La festa è promossa dalla contrada solidale
dell’Unione Rom, Sinti e Gagè che nasce da una pluriennale cooperazione
culturale e sociale tra Amirs ,ora Mirs-Mediatori interculturali Rom e Sinti, Cesp-Centro
studi per la scuola pubblica(area cobas-scuola), Comunimappe-Libera comune università
pluriversità bolognina
La festa si dà in primis come momento conviviale per ricreare legami umani, culturali e sociali tra gli appartenenti alle comunità territoriali romanì (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) e i gagè, o i non rom (europei, italiani e migranti)residenti nella nostra città , in secondo come benefit (raccolta fondi)per sostenere le disparate attività comuni quali: laboratori interculturali nelle scuole, memorie di stermini dimenticati –porrajmos e di altre minoranze, conoscenza delle variegate culture romanes, intermediazione e relazione tra giovani,donne ed adulti romanì e con le istituzioni pubbliche e il mondo associativo solidale dei gagè) promosse dalla nuova associazione MIRS(Mediatori interculturali Rom e Sinti)che raccoglie l’esperienza di AMIRS
.Ed in terza istanza per sostenere le attività di ricerc-azione sugli emergenti paradigmi trans-individuali e trans-educazionali di comunimappe – libera comune università pluriversità bolognina(vedi nostra trama attiva e progettuale in fondo a queste pagine.
DALLE ORE 15 PARAMICIA: laboratori per bambini-e e ragazzi-e Rom,Sinti e Gagè autogestiti da DADA LUPE – CANTASTORIE
SI PARTE DA LETTURE DI RACCONTI E FAVOLE ROMANES E POI IN PICCOLI
GRUPPI, PARTENDO DA QUESTE TRACCE SE NE RINVENTANO DI NUOVE. E SI PROSEGUE CON
DEI GIOCHI.
PARAMICIE ROMANES: Sono l’insieme di storie e di narrazioni, racconti affabulanti di vita vissuta dal clan ( o famiglia allargata uniti da vincoli di parentela,solidarietà e mestiere), di sfide, di viaggi, d’amore, di natura,di animali, di fortuna e di sfortuna e di resilienza ecc., con contenuti ed espliciti intenti di generare coraggio, non come semplice non paura, ma come pervicace non sottomissione, raccontati dagli anziani ai bambin-i-e e ragazz-i-e romanì, per rafforzare i valori fondanti ed importanti della loro comunità. Forme d’educazione mitica ed emozionale. Per infondere autostima nell’affrontare la vita, che non è sempre così facile e liscia per un romanì, soprattutto al fine di accrescerla là ove quotidianamente viene demolita dall’ostilità e dalle difficoltà che incontra nell’inserirsi in una società dei gagia che nonostante le dichiarazioni d’inclusione resta fredda, indifferente o diffidente. Ora nelle comunità aperte urbane si sperimenta e si reinventa una romanipè ,cioè una capacità di trasformazione dei fondamentali romanì (mantenimento dei vincoli di solidarietà ma anche trasformazione di alcuni aspetti tradizionalisti e patriarcali -già in atto in molte famiglie urbanizzate che si manifesta apertamente (non più come “fughina”) ma come libertà di scelta dei giovani e delle donne di affermazione di una autonoma vita dentro e fuori la propria comunità nativa ).
DALLE 18 ALLE 22
ALLA SALA INTERNA DELLA CASETTA AGLI ORTI: MOSTRA SUL PORRAJMOS O STERMINIO DIMENTICATO DEI ROMANI’ (Rom, Sinti ed altri gruppi minori) DALLE 18 ALLE 20
TOMAS FULLI PER MIRS: APERTURA FESTA
BREVE RACCONTO DELLE ATTIVITA’ INTERCULTURALI NELLE SCUOLE E NELLA CITTA’ CONTRO STIGMI E PREGIUDIZI ANTIZIGANI E DI MEMORIA ATTIVA SVOLTE IN COOPERAZIONE CON LA CONTRADA SOLIDALE DELL’UNIONE ROM, SINTI E GAGE’
RAFFAELE PETRONE E MATTEO VESCOVI DEL CESP:BREVE STORIA SULLA RICERCA DELLE FONTI PER RENDERE LA MOSTRA DOCUMENTO STORICO-CULTURALE FOTOGRAFICO SUL PORRAJMOS
PINO DE MARCH DI COMUNIMAPPE: 16 MAGGIO 1944: RIVOLTA DEI ROMANI’ AD AUSCHWITZ
ALLE ORE 20: Presentazione di Fabio Bassetti DEL FILM: LIBERTE’ Segue quella del portavoce del GRUPPO MUSICALE DJANGO GYPSY JAZZ
DALLE ORE 20: MUSICA E CENA ZIGANA (ONNIVORA, VEGETARIANA E VEGANA)
DALLE 22 ALLE 24: AGHIRAN CON MAESTRIA ANIMA DANZE E BALLI ZIGANI
“LIBERTE’”, Film sulla libertà di
Tony Gatlif
Gli zingari durante la seconda guerra
mondiale
(in Romani e in francese, + sottotitoli in
francese) Il film, della durata di 1 ora e 45
minuti,
2016 – dopo molti anni si è deciso di costruire un monumento alla memoria dei caduti Rom e Sinti a Montreuil – Bellay (F)
Una scheda sintetica del film
“Liberté” di Tony Gatlif che riflette il destino degli zingari in Francia
durante la seconda guerra mondiale.
PREMESSA:
Per via di una ricognizione
topografica per la costruzione di un asse stradale ad ampia circolazione, si
scopre in un vasto campo erboso, delle basi di cemento volte a sostenere dei
grandi capannoni, e una specie di cella semi-interrata con delle feritoie
orizzontali ad altezza del suolo, non volte alla difesa e troppo sottili per
passarci. Fortunatamente, prima dell’inizio dei lavori della strada che avrebbe
definitivamente sepolto questo reperto, si diffondono le voci e qualcuno si
ricorda ancora della previa esistenza di un grande campo di concentramento per
Rom e Sinti ed altri gruppo romanì durante la seconda guerra mondiale, tenuto
dalle zelanti autorità francesi anti-zigane e fasciste del governo di Vichy,
governo collaborazionista con l’occupante nazi hitleriano. Oltre alla sede in
cemento dove poggiavano i capannoni in legno, si scopre che la “trappola”
semi-interrata serviva a racchiudere i bambini e le bambine più piccoli, per
fare in modo che gli adulti non avessero più voglia di tentare le evasioni.
