balla, ridi, intensamente ogni giorno della tua vita prima che finisca senza applausi”.
E peggio ancora: “Credo nel potere del riso e delle lacrime come antidoto all’odio e al terrore”. Erano frasi misteriose e dunque pericolose, pronunciate da un saltimbanco con bombetta e bastone di bambù che detestava la società ‘capitalista’ industriale ed aveva fatto innamorare di sé l’intero pianeta [….]
(La Stampa,21 febbraio 2011)
Considerazioni personali
Stranieri-interni e strani incapsulati nell’area occidentale per secoli dopo quel primo esodo che le cronache del tempo ci menzionano.
[…..]
‘un Altro’ che non si conosce e che bisogna scoprire andandogli incontro. L’altro sempre da riconoscere, sempre da reinventare. Come una mancanza, in noi, della parte di noi che è in tutti gli altri.” (P.Ricour)
I romanì (rom,sinti o ròma) nel corso dei secoli sono stati considerati stranieri-interni e strani soggetti,e al pari degli ebrei subirono persecuzioni, discriminazioni, confinamenti, espulsioni e pogrom, ma anche altri/e soggetti: lgbtqi, i disabili, i folli, minoranze religiose e politiche nel corso della storia più recente condivisero la medesima tragedia: deportazioni, stermini: che ognuno chiama con nomi diversi nella sua lingua: shoah, porrajmos o samuradipen, omocaustied oggi le donne vittime patriarcali di femminicidi
“Ma questo cosa significa?
Siamo tutti strani, quali che siano i nomi che diamo ad alcune delle nostre stranezze.
‘Nominare’ dice Maurice Blanchot, è una ‘violenza che mette da parte ciò che viene nominato a beneficio della comodità di un nome”.
In ‘Identità e violenza’, Amartya Sen sviluppa una riflessione sul rischio di rinchiudere le persone in una delle loro ‘identità’.
Abbiamo tutti, osserva Sen, identità multiple e cangianti, che assumiamo nel corso della nostra esistenza e in funzione delle nostre relazioni – identità familiare, professionale, culturale, biologica , filosofica, regionale, spirituale….(di genere)
E la tentazione di rinchiudere le persone, o di lasciare che si richiudano, in una di queste identità multiple come se fosse la sola, costituisce, secondo Sen, la principale fonte di discriminazione e violenza nel mondo.
Una persona,dice, è sempre di più, sempre diversa, rispetto a quel che possiamo- o che essa stessa può – comprendere.
Ed è questa parte essenziale, che sfugge a qualsiasi descrizione, che fa di ciascun individuo una persona al tempo stesso uguale a tutte le altre e simile a nessuna.
….
L’etica, dice Paul Ricour, consiste nel pensare ‘se stesso come un altro.‘ Non accontentarsi,quindi, di pensare l’altro come se fosse me, ma avere l’umiltà di immaginare me ‘come un altro’, ‘un Altro’ che non si conosce e che bisogna scoprire andandogli incontro. L’altro sempre da riconoscere, sempre da reinventare.
Come una mancanza, in noi, della parte di noi che è in tutti gli altri.”
Jean Claude Ameisen, medico e ricercatore, membro del comitato consultivo nazionale di etica.
Parafrasando Ameisen quando parla della sua esperienza con l’asperger Joseph Schovanec, io poterei dire altrettanto delle mie relazioni nel corso degli ultimi anni con i romanì(rom e sinti), “mi ha permesso, tramite il loro sguardo, di scoprire una dimensione della realtà che fino ad allora mi era rimasta sconosciuta.
…
Una lezione di vita. Una lezione d’umanità”.
Io penso diverso di J. Schovanec
[….]
Testo non esauriente ma essenziale per facilitare la comprensione di un evento quale questo che andiamo a ricordare:
non solo come ‘first contact’ (primo contatto) tra egiziani e bolognesi o locali, ma anche come ‘prima natività’ itala-romanì o euro-romanì nella nostra città, che documenta un- ‘ius soli’ plurisecolare italiano ed europeo,un diritto di cittadinanza acquisito per essere nati in un suolo italiano ed europeo.
Un Ius soli lungo ben 600 anni, che pochi possono vantare e documentare, una presenza ancor oggi stigmatizzata con acide ed inumane battute neo-maccartiste alla Meloni: “sei nomade devi nomadare”, una presenza non pienamente riconosciuta nei suoi ‘diritti civili e sociali’,causata da una secolare dispersione che fa venire meno i presupposti della territorialità riconosciuta costituzionalmente ad altre minoranze linguistiche-culturali in Italia, ma soprattutto a pratiche secolari di ‘colonizzazione, repressione ed assimilazione socio-linguistico-culturale’, che altre minoranze con caratteristiche trans-nazionali, quale quella ebraica sono riuscite a preservare, purnella loro multi-identità linguistica e culturale, con ogni probabilità favorita da una memoria letterale, ma agli occhi dei molti ancora oggi anch’essi sono considerati’ stranieri interni’.
Testo elaborato da Pino de March, ricercatore-attivista della Libera comune università pluriversità bolognina e co-fondatore con altre individualità dell’associazione Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti (Tomas Fulli,Marian Sibian, Marina Cremaschi, Francesca Vacanti, Lucia Argentati, Raffaele Petrone ed altri/e) che ha tra i suoi obiettivi la progettazione-memoria di una comunità dispersa, assimilata e disconosciuta romanì Italia (o delle molteplici comunità urbane Rom e Sinta).