Bologna città aperta e nuovi processi di trans-culturazione: simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale stuzzicheria accompagnata da un buon vinobio-rosso con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherdò in romanes), frantumate(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

         “                                                                  

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco “aner”, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale api-cena con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione: www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI di dom,lom o rom                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

autopoieticene : tempo di nuovi paradigmi, di nuove visioni di mondi di vita eco-poetica-sociale, di transculturazioni e nuove pratiche di relazioni liberazione intersezionali e trans-femministe (tra classi subalterne della produzione e della riproduzione).

In questa tragica età di Capitali predatori di mondi di vita(il capitalcene) e di tossica esistenza autodistruttiva umana (l’antropocene) dominata da paradigmi secolari euro-antropocentrici,dualismi cartesiani e relazioni umane narcisiste,utilitariste e liberiste a cui s’accompagnano sintomatiche manifestazioni apococalittiche e pestilenzilali:emozionali (populista,nazi-fascio-elettronica, fanatismi ed autodistruzioni “creative”), climatiche (ghiacciai millenari che si sciolgono, foreste native che bruciano,uragani e tempeste che si moltiplicano e s’abbattono come scure sue paesi e foreste, deserti che avvanzano,cavalette che divorano tutto ciò che incontrano di vegetale ) a pandemie virali (ebola,sars e altre silenti) e migrazioni ed esodi epocali),umane crisi di presenza che determina il disconoscimento di mondi e significati, la polarizzazione schizo-paranoniede tra grammatiche e sintassi digitali e semantiche relazionali umane e neo-umane.

SOLO

la poesia riflessiva singolare e comune , la ricerca attiva di significati, le culture umaniste (post-antropocentriche e post-coloniali) e le scienze (non dualiste) e non asservite ai sistemi dominanti, i nuovi saperi sociali forgiati nei nuovi conflitti e attraversati dalle maree di liberazione possono immaginare nuova era planetarie Costituente-Terra e Comune Cooperazione tra tutti gli esseri viventi : nuove sensibilità e alleanze tra umani, non umani ed artefatti (ed enunciare l’autopoieticene, emergente concetto per mutati affetti e percezioni terrestri ).


ETIMOLOGIA:

Antropocene coniuga la parola greca “antropos” con il suffisso “cene” che proviene dal greco kainos, con il significato di “nuovo”o “recente”, per suggerire l’ingresso in una nuova epoca dominata dall’attività umana.
Poieticene:

Coniuga invece la parola greca “poietikos”,derivata da poiesis, o ciò che viene creato attraverso l’attività poietica dell’élan vital(lo slancio vitale)dell’immaginale umano e sociale ed il suffisso “cene” che proviene dal greco kainos, con il significato di “nuovo” e “recente”, per suggerici invece l’ingresso in una nuova era di ricerca critica e di azione di corpi terrestri di liberazione contro tutte le forme di dominazione che si presentano complesse, non banalizzabili o semplificabili, di diversa intensità, trasversalità ed intersezionalità, nell’invisibilità di duplici, triplici o quadruplici oppressioni o sfruttamenti (di classi, culture, generi ed algoritmi-postumani). I significanti di nuovo sono importanti per rendercele visibili , nominarle ed orientarci ed innanzitutto per ricercare nuovi significati, stili e forme di vita che intrecciano il vivente (i molteplici mondi di vita) sempre singolari e sempre comuni.

E per contestare le tesi negazioniste “che il riscaldamento globale attuale è parte della naturale variabilità climatica” non alcun significato scientifico.

“Le persone che liquidano con sufficienza il cambiamento climatico spesso affermano che il riscaldamento della terra è solo parte di una “variabilità naturale del clima”. Però uno studio pubblicato a luglio 2109 su “Nature” (la più importante rivista scientifica) ha messo a tacere questa argomentazione. Gli autori hanno mostrato che nei 2000 anni passati, gli anni caldi e quelli freddi, si sono intervallati regolarmente e che addirittura i periodi più caldi e più freddi sono avvenuti solo in aree circoscritte e in un momento specifico, ma in tutto il globo simultaneamente. Il riscaldamento attuale, al contrario, sta avvenendo nel 98% del pianeta, contemporaneamente, dal 1900 circa fino ad oggi. “Ed è del tutto differente”, afferma Raphael Neukom dell’Università di Berna, in Svizzera, che ha diretto la ricerca. Tutte le regioni del Pianeta si stanno riscaldando senza sosta all’unisono(simultaneamente e di uguale intensità).
Mark Fischietti