Viene rapidamente avvertito Tony
Gatlif che assieme ad altri illustri umanisti francesi, organizzano in gran
pompa magna una conferenza stampa e poi una cerimonia per evitare che venga
cancellato questo scomodo reperto della recente storia xenofoba francese,
riuscendo a far deviare il percorso originario della strada in costruzione..
Il 29 ottobre 2016, il Presidente della Repubblica, François
Hollande, ha inaugurato un memoriale in onore degli Zingari internato nel campo di concentramento di
Montreuil-Bellay, nel Maine-et-Loire, durante la seconda guerra
mondiale.
IL FILM:
Il regista, Tony Gatlif, si è ispirato alla storia di Toloche, uno zingaro
internato in questo campo di Montreuil-Bellay, per renderlo il personaggio
principale del suo film “Liberté” nel 2010. Il film evoca anche il
ruolo dei Giusti e della Resistenza come Yvette Lundy la cui lotta partigiana
ha ispirato il personagio. dell’impiegata del piccolo comune ed insegnante nel
film.
Il riassunto del film
Nel 1943, Theodore, veterinario e sindaco di un micro villaggio nella zona
occupata, raccolse un orfano P’tit Claude, arrivato assieme ad una famiglia di
zingari che ciclicamente passa annualmente a vendere i suoi servizi al
villaggio. Il sindaco e l’impiegata Miss Lundi, umanista e repubblicana,
convincono inizialmente gli zingari a fermarsi sul terreno di questo villaggio,
per via della repressione delle leggi francesi che non permettono più
l’esistenza di ambulanti sulle strade e nelle campagne. Con la buona
accoglienza dimostrata, i due impiegati comunali convincono anche gli adulti a
mandare i loro figli a scuola. Con loro, si unisce anche Taloche, un
quarantenne di Boemia con l’anima di un bambino
Taloche rappresenta “lo spirito
libero dei viandanti” che appartengono in modo profondamente esistenziale alla
terra e agli elementi che attraversano nei viaggi. A differenza della
cultura cartesiana occidentale che si ostina a pensare ad una terra che gli
“appartiene”…e che ha il diritto anche di rovinare.
Purtroppo la repressione di Vichy continua ad intensificarsi contro gli Zingari
che un giorno decidono di riprendere comunque la loro strada di sempre, pur
sapendo i rischi che corrono.
Questo film, a differenza di altri film di Tony Gatlif,
non fu distribuito nelle sale italiane
Buona visione
Fabien Bassetti per gli amici gadgi
Fabinath Sapera per gli amici zingari
rajasthani
473 nomi di zingari internati sono incisi sul memoriale, incluso quello di
Toloche.
Foto di Jacques Sigot.).
MEMORIE DI STERMINI E RIVOLTE ZIGANE (OGGI
ROMANI’) DIMENTICATE
Era il 16
aprile 2015 e per la prima volta in Italia e a Bologna con una partecipata
manifestazione nazionale dei Rom e dei Sinti si ricordava : il 16 maggio 1944 –
giornata in memoria della rivolta dei Rom e Sinti nel lager di Birkenau – Auschwitz
contro i nazisti che li detenevano come schiavi-prigionieri.
Tra gli
invitati la Presidente della Camera Laura Boldrini, il giornalista Gad Lerner ,
gli artisti Moni Ovadia e Alessandro Bergonzoni, l’attore Ivano Marescotti. Presenti
anche i senatori Sergio lo Giudice e il senatore Luigi Manconi (del PD),Presidente
quest’ultimo della Commissione straordinaria per i diritti umani. Sergio del
Giudice invece, senatore e presidente dell’ARCI-GAY e attivista per i diritti
delle persone LGBT.
Quel giorno un folto corteo di Rom, Sinti e Gagè è partito da via Gobetti del Quartiere Navile, luogo dell’eccidio dei due Sinti (la notte del 1990- Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina, di 30 e e 34 anni, vennero trucidati, cono loro ferite gravemente una bimba sinta di 6 anni e una rom slava)da parte di nazi-poliziotti (i fratelli Savi) della A1 Bianca (la band dell’A-Uno bianca seminò una lunga scia di sangue e crimini tra il 1987 e il 1994, terrorizzando Bologna, la Romagna e le Marche, lasciando dietro di sé 24 morti ed oltre un centinaio di feriti); la meta di quel lungo corteo fu Piazza XX settembre.
Ed in quel giorno e in quella piazza (per la nostra città piazza della laicità, per via di quel XX settembre 1870, data che ricorda la breccia sulle mura di Porta Pia, la sconfitta dei soldati pontifici, la presa di Roma e la fine del potere temporale della Chiesa),il Presidente Davide Casadio della “Federazione nazionale Rom e Sinti insieme”, a sorpresa propose agli amministratori della città di “far diventare Bologna la capitale dei Rom e dei Sinti (perché proprio a Bologna si documenta per la prima volta,fin dal 1422, la presenza di genti nomadi in Italia accampati alla Montagnola, presentati quelle genti sconosciuti alle cronache del tempo come un gruppo di origine egiziana), ed inoltre di costruire un museo della cultura Rom e Sinti,per far conoscere la cultura e la storia delle nostre comunità,( ormai da secoli italo-europee, sicuramente i più europeizzati tra gli europei per quel loro lungo viaggiare tra molte città e villaggi europei).
Casadio poi aggiunge che “anche noi abbiamo una cultura ed essa assieme alle altre aiuteranno a sconfiggere la paura”.
Gli scopi della manifestazione erano quelli di sensibilizzare la città sul tema delle minoranze dimenticate e non riconosciute al pari di altre minoranze presenti in Italia (slovena, tedesca, francese ecc.),perché a dire delle maggioranze parlamentari succedute nel tempo, trattasi di minoranze prive di territorio, per via del loro prolungato nomadismo, ma soprattutto per una interpretazione restrittiva costituzionale, che ne impedirebbe riconoscimento e tutela istituzionale, che consisterebbe nell’istituzione di centri di cultura per promuovere e tutelare la cultura e la lingua romanes (trattasi di v1arianti linguistiche neo-indiane arricchite di lessici europei)nei luoghi di maggiore densità abitativa e residenziale(solo gruppi politici della sinistra parlamentare -sinistra italiana, rifondazione comunista ne sostengono questo riconoscimento non solo di generici diritto civili e sociali ma anche culturali ); seppur da decenni territorializzate nella nostra città, come in altre, vivono come invisibili e confinati o in campi sosta o in case popolari delle periferie.
