La libera comune università pluriversità della Bolognina auto-organizza convivio in cooperazione con la commissione cultura della zona ortiva e con altre singolarità -comuni: Collettivo e rivista – per l’Europa Futura ed il Gruppo ricerca ed azione: Fumanboli – Saperi del basso.
Sabato 23 ottobre 2021
dalle ore 9,00 alle ore 14 (mattina)
(Piano A)
in Zona Ortiva -via erbosa 17 – Bolognina Se il tempo è bello ci troviamo qua, si consiglia di portarvi un piccolo plaid come quando si va a vedere l’alba. Per arrivarci: Giunti alla fermata dell’autobus 11C -ippodromo – di Via Arcoveggio prendere a sinistra Via Fratelli Cervi, in fondo ad essa, all’Asilo nido Grosso, si svolta a a destra in Via erbosa verso il sottopassaggio ferroviario, passato il quale si costeggia campo comunità urbana Sinta, e subito dopo (ci) troverete alla Zona Ortiva Erbosa.
(Piano B) Al Centro Sociale Montanari – Via di Saliceto 3/21 Se c’è maltempo:freddo e pioggia ci troviamo invece qua, Bolognina (sala teatro)
Hanno dato la loro disponibilità a relazionarsi: Gianluca de Fazio, filosofo della rivista Eco/logiche
Paolo de Toni, del ‘Gruppo per ecologia sociale della bassa friulana’ di S. Giorgio di Nogaro (Ud)
Marco Trotta, della rete ecopacifista
Rachele Lapponi, sociologa urbana
Aldo Zanchetta della rete Ivan Illich
Giusi Lumare, Banca ‘Momo’ del tempo
ed altre singolarità: Vincenzo Talerico di Centro studi Berneri Bologna
Giacomo Mascia del collettivo e rivista ‘per Europa futura’
Fabio Carnevali – Gruppo di ricerc-azione: Funamboli – saperi dal basso
Accorda il Convivio Pino de March – ricercatore di relazioni neo-umane e sociali di comunimappe e responsabile della commissione cultura della Zona Ortiva
Passo dopo passo verso un comune inter-pensare e inter-agire trans-ecologico
‘Non cesseremo di esplorare/
Alla fine dell’esplorazione/
Saremo al punto di partenza.
Conosceremo il luogo per la prima volta. Thomas Eliot
(Frammento poetico di un incipit di una conferenza nel 1979 di G.Bateson, all’Istitute of Contemporany Arts di Londra).
Non era il suo uno spunto letterario dice Sergio Manghi, sociologo della conoscenza in un suo articolo sulla rivista ‘exagerare’,ma il modo di intendere la conoscenza di G. Bateson, ovvero l’epistemologia: da intendersi per Bateson come la possibilità di ogni essere vivente di conoscere,pensare e decidere. Ed ogni corpo vivente lo è, dal micro al macro organismo, e tutto è processualità, relazione e conoscenza, senza però trascurare il ruolo degli umani, come esseri ‘ri-e- voluti’ neo-umani , cioè singolarità che condividono un camminano comune verso una rivoluzione ecologica mentale e sociale, e soprattutto consapevoli di queste interazioni tra il ‘naturale’ e ‘l’artificiale’, tra l’ecologico, il mentale ed il sociale, per non cadere una dimensione d’indifferenziato anti-specismo radicale o peggio di biocentrismo.
In uno spazio di convivialità ove il relazionarsi è premessa indispensabile alle nostre relazioni conoscitive e ai nostri metaloghi, ci impegneremo insieme a tessere una trans-ecologia, innanzitutto come sapere delle relazioni e della complessità, non riducibili ad una specificità qualche sia: ambientale o altra, che comunque considereremo indispensabile per tramare questa comune trans-ecologia. opereremo attraversamenti e e sconfinamenti tra territori contigui ed affini, e relative teorie critiche e e pratiche sociali. Ognun@ condividerà proprie cartografie e strumenti di navigazione per ridefinire un nuova cosmologia ecologica sociale e libertaria, Inter-corporea ed Inter-pensante: post-naturalista, post-dualista, post-capitalista, post-coloniale, post-patriarcale ecc;
‘post’ (prefisso) a cui attribuiamo valore temporale e spaziale (un dopo non realizzato ma da realizzare) indicativo di un processo critico micro-politico ed inter-sezionale, agito da soggettività e movimenti di de-codificazione e di de-territorializzazione, in ogni spazio-tempo di vita, sottoposta a logiche di assoggettamento e di dominio, per affermazioni eco-logiche di una ‘molteplicità di forme di vita’, in un mondo di vita comune, o foresta di viventi e di segni.