Le Scienze – edito a novembre 2019

Antropocene -termine coniato dal premio nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen per definire l’era geologica in cui l’ambiente terrestre, inteso come insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita è fortemente condizionato a a scala sia locale che globale dagli effetti delle attività umane. In questo periodo l’impatto degli umani sugli ecosistemi si è progressivamente incrementato….traducendosi in alterazioni sostanziali degli equilibri naturali (scomparsa delle foreste tropicali e riduzione della biodiversità, occupazione di circa il 50% delle terre emerse, sovra-sfruttamento delle acque, uso massiccio dei fertilizzanti sintetici in agricoltura ed emissioni di grandi quantità di gas serra in atmosfera ecc..).
ANTROPOCENE O CAPITALOCENE? SULLE ORIGINI DELLA NOSTRA CRISI
(Parte I: estratto dall’ecologia e l’accumulazione del capitale ).
Jason W. Moore
Quando e dove è iniziata la relazione moderna dell’umanità con il resto della natura? La domanda ha acquisito nuova importanza con la crescente preoccupazione dell’opinione pubblica per l’accelerazione del cambiamento climatico. Negli ultimi dieci anni, una risposta a questa domanda ha affascinato sia il pubblico accademico che quello popolare: l’Antropocene.

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l’autore
Jason W. Moore storico dell’ambiente e docente di economia politica presso il Dipartimento di sociologia della Università di Binghamton negli Stati Uniti, è membro del Comitato esecutivo del Fernand Braudel Center for the Study of Economies, Historical Systems and Civilizations. Capitalism in the Web of Life: Ecology and the Accumulation of Capital (Verso, 2015) è uno dei suoi ultimi lavori. Per i nostri tipi: Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato (2015).
È, nella frase adatta di Paul Vooser, “un argomento racchiuso in una parola” (2012).
Ma che tipo di argomento è? Come per tutti i concetti di moda, l’Antropocene è stato oggetto di un ampio spettro di interpretazioni. Ma uno è dominante. Questo ci dice che le origini del mondo moderno si trovano in Inghilterra, proprio verso l’alba del XIX secolo (Crutzen and Stoermer, 2000; Crutzen, 2002; Steffen, Crutzen e McNeill, 2007; Steffen, et al , 2011a, 2011b; Chakrabarty, 2009; Davis, 2010; Swyngedouw, 2013). La forza motrice dietro questo cambiamento epocale? In due parole: carbone e vapore. La forza trainante dietro carbone e vapore? Non di classe. Non capitale. Non imperialismo. Neanche la cultura. Ma … hai indovinato, gli Anthropos . L’umanità come un tutto indifferenziato.
L’Antropocene è una storia facile. Facile, perché non sfida le disuguaglianze, l’alienazione e la violenza naturalizzate inscritte nelle relazioni strategiche della modernità di potere, produzione e natura. È una storia facile da raccontare perché non ci chiede di pensare a queste relazioni. Come metafora per comunicare il significativo – e crescente problema – posto dalle emissioni di gas serra e dai cambiamenti climatici, l’Antropocene deve essere accolto con favore. Ma l’argomento antropocenico va ben oltre. Per Will Steffen e i suoi colleghi (2011b), la grande ispirazione concettuale per le loro analisi della nostra congiuntura attuale – e come siamo arrivati a questo sfortunato stato di cose – non è Darwin o Vernadsky, ma Malthus. Il loro antropocene è quello in cui le crisi odierne sono inquadrate e spiegate dai panorami neomalthusiani della scarsità di risorse (picco di tutto) e della popolazione in aumento.
Da questo punto di vista, potremmo fare tutti un po ‘di tempo per fare un passo indietro e chiedere: l’argomento antropocenico oscura più di quanto illumini?
Quasi certamente. Soprattutto, l’argomento antropocenico oscura e relega al contesto, le relazioni effettivamente esistenti attraverso le quali donne e uomini fanno la storia con il resto della natura: le relazioni di potere, (ri) produzione e ricchezza nella rete della vita.

il libro

ANTROPOCENE O CAPITALOCENE?