Non mancarono in quel memorabile 16 maggio 2105 la solidarietà attiva dei centri sociali della città (TPO,LABAS,XM24,VAG61), di Coalizione Civica, Sel- Sinistra ecologia e libertà(la sinistra unita), dei sindacati di base (cobas o comitatidi base), ma anche della Cgil congiunta con Cisl ed Uil; per il portavoce di Sel e dei centri sociali: “la discesa in piazza va considerata come affermazione dei diritti all’esistenza di queste minoranze e per protestare contro l’ondata di odio indiscriminato che li riguarda, per ricordare le vittime della banda bolognese della “Uno Bianca” e per celebrare la rivolta degli internati Sinti e Rom nei campi nazisti.” Altre forze democratiche – istituzionali del campo progressista hanno aderito e partecipato alla manifestazione, il Sindaco Merola ha giustificato la sua non presenza per impegni istituzionali. Merola anticipatamente in un’intervista dichiara:”ci sono troppe chiacchiere infondate messe in giro in modo strumentale; non viene dato nessun regalo a queste persone. Sento parlare di 30 euro al giorno o corbellerie simili. Quello che bisogna evitare è di fare di ogni erba un fascio e di additare i “nomadi” come etnie che per forza ci fanno del male, è una cosa a cui bisogna stare molto attenti.”
Non mancarono in quel memorabile giorno anche indegne provocazione di Bologna sociale- Forza Nuova (neo-fascisti ), sostenuti da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega; tra loro ci furono chi contro-manifestò (Forza Italia e Fratelli d’Italia), ma tutti chiesero il divieto di corteo contro ‘il degrado”; quello che è più grave è la disumanità di questa ignobile espressione d’accomunare i Rom e Sinti ad “esseri degradati o causa di degrado delle città’.(solo i nazisti nel corso della storia europea considerarono gli ebrei e la loro cultura come degenerata; le due figure “degenerata e degradata” con cui si rappresentano le due comunità, ieri quella ebrea ed oggi quella rom-sinta , non si allontana di molto l’una dall’altra. La posizione del M5 è stata a dir poco complice, lasciando trapelare che anche loro non erano favorevoli al corteo, però … cercando un escamotage ‘civile o lavandosi le mani” attraverso le ambigue parole di Bugani: i colleghi della politica locale che intendono opporsi al corteo dovrebbero “sfruttare i luoghi istituzionali per dare forza alle proprie idee e non scendere alla bassezza delle contro-manifestazioni”. (come se impedire un corteo di una minoranza fosse da considerare un’idea da sostenere(come l’altra ‘idea’ cioè il fascismo) e non un crimine contro i diritti costituzionalmente riconosciuti a qualunque persona o minoranza, per di più resa invisibile, marginalizzata da secolari pregiudizi, storici stermini e perduranti discriminazioni).
Manifestazione 16 Maggio (Memoria Dimenticata 1944 –
“rivolta dei gitani”) Sinti e Rom in Europa in Italia
(Memoria Dimenticata 1944 – “rivolta dei gitani”)
Sinti e Rom in Europa in Italia.
La manifestazione del 16 maggio a Bologna
ricorda e si ribella (All’odio e al
razzismo).
Il 16 maggio del 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz andava in scena
la dimenticata “rivolta dei gitani”. Ogni anno si ricordano le atrocità del
nazifascismo, ma in pochi ricordano quei 500.000 tra Sinti e Rom massacrati dal
Terzo Reich. (Memoria Dimenticata – “rivolta dei gitani”)
1-«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini.
I vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza
mostruosa su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora
del fumo denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre
preghiere.
2 -Non lasceremo alle
vostre mani rapaci, ai vostri cuori tenebrosi, al vostro odio disumano la
bellezza delle nostre vite, la santità dell’amore che unisce le nostre famiglie
in un popolo povero, ma fiero». formata da nugoli di bambini pelle e
ossa, donne e capifamiglia scalzi – ove si trovava la più potente e organizzata
macchina di oppressione morte di tutti i tempi.
3- Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre
combattevano; i ragazzini difendevano lo zigene-lager finché il sangue non li
copriva, rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia
scure brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si
ritirarono, esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che
affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda.
Era il 16 maggio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz quando le SS
decisero di farla finita con il campo adibito alle famiglie zingare. Uno
sterminio patito da Sinti e Rom, che in molti preferiscono dimenticare, o
meglio far finta che non sia mai avvenuto. Quel giorno le SS ricevettero
l’ordine di smantellare il campo, ovvero di eliminare tutti gli internati.
Nessuno si sarebbe mai aspettato di assistere a una rivolta dei gitani reclusi
che, quel 16 maggio, uscirono dalle loro baracche in oltre quattromila, decisi
però a non farsi massacrare senza combattere. In teoria dovevano uscire e
seguire i nazisti fino alle camere a gas, ma quel giorno decisero di ribellarsi
raccogliendo pietre e spranghe e lanciandosi contro le SS. I nazisti poi gliela
fecero pagare riducendo alla fame il campo e uccidendo ben 2897 Sinti e
Rom , pochi mesi dopo nella stessa notte, il 2 agosto dello stesso anno. E’
questa la triste storia dei massacri commessi dai nazisti ai danni anche di non
ebrei, dimenticati per decenni e solo negli ultimi anni riscoperti anche grazie
al lavoro di storici e minoranze etniche. Secondo le ultime ricostruzioni si
presume con un margine minimo d’incertezza che i nazisti abbiano trucidato
qualcosa come 500.000 tra Rom, Sinti e Manush, ed è opportuno ricordare qui come
durante il processo di Norimberga i superstiti (romanì )non siano nemmeno stati
ammessi come parte civile.