“Ma al di là di questo, o meglio insieme a questo, mi sembra di cogliere nella forma – metalogo in modo assai efficace per accostare una delle questioni maggiori che stanno nel cuore di questo tragico secolo e che interrogano in profondità le nostre pratiche di scienziati sociali, Bateson le esprime sinteticamente così:
“io credo che questa massiccia congerie di minacce all’Uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nella nostra abitudine di pensiero a livelli profondi ed in parte inconsci (Verso una Ecologia della Mente, pp.507-508)
La frase mette in scena, per così dire, un nesso circolare, di reciproca conferma, tra nostre colpevoli abitudini comportamentali e la distruttività praticata, quasi intenzionalmente, nei rapporti micro e macro-sociali e nei nostri rapporti con gli eco-sistemi in cui viviamo, e le nostre innocenti ‘abitudini’ di pensiero.
Abitudini, queste ultime, che a livelli profondi ed in parte inconsci abitano sia le pratiche sociali distruttive sia quelle socialmente delegate (ed auto-delegate ) ad indagare sulle cause di tale distruttività.
La via dell’inferno, oltre che di buone intenzioni, è lastricato anche di buone spiegazioni.
La condizione in cui veniamo a trovarci intravista questa circolarità, è da vertigine.
Mentre pensiamo a come far fronte a quelle minacce, dovremmo sospettare, auto-riflessiva-mente, dello stesso modo di pensare che stiamo mettendo in atto.
Condizione terribile: per cambiare i nostri modi di pensare, scrive infatti Bateson in un quasi-aforisma quasi nietzschiano, ‘dobbiamo attraversare la minaccia di quel caos dove il pensiero diventa impossibile (V.E.M, p.132)
Dove diventa impossibile, cioè, pensare secondo le nostre abitudini più innocenti: quelle, per esempio, ancorate alla fede (‘anglosassone’) nel chiaro linguaggio della ragione, dualistica mente separata dalle emozioni e dai loro ‘oscuri’ linguaggi interattivi, relazionali sociali.
La forma-metalogo è insomma il modo in cui Bateson si prova a ‘giocare’ il dualismo delle nostre abitudini di pensiero e d’azione, il suo modo di attraversare la minaccia di caos dove il pensiero diventa impossibile.(Sergio Manghi)
Una trans-ecologia consapevole non può non focalizzare la propria critica sul “plurisecolare naturalismo filosofico’ (cartesiano, positivista)imposto e costituito come blocco centrale (verticale, separato e frontale) degli/dagli umani considerati origine di ogni inventività e decisione, ma soprattutto come blocco dissociato dal mondo della natura che ritiene disponibile ed avverso alla nostra sopravvivenza, che ora preferiamo chiamare ambiente “(Descola, antropologo)
Però “Per non cadere in un antispecismo radicale bisogna ridomandarsi che cosa sia la natura?
La natura è un ricchissimo insieme di epistemologie naturali; come si può infatti affermare una sorta di antispecismo radicale, che riconosce nell’intera natura l’esistenza di capacità conoscitive e di auto-organizzazione in equilibrio globale non gerarchico?
Per me si tratta di forme e strategie conoscitive mutevoli e adattive che vivono in nicchie locali, ma sono inserite in un ambiente universale cosmologico; le epistemologie naturali sono necessariamente una sintesi di tutti questi elementi” (Paolo de Toni)
In primis evidenziare e far emergere le sommerse ‘concatenazioni esistenziali di una “lunga catena di relazioni incrociate, tra umani, piante, animali, divinità, paesaggi, antenati ….'(Descola), e non solo,ma anche linguaggi, strumenti e tecnologie come mezzi che hanno come fine la realizzazione di sé, o di sé con gli altri (un farsi naturale e sociale e viceversa o diremmo oggi ecologico e sociale) che hanno accompagnato la vita de@ Sapiens.