Sulle origini della nostra crisi: di J.Moore
Che i drammatici cambiamenti climatici degli ultimi decenni siano dovuti alle emissioni antropogeniche di gas serra è un fatto acclarato, che non suscita serie controversie se non da parte di qualche sparuta setta negazionista. Quali siano le conseguenze di tale situazione è invece oggetto di discussione. Sempre più spesso si sente parlare, nei circoli accademici ma anche sui mass media, di “Antropocene”. Il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, che ha coniato il termine, intende con esso una nuova era geologica in cui le attività umane sono diventate il fattore determinante, decretando così la fine dell’Olocene. L’umanità come un tutto indifferenziato (e colpevole) da un lato, l’ambiente incontaminato (e innocente) dall’altro.
Jason W. Moore rifiuta questa impostazione e parte dal presupposto che l’idea di una natura esterna ai processi di produzione non sia che un effetto ottico, un puntello ideologico su cui si è appoggiato il capitalismo. Al contrario, il concetto di ecologia-mondo rimanda a una commistione originaria tra dinamiche sociali ed elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico, nella sua tendenza a farsi mercato mondiale. Il capitalismo non ha un regime ecologico, è un regime ecologico. Sfruttamento e creazione di valore non si danno sulla natura, ma attraverso di essa – cioè dentro i rapporti socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile di capitale, potere e ambiente. Si tratta dunque di analizzare la forma storica di questa articolazione – ciò che Moore chiama “Capitalocene”: il capitale come modo di organizzazione della natura – per fronteggiare l’urgenza dei disastri ambientali che ci circondano.

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Per un’eco-sociale autopoieticenica

L’ecologia sociale ritiene che una visione ecologica della società permetta di escludere ogni tipologia di sfruttamento e di dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Scrive Bookchin:
« …quando la natura può essere concepita o come uno spietato mercato competitivo, o come creativa e feconda comunità biotica, ci si aprono davanti due correnti di pensiero e di sensibilità radicalmente divergenti, con prospettive e concezioni contrastanti del futuro dell’umanità. Una porta ad un risultato finale totalitario e antinaturalistico: una società centralizzata, statica, tecnocratica, corporativa e repressiva. L’altra, ad un’alba sociale, libertaria ed ecologica, decentralizzata, senza Stato, collettiva ed emancipativa.».
L’individuo è quindi collocato all’interno del tutto («visione olistica dell’universo»), al di là di ogni visione antropocentrica della natura, caratteristica di quasi tutte le discipline sociali, che di par suo ha favorito lo sviluppo dell’idea di dominio e dell’oppressione dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
L’antropocentrismo tende a rappresentare l’universo come oggettivamente gerarchico e autoritario, quindi necessariamente da dominare e “piegare” al volere umano. Ciò non è mai senza conseguenze, come ribadisce ancora Bookchin:
«Quest’immagine totalizzante di una natura che deve essere domesticata da un’umanità razionale, ha prodotto forme tiranniche di pensiero, scienza e tecnologia – una frammentazione dell’umanità in gerarchie, classi, istituzioni statuali, divisioni etniche e sessuali. Ha promosso odi nazionalistici, avventure imperialiste, e una filosofia della norma che identifica l’ordine con dominazione e sottomissione. La realtà, come vedremo, è diversa, una natura concepita come “gerarchica”, per non parlare degli altri “bestiali” e borghesissimi caratteri che le si attribuiscono, riflette solamente una condizione umana in cui il dominio e la sottomissione sono fini a se stessi e mettono in questione la stessa esistenza della biosfera»

Autopoiesi

Intorno al 1972, Humberto Maturana e Francisco Varela elaborano il concetto di autopoiesi, termine coniato unendo le parole greche auto (se stesso) e poiesis (creazione, produzione).

Il concetto è così definito da Varela:

“Un sistema autopoietico è organizzato come una rete di processi di produzione di componenti che produce le componenti che: attraverso le loro interazioni e trasformazioni rigenerano continuamente e realizzano la rete di processi che le producono e la costituiscono come un’unità concreta nello spazio in cui esse esistono, specificando il dominio topologico della sua realizzazione in quanto tale rete”

In sintesi un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce.

Maturana e Varela sono i primi a riconoscere l’autorganizzazione quale discriminante tra vivente e non vivente.

Referente comunimappe: pino de march

Per comunicazioni:comunimappe@gmail.com

per ricerc-azioni dettagliate:www.comunimappe.org


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Pino de March – dipartimento alla terra di comunimappe

info: comunimappe@gmail.com