Tutti Sinti e
Rom e altri gruppi minori, in numero di
4.000 Rom internati nello zigeuner-lager di Auschwitz
decisero di opporsi ai loro aguzzini, che secondo programma erano venuti a
prelevarli, per condurli nelle camere a gas. Di fronte a un’umanità ridotta in
condizioni pietose – formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e
capifamiglia scalzi – si trovava la più potente e organizzata macchina di
oppressione morte di tutti i tempi. Non furono solo gli uomini a decidere di
non piegare il capo di fronte ai carnefici in divisa; anche le manine ossute
dei bimbi e delle donne raccolsero pietre, mattoni, spranghe, rudimentali lame
e tutti insieme i Sinti e Rom di Auschwitz dissero: «No!».
«Non vi daremo i nostri piccoli, perché li facciate uscire dai vostri camini. I
vostri medici ne hanno già straziati tanti, sperimentando la loro scienza mostruosa
su di loro. Le loro urla salivano fino al cielo, più in alto ancora del fumo
denso che usciva dai crematori, più in alto ancora delle nostre preghiere. Non
annienterete le nostre famiglie, cui avete già tolto i doni preziosi della
libertà e della dignità. Non lasceremo alle vostre mani rapaci, ai vostri cuori
tenebrosi, al vostro odio disumano la bellezza delle nostre vite, la santità
dell’amore che unisce le nostre famiglie in un popolo povero, ma fiero».
Le mamme stringevano al petto i bimbi più piccoli, mentre combattevano; i
ragazzini difendevano lo zigeuner-lager finché il sangue non li copriva,
rendendoli simili agli spiriti della vendetta delle leggende; braccia scure
brandivano armi rudimentali in un impeto instancabile, finché le SS si ritirarono,
esterrefatte davanti a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava
le pallottole e le baionette con la carne nuda. Le SS si ritirarono, portando
con sé molti cadaveri tedeschi. Solo il 2 agosto 1944 i nazisti – dopo aver
ridotto in fin di vita la popolazione Sinti e Rom prigioniera della
«fabbrica della morte», limitando al minimo il suo sostentamento alimentare –
riuscirono a liquidare lo zigeuner-lager. 2.897 eroi Rom furono assassinati in
una sola notte nelle camere a gas di Birkenau.
Davide Casadio Presidente Federazione Rom e sinti insieme in Italia
In terza istanza la ricerc-azione di comunimappe –libera comune università
pluriversità bolognina sui mutati paradigmi educativi e relazionali quali:
trans-educazioni, educazione diffusa ed incidentale e sulle articolazioni culturali e sociali di tali paradigmi:
trans-individuale come approccio epistemologico-filosofico elaborato dal filosofo Simondon che considera ogni essere umano come una trama complessa e non scindibile tra individuale,culturale,sociale, naturale e macchinico. Significa anche rimettere in discussione sia l’individualismo proprietario capitalista che il collettivismo proprietario statalista, e ripensare ad una forma di economia e di socialità di un Comune agire tran-individuale che non può prescindere da una visione olistica (una forma comunalista o municipalista (M.Bookchin)di ecologia sociale che trami per sostenere la natura,una società dei liberi e degli uguali, la cultura con le sue molteplici espressioni e l’eco-nomia come auto-gestione politica ed economica dei diversi contesti intrecciati tra tra loro. Gli stessi padri costituenti americani mettevano in guardia sulle diseguaglianze che rappresentano grande un grande pericolo per la democrazia.
trans-cultura le che riguarda le relazioni in divenire tra le variegate culture presenti nei territori (interazioni tra differenti specie umane native in Africa come in Asia ed Europa da almeno 300.000 anni per migrazioni di persone o per narrazioni (o passaparola)hanno permesso all’homo sapiens di generare un universo simbolico comune che riguarda tutti gli umani sulla terra seppur declinato in molteplici forme linguistiche culturali); a cui s’accompagna il contrasto educativo agli stigmi,pregiudizi, rom-fobie, trans-omo-fobie, xeno-fobie ecc.)nelle istituzioni educative e nella società.
trans-umano o neo-umano consiste nelle relazioni tra umani, ambienti naturali ed artificiali e nuove tecnologie ; nuovi ambient tecno-culturali e sociali non sempre appaganti ed agiati, ingenerano disagi esistenziali e sociali tra le nuove generazioni, categorizzati nelle nostre scuole come BES – o persone che abbisognano di ulteriori – Bisogni educativi speciali; disagi che nascono da una pluralità di fattori: processi migratori, marginalizzazioni economiche e sociali delle famiglie, relazione alterate per esposizioni eccessive al digitale o ai social (“cervello aumentato e umano diminuito”, così il filosofo – psicoanalista Benasayag descrive tale condizione esistenziale );non vanno trascurate come cause di malessere il prevalere nelle scuole negli ultimi decenni d’approccio riduttivo (semplificato paragonabile ad un puro addestramento al fare attraverso didattiche modulari delle competenze), funzionale e competizionale (che come centralità competizione e competenze) sull’apprendimento cooperativo volto ad una visione complessa del ricercare,conoscere e vivere, con metodologie interdisciplinari e olistiche delle conoscenze miranti ad uno sviluppo umano completo; solo nuovi ambient educativi ove si sviluppano una cooperazione educativa circolare e non frontale, esperienze di ricerca e curiosità , attività singolari e condivise, pensieri critici, divergenti e creativi, educazioni risonanti all’affettività possono generare persone esperte, affettive e solidali con una notevole autonomia e capacità di relazionarsi agli altri, ed aspirare da trans-individui trans-educati alla realizzazione d’attività umane che ingenerano progresso comune,culturale,naturale. individuale e sociale, cura dei mondi di vita e delle dimensioni esistenziali.