Su questo il contributo di Illich ci può aiutare a chiarire questa sovrapposizione tra funzione strumentale e funzione sistemica: “All’altro estremo dello spettro che va dall’inizio a quella che secondo Illich è la fine dell’era tecnologica o strumentale, l’attuale confusione tra mezzi e fini rende difficile una chiara definizione di che cosa è uno strumento. E qui possiamo chiederci: questa confusione non è forse segno di una certa deriva della percezione della tecnologia verso un atteggiamento di cieca sottomissione a ‘strumenti’ che, precisamente nella misura in cui diventano oggetto di venerazione religiosa, cessano di essere quello che erano, ovvero artefatti utili che possono essere rimessi nella loro scatola dopo l’uso? Se gli strumenti smettono di essere strumenti propriamente detti, che cosa diventano? …… Sia la strumentalità (la natura dello strumento occidentale) che l’economia sono espressione della logica dei mezzi e dei fini. In entrambi i casi, questa logica sfocia nel proprio capovolgimento: i mezzi diventano fini in sé, ed una venerazione quasi religiosa circonda sia il pensiero unico, auto-referenziale, dell’economia, sia la super potenza dei mezzi tecnici che non hanno altra finalità (anch’essa autoreferenziale se non la propria potenza). …… ”Liberata da ogni restrizione, innalzata a fine di se stessa, la strumentalità tecnica si trasformò (fin dall’alba della modernità ) in un imperativo quasi religioso e ritorcendosi contro l’umano. Separata, svincolata dall’insieme delle relazioni culturali ed etiche ereditate dal passato, nel mondo moderno la Tecnica minaccia di convertirsi in un sistema autonomo che, obbedendo alla logica implacabile dell’efficienza, tende a colonizzare progressivamente tutti gli ambiti di vita. (E in questo passaggio Illich prende in considerazione il pensiero di Jacques Ellul, espresso nel ‘Système technicien’, e dichiara la aperta filiazione e debito nei suoi confronti.”
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Dalla fine del Medioevo, ciò che caratterizza gli strumenti erano le intenzioni di chi li utilizzava, generalmente espressa con la parola ‘per’. Agli inizi degli anni ’90, Ivan Illich formulò l’ipotesi che la cultura occidentale e le culture occidentalizzate, abbandonate dagli strumenti che erano loro familiari ed invase da artefatti dalle intenzioni poco chiare, si erano orientate, anche ancora velatamente verso un ‘addio agli strumenti’ che le scuote alle fondamenta. E si reso conto che la nozione di strumento, che aveva guidato i suoi studi storici e le sue analisi della società contemporanea, stava per andare in pezzi. O meglio che la categoria ‘strumentalità’ era arrivata a coincidere con la società stessa, ed era diventata un fine in sé, non avendo più nulla al suo esterno. Cominciavano allora a proliferare artefatti che: – Non possono essere definiti come mezzi che perseguono fini chiaramente determinati; – Non sono più (e non sono più soltanto) al servizio di intenzioni personali; – Non hanno più un rapporto diretto con il corpo che li utilizza. Avendo perduto ogni limite, questi artefatti non sono più strumenti in senso proprio. Illich li definì ‘sistemi’. […] Per Illich lo strumento occidentale rimaneva esterno al corpo di chi lo utilizzava, per usare un suo termine, aveva con esso una relazione di ‘distalità’, nel senso di una distanza che era costitutiva della fra l’utilizzatore e lo strumento, e permetteva al primo di valutare se prendere o lasciare il secondo. […] A Partire dagli anni settanta, questa relazione conobbe un’inversione, preludio della sua scomparsa: cominciarono a proliferare nuovi artefatti, sempre definiti come strumenti ma privi di distalità. La perdita di questa caratteristica è l’avvento di artefatti che inglobano il corpo di chi lo utilizza e se ne impadroniscono, e questo sarebbe la ragione profonda dei crolli (smottamenti) che cominciarono a susseguirsi sempre più velocemente a partire dagli ’70 ed ’80. [….] Alla fine del XX sec., osserva Illich, molto di ciò che ancora chiamavamo ‘strumenti’ non corrispondeva più ad intenzioni semplicemente umane: erano diventate ‘a-umane’, un termine che secondo me, corrisponde al significato di ‘sistemiche’. [….]