– trans-femminismo come vissuti di lotta e di vita per l’affermazione e la comprensione consapevole dei nuovi paradigmi relazionali di genere e di orientamento ad un’aperta sessualità e a relazioni affettive complesse; per contrastare l’ideologia conservatrice – no gender – che genera sospetti e menzogne tra gli educatori parentali, con accuse menzognere di manipolazione delle nuove generazioni da parte di una “inesistente teoria gender”che li spingerebbe alla depravazione dei generi e della sessualità “naturale”; il malinteso ‘gender’ trattasi invece di un’espressione che raggruppa gli studi di genere, studi che analizzano criticamente le oppressioni-repressioni che una visione etero-normativa per secoli ha imposto “con la forza coercitiva di ordine e legge ” nel nome dei padri”una spietata violenza macista e sessista” alla società, in primis alle donne e agli altri comparati mondi subalterni(“femminei”)di vita affettiva e sessuale (quello che oggi emerge in libertà come lgbtqi); il “no gender” forme queste, sì, ideologiche ed imperative di relazioni di genere ed affettive compresse in una dimensione riduttiva biologista e binaria di – maschile e femminile; secoli di negazione di un’assenza -sofferta o di un mondo sommerso che oggi si rivela nella sua libertà di viva ed autonoma espressione (di forme di vita e di vita )come una costellazione di pluralità maschili(omo), femminili(lesbo) ma anche di fluidità d’orientamento affettivo e sessuale(lgbtqi). Dall’ultimo nostro convivio sulle trans-educazioni emerge che a contrastare un’educazione aperta nelle scuole di educazione alla sessualità e all’affettività compresa nella sua pluralità divergente, i “i tradizionalisti no gender” per fare leva contro queste nuove educazioni alla conoscenza e ad un’affettività e sessualità consapevole non mobilitano solo le fasce tradizionaliste dei genitori ed educatori, ma si avvalgono anche di un ‘complice silenzio”, di chi concepisce la sessualità in termini puramente d’emancipazione sessuale binaria economica e giuridica, e non come processo di liberazione dal patriarcato e dal sessismo eterosessuale ben denunciato-praticato-espresso dai movimenti femministi o da altre filosofie o politiche critiche del binarismo sessuale ( l’unico binarismo concepibile è quello informatico). Per questo è importante agire sulle aree adulte progressiste per sottrarli alla passiva complicità con i negazionisti-tradizionalisti che negano,occultano e mistificano l’esistenza di singolari e plurime forme di vita con cui s’esprime la sessualità e l’affettività umana.
Trans-ecologie intendendo con essa le varie ecologie che non possono riguardare solo gli aspetti della sostenibilità seppur importante di fronte ai nuovi cambiamenti climatici,ma anche le altre ecologie umane,culturali , sociali e mentali (vari mondi di vita in cui siamo immersi e che determinano il nostro comune ben-essere trans-individuale).
Le relazioni umane in questa nostra visione trans-individuale si danno come non violente,empatiche e critiche non solo contro riproposti autoritarismi, sessismi, razzismi, classismi e militarismi, ma anche contro residuali istituzioni totali e pratiche coatte biologiche-psichiatriche (pubbliche e private)e loro strumentazioni coatte quali il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) che sono vere e proprie forme di tortura e di pratica distruttiva verso le persone che ne subiscono l’atto o gli atti.
Nostra pratica utopica e concreta consiste nel rilanciare la cooperazione amicale culturale, educativa, politica, sociale,economica ecc. come attività costituente del Comune e delle relazioni aperte ed sintonia con i molteplici mondi di vita per contrastare la frammentazione sociale e culturale, il diffondersi della competizione e dell’inimicizia, dell’odio contro le persone e le comunità di prossimità o di lontananza,che non sono altro che arcaiche modalità violente, narcisiste, predatorie del Comune esistenziale e sociale BEN-ESSERE .
Pino de March ricercatore ed
accordatore delle attività della comune ricerc-azione e cooperazione politica e
culturale di comunimappe
COMUNIMAPPE- LA LIBERA COMUNE UNIVERSITA’ PLURIVERSITA’ BOLOGNIPER UNA COMUNE RICERC-AZIONE verso una nuova cooperazione educativa critica, divergente, diffusa,laica, multidimensionale e pubblica.
PROMUOVE
SIMPOSIO SULLE
TRANS-EDUCAZIONI
IL
BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..
A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA
SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …
CI
SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e
ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)
DOMENICA 19
MAGGIO 2019
ALLA ZONA
ORTIVA
VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per
arrivare:scendere alla fermata autobus 11
c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi,
in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo
punto da lì girate a dx, e dopo aver passato sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il
campo Sinto ci siete …)
INIZIAMO ALLE ORE
10
ALLE 13 PAUSA
PRANZO COMUNE
ALLE 14 RIPRESA
ATTIVITA’ FINO ALLE 16
ACCORDA: PINO
DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
RESPONDENS
(INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO
RELAZIONI:
1 – EUROPEIZZAZIONE EDUCATIVA AL NEO-LIBERISMO – ALESSANDRO PALMI, DOCENTE–CESP-COBAS
2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA
SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI
E VALENTINA MILLOTTI DOCENTE E
RICERCATRICE –CESP-COBAS
4 – ESPERIENZE
DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI –
DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA
5 – LA TRASAVANGUARDIA
NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE
6– EDUCARE ALLE
DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA
TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA – NELLE
SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA,
FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE
7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE DI FILOSOFIA
8 – TRANS-SAPERI:
STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI –
RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO
DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE,
RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
CONVIVIO O UN SIMPOSIO SU TRANS-EDUCAZIONI
(TRANS) COME MOVIMENTO D’OLTREPASSAMENTO
AD UN’EDUCAZIONE APERTA,DIFFUSA E MULTIDIMENSIONALE,
AD NUOVA COOPERAZIONE E RICERCA EDUCATIVA NON MERCANTILE E NON
COMPETIZIONALE (RIDOTTA A COMPETIZIONE E COMPETENZE),
AD UN’ EDUCAZIONE DI GENERE NON BINARIA
ED INFINE AD UNA FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA E DELL’EDUCAZIONE NON
DUALISTA.
UN CONVIVIO OD UN SIMPOSIO PER RICREARE UNA DIMENISIONE INFORMALE MA
SOPRATTUTTO NELLA CONVIVIALITA’ MANIFESTARE ESPRESSIONI E PENSIERI INCARNATI
NELL’ESPERIENZA E NELLE RELAZIONI.
Trans-educazioni
Trans prefisso che indica un variegato movimento
di trans-formazione in cammino verso molteplici
forme di vita e d’educazioni autonome, erotiche, divergenti, critiche e
responsabili e sostenuto da un’immaginale poetico – inteso come – Terzo Paradiso – così come viene
concepito dall’artista Michelangelo Pistoletto.
“la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”.
TRANS-EDUCAZIONE
Con questo convivio
trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin
qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche
delle competenze (saper fare ‘performativo
e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper
essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere
performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle
cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista,
umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue
ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali,
e trans-femministi e di ritrovati limiti
e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione
del vivente tutto (trans-umani).
Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:
– un saper-essere (soggetto
attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico,e non soggetto-oggetto, assoggettato,
inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),
un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti
eco-sociali)
ove emerge il primato
delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato (per parafrasare Simondon nella sua complessa
esplicazione della trans-individualità),
che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra
pari, e pensieri incarnati.
Il prefisso trans-indica in
primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni
ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani),
binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili
(infatti
‘nell’uomo ad una dimensione’ il filosofo
H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto
il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e
la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni,
relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.
-e secolari
dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana
smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal
neuroscienziato portoghese Damasio ),
il binarismo sessuale (maschile-femminile,
ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).
Un verso poetico-musicale
in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non
esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra
mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze
naturali e scienze umane ecc.).
Attivarsi in maniera
trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e
tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)
Nel
2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il
simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito.
Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura
e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il
grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto
distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.
“nel primo paradiso, gli esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi, chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple, ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel 2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità. Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it )
Tommaso
Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha
dato della poesia una celebre definizione: “la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata,
tra gli altri da Montale.
QUALE TRANS-EDUCAZIONE
APERTA, CRITICA,LAICA E PUBBLICA
POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni
del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere
attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)
e non il passivo dimorare
e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’
(prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse,
ammutolite e omologate istituzione educative europee?
GLI
INCANTESIMI NEO-LIBERISTI
“L’economia è
il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret
Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)
Di Altre Trans-educazioni
abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione
multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana,
trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar
–organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.
E che
sappia denunciare e invertire al tendenza
nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare
e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad
un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta
le conoscenze.
Un
trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non
solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione
letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di
unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava
criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);
tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato
all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione
umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.
IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE COMPETIZIONALE LIBERISTA-MERCANTILE DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA
ED ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE E
ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI INTELLIGENTI E COMPLESSI RENDENDOLI
OGGETTI COMPARABILI AD ALTRE
RISORSE ) ,CHE GENERA PLUS-VALORE
(K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE
MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE INQUIETUDINE ESISTENZIALE ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE IN UN CONTESTO DI MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE
GLI ALGORITMI DELLE PIATTAFORME DOMINATI
OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE
RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE
GENERAZIONI).
MATERIALI
TRANS-EDUCAZIONE PER
PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E
Di fronte ad una visione
impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone
per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al
centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere
l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].
Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte
limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza
viva e differente del
tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge
sull’inedito significa
slargare lo spazio dell’esperire.
Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad
inabissarsi, la vita della
mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si
tratta per questo
di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare,
affinché non sia solo
ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia,
l’obbedire alla necessità
di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare
in una diminuzione
di essere, perché può accadere di moderare le domande di
senso, di cercare
poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla
della necessità
Saggi 57
Conosce re se stessi per ave r cura di sé
di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che
sempre sono (Platone,
La repubblica, 518c); si può
ridefinire il senso di questo rigirare radicale per
intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione
di accettare il
già detto e quel poco che si rende accessibile, per
arrischiare l’inedito e l’ulteriore
rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come
l’arte (Platone,
La repubblica, 518d) del tornare a
stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,
nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di
senso che guidano
la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.
Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima
vada iniziata a
partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti
quei «pesi di piombo»
che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte
quelle cattive abitudini
che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,
519a-)
Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello
Cortina-2019
MEDITAZIONI
SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA
«Se pensi che l’istruzione sia costosa,
prova con l’ignoranza»
Queste parole non sono
state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore
dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel
libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco
per Guanda.
Quest’espressione amara, ironica e di protesta è
ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranza’ nelle piazze
tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi
dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la
regressione che stavamo attraversando.
Però non per riaffermare la visione elitaria e
classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa
prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce
in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni
sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”
“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni
casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la
conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza
competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe
cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine
la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere
umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non
diretti.
Date le caratteristiche della conoscenza, come si
distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in
base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni
degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile,
all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante; gli esseri conoscenti avranno invece
bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati
scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui conoscenza sia stata per varie ragioni
negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e
alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è
anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un
genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e
segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno
conosce. ‘Conoscere porta sì
travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota
per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a
problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò
nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie
felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud
Però come
intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci
nulla:
CHI HA PAURA NON PUÒ
EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.
Non abbiamo assistito
passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli
ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati
(sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via
blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista,
amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita
neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in
tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi
Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da
Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e
dell’edonismo reganiano;
queste vuote ed inondanti
narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo
sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in zone temporaneamente autonome antagoniste, di
punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o
‘libere’.
Ai canali mainstream
della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche
‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a
partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione
culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via
d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche
‘delle competenze’ e e di
condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una
prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari,
e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla
realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi
produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o
economia dei servizi e della conoscenza).
Le scuola e le università che si erano
auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da
ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o
le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e
tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove
generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini
d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali;
sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di
gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università
d’orizzonti ristretti e funzionali
alla
produzione
del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.
Nessun interesse o
passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei
neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero
e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia
naturali che umane;
la mancanza d’attenzione
alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e
sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie
digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro
vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel
benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella
precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e
per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare
affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico
pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.
Chi ha paura non può
educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una
«buona scuola» (il riferimento è alla successiva riforma del governo Renzi, ndr.) che viene
sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento
preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo
sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio
educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della
produttività economica.
neoliberismoIndirizzo di pensiero economico che, in nome delle
riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali
violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche
all’ombra del laissez
faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva
libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà
politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L.
von Mises e il francese J.-L.
Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera
concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato,
ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in
costrizione.
Dizionario – Trecani
capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità
professionali e relazionali possedute in genere
dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica,
ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di
lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate
dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente,
le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione
erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e
a qualificarla, influenzandone i risultati.
Capitale umano come patrimonio
dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte
di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri
dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una
utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e
competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce
anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di
un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli
individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato
come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento
delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione)
degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una
particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli
investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i
redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati
all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta
tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà,
di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo
dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite
compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece
oggetto di scambio sul mercato.
Evoluzione del concetto di capitale
umano. Sebbene indicato con termini diversi,
il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a
partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole
attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G.
Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del
comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica.
Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte
dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli
argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra
crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di
addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo
così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito
dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua
soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi
principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata
risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata
alle esigenze di un Paese a economia avanzata.
TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA
Pensare ed abitare –l’Europa
partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire
pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di
molteplici luoghi e pensieri.
“Ci si è domandati spesso, fin da quando il
modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo
e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea
comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la
strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla
riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse
quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che
da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani-
i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed.
Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in
questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il
vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e
delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto
di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei
razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole
provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che
l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la
discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia
davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove
c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a
sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di
filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere
come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio
inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come
quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un
circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.
……
Altrettanto abbagliante,
e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di
ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e
lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….
…..
O ancora nel misero
bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un
paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani,
vapori neri e mefitici.
….
E ciò che traspare qui è
qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un
modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e
politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non
può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio
agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di questa comunanza di vita ed ideale, oltre che
alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri –
luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi
deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili
stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.
Trans-educazione
bio-politica
‘La conoscenza è un po’
come la libertà, un valore positivo per eccellenza.
L’abbiamo sentito evocare
nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista
pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto
all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di
Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a
ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando
il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna
possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti
Il trans-individuale in
Simondon
G. Simondon è stato un
filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli
anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta
principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e
politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario
intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di
G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert
Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice
bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli
anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e
altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce
ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua
tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta
a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon
divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione
alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse
soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee
transindividualel
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO
Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità
della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi
alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma
anche intravvede la soglia( di relazione).
.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di
plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare
una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto
tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare
o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di
ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione
attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma,
luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma
meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico
o infinitamente complesso e diverso.
Trans-individuale
Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può
aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine
metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a
posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di
tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso
delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica
separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa
(il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore
scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave
incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la
corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta
sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi
quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine.
Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene
scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del
ragionare-deecidere, per non rimanere in
quello stallo di paralisi d’indecisione
narrato in un racconto zen, di un millepiedi
che non sapendosi decidersi con
quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.
Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione
dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma
(idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune
discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al
cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono
strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…
Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo
dell’individuazione psichica e di quella collettiva.
Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della
società rispetto all’individuo.
E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per
comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo,
trans-.culture, trans-umano ecc
Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui
Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione
di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di
tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica
occidentale:
la tesi del processo
d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui
termini della relazione.
Nell’individuazione
psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi
d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico
all’individuo già costituito.
Sia la tradizione sostanzialista
(sostanzialista agg. e s. m. e f.
[der. di sostanziale]
(pl. m. -i). –
Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina,
o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente
sostanziale, oltre ogni apparenza).
()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo
(o ilomorfismo)
s. m. [comp. del gr. ὕλη
«materia» e μορϕή
«forma»]. – Nel linguaggio filos., la
dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una
composizione ontologica di materia e forma).
Sia la dottrina
sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra
loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio
d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di
spiegarla,provocarla e dirigerla.
principio d’individuazione,
criterio o elemento
della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua
unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale
all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come
ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie.
È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande
problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio
ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in
volta interessati.
L’individuo vivente per
Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un sistema che si individua.
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
Tesi sostenute da
Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e
relazionismo.
Il
problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione
tra
materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana
dell’intenzionalità,
e
tale operazione può essere condotta se si approfondisce
lo
spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica
definitoria
dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico
questo
programma è stato delineato da Francisco
Varela
sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di
Maurice
Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa
in
modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in
termini
di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a
Humberto
Maturana, Varela
ha proposto una concezione della natura
in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente
sistemi
biologici capaci di comportamenti cognitivi in
quanto capaci di auto-
riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione
dell’esperienza
propria della metafisica di Whitehead può essere più
proficuamente
esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità
può cioè essere affrontata a partire da una revisione della
nozione di
natura che consenta di
superare il dualismo cartesiano di brentano
senza tornare a una prospettiva spiritualistica
relativamente alla
mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di
indagare
la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che
significa
che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un
problema
squisitamente ontologico.
La relazione non è mai tra
due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla
relazione.
…
Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione
dell’essere e relazione del modo di essere.
Non già mero rapporto tra due termini
che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili
adeguatamente per mezzo dei concetti.
Questa nuova logica non è più
fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto
individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.
Il trans-individuale non è altro che la
categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del
sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra
di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.
La società –scrive Simondon non è il
prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una
realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente
da essi.
La società è l’operazione, è condizione
operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia
la presenza dell’essere individuale isolato.
Un modello di relazione esso stesso
senza centro (complesso e stratificato).
Simondon conclude che non vi è qualcosa
di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare
situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.
Idividuazione attraverso
la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o
concetto ad un altro.
La metastabilità
Simondon ricorre alla
fisica per comprendere quella situazione
che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè
metastabile.
La metastabilità è la
caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso,
diverso
Manifesto dell’educazione diffusa
“Mai più aule tra i muri e
studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”
(La Città educante. Manifesto della
educazione diffusa, Asterios)
L’educazione diffusa è
un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di
rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società
che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e
formativo.
La scuola dove ridursi a una
base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi
aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze
delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi
e bambini stessi.
All’apprendimento chiuso e
iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà
si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze
concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma
educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di
interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I
ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo
emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e
a interrogarsi.
È un atto politico portare
questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di
vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e
il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.
L’educazione diffusa pone al
centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i
sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.
L’educazione diffusa ribalta
l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il
corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento
duraturo.
L’educazione diffusa libera i
bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia
scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i
luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per
offrire il proprio contributo alla società.
L’educazione diffusa è un
reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più
giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano,
danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da
tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.
L’educazione diffusa sradica la
malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali
correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali
solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter
stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e
correggibile
L’educazione diffusa vede gli
insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane,
sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non
nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi
avvizziscono.
L’educazione diffusa chiama
tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi
più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della
sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e
imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.
L’educazione diffusa trasforma
il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di
cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni
logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno
monetario.
Nell’educazione diffusa si
assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile,
finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini
e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti
portatori di un’inconfondibile identità planetaria.
Per iniziare a sperimentare
l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti
appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano
voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere
riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.
Con l’educazione diffusa ognuno
viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di
unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve
fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed
impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità
scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove
l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico,
familiare, religioso, aziendale).