Non abbiamo concetti per definire ciò che ‘viene’,visibile nei nuovi artefatti che proliferano da ogni parte. L’unica cosa che possiamo dire è che questi ultimi non corrispondono più all’idea classica di strumento. Possiamo chiamarli ‘sistemi’ e osservare a loro volta coloro che li utilizzano non sono più ‘professionisti’ in senso classico, ma gentili facilitatori che svolgono la funzione di interfacce che trasformano i loro clienti in sotto sistemi e assegnano loro i simulacri di percezione necessari per questa trasformazione. Non è più possibile accorgersi del fatto che l’incorporazione degli utilizzatori nel sistema preclude la possibilità di vedere quest’ultimo come uno strumento che sta di fronte al corpo. Un’altra riflessione deve condurci a meditare sull’uso della parola tecnologia nell’era dei sistemi. Il termine ‘tecnologia’ non ha cessato di evocare gli odori, gli oli ed i ritmi degli strumenti, ed applicarlo ai silenzi punteggiati di ‘clic’ dei sistemi erige le ‘tecnologie’ ad antecedenti dei sistemi stessi, creando una falsa linea di continuità. E’ compito della filosofia della tecnica denunciare questo inganno: presentare i sistemi come una tecnologia è un tranquillante, un velo gettato su un cambiamento storico a partire dal quale, dagli anni ’80, si profila un mondo che ancora non ha nome. [….]
Sotto la luce implacabile dei sistemi nascono nuovi ‘bisogni’, e una volta che si sono imposti, non possiamo più pensare il mondo senza di loro. Di fronte a questi nuovi bisogni senza frontiere, dobbiamo fare un autodafé (atto di fede) delle cosiddette ‘app’? O dobbiamo spostare la luce sotto cui le esaminiamo, con la speranza di illuminare quello che lasciano nell’ombra? Uscire dal virtuale per ripristinare certe distinzione tra effetti materiali ed effetti simbolici? Ristabilire certe distinzioni tra il mio corpo e i sistemi che pretendono di ridurlo ad un sotto-sistema? Non sarebbe il caso di affrontare l’argomento del divario tra l’apparente carattere di strumento del mio computer e le reti illimitate in cui mi coinvolge?
Frammenti tratti da ‘L’età dei sistemi nel pensiero dell’ultimo Illich’ Jean Robert. (Saggio non per dire la ‘parola ‘fine’ su quello che è stato il pensiero di Illich, ma per invitare i lettori al difficile impegno di perseguire il cammino ma concluso, come ha fatto Illich per tutta la vita. Come vivere oggi, qui, nell’età dei sistemi, della tecnologia dominate, dell’intelligenza artificiale o dell’ecologia dei sistemi digitali)
Gli sguardi ecosofici di F. Guattari che ci presenta De Fazio, e poi di seguito gli spunti di Prisca e di Bookchin ci permettono forse di non cadere in un indistinto ambientalismo oppure in un indifferenziato antispecismo radicale di cui ci ammoniva De Toni, ma anche a ridefinire il ruolo neo-umano delle nuove soggettività critiche ed eco-logiche :
“Uno degli apporti più innovativi della riflessione di F. Guattari alla questione ecologica è di averla smarcata da un’impronta strettamente ‘ambientalista’ attraverso un processo di ‘de-naturalizzazione’ delle analisi e degli oggetti di studio ecologici’.
Ad esemplificarlo, basti leggere quel che scrive F. Guattari in apertura del suo saggio le ‘Tre ecologie: ‘L’ecologia ha questo d’eccezionale,è stata dapprima una scienza e successivamente si è trasformata in modo tale da diventare una delle principali scommesse politiche ed etiche della nostra epoca’.
Certo l’ecologia scientifica continua a conoscere un grandissimo successo, del resto la scienza, maggiormente in senso ecologico e trans-disciplinare è uno dei saperi complessi
[……]
ma, al contempo, sembra che soltanto una presa di coscienza globale da parte dell’umanità dei problemi che essa pone possa permettere di giungere a soluzioni su una scala adeguata.
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Pertanto la crisi ecologica rinvia ad una crisi più generale del sociale e del politico.
A partire dunque dalla convergenza tra ecologia e riflessione etico-politica, la sua proposta teorica nota come Eco-sofia si articola su tre registri ‘ecologici’ complementari che determinano, ciascuno, tanto un ambito d’analisi, quanto un campo di operazioni pratico-teoriche: quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e dello della soggettività. Molti sono i livelli sul quale si potrebbe (e forse, data la carenza di studi in proposito, si dovrebbe) imbastire un lavoro tanto teorico quanto politico.”
(Gianluca de Fazio,filosofo)
Per quanto riguarda il pensiero ecologico e ‘la soggettività’ di cui si parla nelle relazioni dei vari autori (che U.Fadini a T.Villani presentano) in eco/logiche, saggio critico a più voci e mani, la domanda di Prisca che poi attraversa tutti@ in modo corale è : ‘che farne del soggetto?
Però lei vi aggiunge che ‘la soggettività non va solo riconsiderata ma anche ristrutturata.
Ed in questo riattamento non possiamo trascurare il soggetto che ci ha accompagnato nella nostra civilizzazione occidentale: un soggetto che domina la natura stessa e ne aliena tutte le altre soggettività che non siano maschili e bianche (e proprietarie aggiungerei)”.
(Prisca Amoroso,filosofa)
Per Bookchin invece la principale causa dell’attuale disastro ecologico è quindi da individuarsi nella logica della dominazione, da intendersi nel più ampio senso possibile, come risulta in suo importante ‘contributo a ‘Cara ecologia’ del 1980, pubblicata da Anarcopedia:
“Ho sempre pensato che ecologia fosse sinonimo di ecologia sociale e perciò ho sempre nutrito la convinzione che la stessa idea di dominare la natura deriva dalla dominazione dell’uomo (non come genere indistinto, ma di maschio, bianco e proprietario) sull’uomo (come genere umano indistinto), dell’uomo (come maschio e patriarca) sulla donna (e sugli altri generi trans-femministi lgbtqi, aggiungeremo oggi), di un gruppo etnico su altro (o su culture minori), dello stato sulla società, della burocrazia (o tecnocrazia) sull’individuo, così come di una classe economica(borghese o proprietaria) su un’altra (subalterna) e dei colonizzatori sui colonizzati.
[….]
Il punto di partenza dell’ecologia sociale consiste dunque nella constatazione che il ripristino dell’equilibrio tra gli esseri umani e la natura, necessario per la sopravvivenza del genere umano, deve per forza passare attraverso un cambiamento delle relazioni sociali che porti all’eliminazione della gerarchia e del dominio.
Per l’ecologia sociale quindi “i problemi fondamentali che pongono la società contro la natura nascono all’interno dello sviluppo sociale stesso, e non tra la società e la natura. Ponendo l’attenzione sugli aspetti sociali dell’attuale crisi ecologica, l’ecologia sociale si distingue in questo modo sia dall’ecologia “umana” che da quella “profonda”: in particolare il termine “sociale”vuole sottolineare che non possiamo più separare la società dalla natura così come non possiamo separare la mente dal corpo.(M. Bookchin)
Infine un altro approccio antropo-ecologico interculturale è quello di Descola che ci accompagna nella foresta vivente dei nativi Sarayaku, e solo da quell’internità possiamo cominciare ad immaginare nuovi rapporti cosmologici tra noi,la strumentalità e gli altri esseri viventi.
“Lo studio interculturale delle modalità di oggettivazione dei non umani pone un problema non secondario: popoli non moderni tendono ad attribuire a piante e animali molte caratteristiche della vita sociale.
Questi popoli a lungo definiti ‘naturali’ non sono per niente ingabbiati nella natura, perché gli oggetti e gli esseri che li circondano si adeguano in realtà a molte regole della società;
ed una natura dotata di molti attributi dell’umanità non è più natura.
Come dimostra l’antropologia, numerose società nel mondo non separano la cultura e la natura come se fossero due realtà incompatibili: questa è una distinzione recente nella storia dell’occidente di cui dovremmo veramente fare a meno, se si riflette sui mezzi che l’umanità ha usato per oggettivarsi nel mondo.
Non bisogna stancarsi di ripetere quindi che la nostra cosmologia è una condizione storica recente e non un riferimento eterno.
Ma quali allora le conseguenze della consapevolezza che possiamo vivere in una cosmologia singolare, non condivisa da tutti?
Una delle conseguenze del naturalismo è che ci induce a considerare i territori che occupiamo prima di tutto come sistemi di risorse e allora questi diventano vere e proprie pattumiere dell’umanità.
In altri modelli d’identificazione ancora molto vivi sulla superficie della terra e che gli etnologi contribuiscono a far conoscere, invece è la terra che possiede gli umani non il contrario.
Ci sono esempi molto diversi a questo proposito in cui l’autonomia ontologica dei territori s’afferma a seguito di conflitti con le forze predatrici del capitalismo.
E’ il caso dei Sarayakiu, comunità dell’Amazzonia equatoriale minacciata di espogliazione dalle compagnie petrolifere.
In un documento presentato ad una passata Cop 21
(Conferenza delle parti della Convenzione sul cambiamento climatico, tenutasi a Parigi nel dicembre 2015, alla quale hanno partecipato 195 Stati e molte organizzazione non governative internazionali),
i delegati Sarayaku domandavano a nome della propria comunità che venisse riconosciuto il territorio che abitavano,(ma sottolineavano) e dichiaravano di condividerlo con un gran numero di altri esseri.
Essi volevano che il riconoscimento venisse identificato con ‘Foresta Vivente’ espressione della lingua Quechua (che include molte lingue emergenti dal vasto impero Inca, e si pronuncia ‘Checiua o Chiciua).
La ‘Foresta vivente’ è composta di tutti gli esseri che la abitano e si relazione in quella macrocosmo condiviso.
Tutti gli esseri dalle piante più piccole fino agli spiriti protettori della foresta, sono esseri che vivono in un mondo di vita comune, e svolgono al loro esistenza con modalità simili a quelli degli umani.
Ciò che è interessante notare di questo documento è che non parla di diritti da riconoscere alla natura in genere, dato che la natura è una pura astrazione.
Il soggetto del diritto politico qui non è rappresentato nè dagli umani, nè dai non umani, ma dalle relazioni assolutamente singolari che essi intessono tra loro.
Niente ci vieta d’immaginare che l’autonomia ontologica (che riferisce all’essere in generale e alle sue strutture reali) dei territori si possa tradurre anche in autonomia giuridica e, che si stabilisca un diritto di questi nuovi soggetti politici.
Non tanto come esseri singolari ma come ecosistemi o ambienti di vita (mondi di vita comune), indipendenti dalle loro nature.
Esseri comuni come bacini idrici, massicci montuosi, città, quartieri, litorali, zone ecologicamente sensibili, mari e stretti ecc.
Tratto da Philippe Descola, antropologo francese, Il Manifesto 6/10/21.
Aggiungerei anche la nuova strumentalità: i molteplici saperi e linguaggi
con le relative intelligenze aumentate connettive, emotive e meccaniche operano per l’affermazione di una co-esistenza neo-umana ed inter-specista, non di sopravvivenza che comporta inimicizia, predazione, sopraffazione verso mondo di vita comune (che si traduce in estinzione) o in auto-distruzione tra umani (in guerre infinite).
Si tratterebbe di una vera ecologia politica, e cosmopolitica che non si limiterebbe a stabilire diritti intrinseci alla natura, ma avrebbe lo scopo di far si che i luoghi di vita (o mondi di vita comune in senso illichiano) con tutto ciò che li costituisce compresi gli umani diventano soggetti politici.
Una cosmologia condivisa da tutti gli esseri terrestri nè bio-centrica nè atropo-centrica, che prefigura una ‘molteplice soggettività‘ in un mondo di vita comune in una nuova immaginata era: il Koinècene.
Concluderemo con un sobrio pranzo comune (che ci faremo portare dal cucina bio a k zero )
ALLE 15: Parteciperemo in città alla manifestazione della rete delle lotte ambientali in vista della Conferenza delle Nazioni Unite -Co 26 del 2021 a Glasgow sui cambiamenti climatici.
Per partecipazione al Convivio – scrivete al seguente indirizzo:comunimappe@gmail.com
Testo elaborato da Pino de March per Comunimappe e per la Commistione cultura della zona erbosa.
Info: www.comunimappe.org