Il Manifesto tradotto in
ucraino (presto la versione in altre lingue)
Azioni di
educazione diffusa
Costruire la rete di Educazione Diffusa e
Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete
può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato
di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe,
mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e
cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali e culturali, professionisti, singoli
cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di
attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le
Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di
istruzione).
Avviare incontri di auto-formazione tra
scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio
circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della
educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione
che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.
Elaborare, come gruppo di supporto della
sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi
individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri,
biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando
l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli
enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate
alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e
costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della
città in educanti.
Avviare la sperimentazione includendo anche
una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad
abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale
orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con
associazioni di genitori e realtà sociali locali.
Monitorare il percorso sperimentale
attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali,
regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le
azioni di educazione diffusa.
Stimolare e promuovere politiche
dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni
settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali,
sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a
definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.
Dedicare parte dei percorsi di educazione
diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di
dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed
ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli
individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo
all’interno della comunità educante.
Realizzare passeggiate cognitive alla
scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi
dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a
prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e
bambine, ragazzi e ragazze.
Strutturare in dettaglio i processi di
partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi
di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei
loro quesiti desiderosi di risposte.
Documentare il percorso con tutti gli
strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi
in modo che siano consultabili da altre scuole e città.
Appunti per un Progetto di
educazione diffusa
Primi firmatari:
Paolo Mottana, Giuseppe
Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi
Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati,
redazione di Comune
MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da
comune-info
Per aderire al Manifesto scrivete
nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net
Condividendone sperimentazione
desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività
tale matifesto e proposta
Pino de March x
comunimappe
trans-umanesimo
Il
significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo
sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In
New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva
coniato il termine già nel 1949[1].
Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane
umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua
natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di
emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il
compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]
Il
filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi
capitale del XIX sec., sostiene che ‘la
macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della
visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.
Tecnica
che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di
quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto
stesso della sua stessa mani-polazione, che
da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile
l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al
vivente).
Queste
considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non
vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè
di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di
quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina
tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno
umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola
cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in
movimento-in fotogrammi distinti- a
detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan,
che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la
nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo
in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più
dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione che ci richiede meno partecipazione-elaborazione
-di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che
operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che
cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci
richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.
Media caldi e media freddi
Una
ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal
concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo
studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media
freddi.
Come
molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di
polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il
concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un
media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media
“caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una
grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che
richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.
Ma
da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari
passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due
elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero
di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di
definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.
Un
medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con
messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione
fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non
richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante
la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di
un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado
di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan
media caldi.
Al
contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando
però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano
spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa
con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore
proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista
sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al
telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV
è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e
funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo
stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non
può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».
Insomma,
anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza
come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal
tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi
percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra
esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di
McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha
riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:
«Sono
“freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della
superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia
consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben
proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere,
tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi”
invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese
di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di
sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a
scapito di altre».
Da
mediamente.rai.it
postumano
(post-umano),
s. m. e agg. Progressiva
alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a
perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive
[George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che
ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza
artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza
estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta
avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse
preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera,
6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il
post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e
inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della
natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò
post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004,
p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere
umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da
fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero
sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo
ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per
definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle
posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la
seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli
estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo
dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle
possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e
dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo
biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del
Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p.
7).
Derivato
dall’agg. umano con
l’aggiunta del prefisso post-.
Già
attestato nel Corriere
della sera
del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).
TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE
CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE
VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE
L’avvento della meritocrazia
“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il
profetico libro – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea
l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni
governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla
ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe
dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e
socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le
classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro
saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente – ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi
come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si
rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel
manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società
senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di
valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza
e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per
la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro
amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni
essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla
luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari
capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto
daMichael Young – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)
‘ Non
esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o
private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne
poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi ,
nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la
mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.
Certamente in una società che premia il demerito appare
del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può
non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le
attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa,
il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è
palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito,
poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo
la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili
i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il
merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi
parametri: tempi in cui si
verifica spazio in cui avviene
contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole. Il merito è una
variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in
senso assoluto) è impossibile.
La meritocrazia è di conseguenza
impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e
costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la
negazione del merito stesso. Tratto da – il feticcio della
Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.
Eppure la
Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti
coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.
Un altro mantra è la valutazione. Valutare vuole
dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel
mercato a qualcosa.
Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza,
autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto
richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di
scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso
di moneta). La valutazione è l’atto
effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di
sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o
stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente
strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)
Come ben sottolinea Angélique del Rey in
questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018),
la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea
del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica
dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la
performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene
discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce
all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la
valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla
loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del
Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito,
sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio
presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in
cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più,
chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio,
così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia,
senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno.
L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre,
comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’,
nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale
umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo
nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad
aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica
bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal
saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità).
Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità
d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi
tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente
finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo
questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’
(Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento
2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle
esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della
performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura
solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa
adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno
all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.
L’esito è il riconoscersi come soggetti
–(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM
di cartesiana memoria.
Insomma, l’idea dominante è che ogni
individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto
che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.
…..
DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA
FORMAZIONE OBBLIGATORIA
Un esempio significativo di tutto questo lo
possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di
trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici
è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido
soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in
contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di
adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).
Abbiamo
ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a
quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.
DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE
ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE
Ecco perché
in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre
adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio
dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici
dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i
lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare
a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive
dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).
Il futuro del lavoratore (fin da studente)
deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e
soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).
LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE
La pedagogia delle competenze, così come è
delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del
Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del
globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il
sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo
ecc.
Il Consiglio d’Unione Europea adotta una
nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente
(22 maggio 2018)
OTTO COMPETENZE CHIAVE
COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E
TECNOLOGIA
COMPETENZA DIGITALE
IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle
attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare,
utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato
compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i
problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare
rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con
flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera
anche in relazione alle proprie risorse.)
CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI
VALUTATIVI
Tutto ciò si imposto se che governi
nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di
condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che
questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo
movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base
dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e
aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione
dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto
irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di
allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.
Si è così imposta una valutazione che
poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata
e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto
quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie
e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International
Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno
trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e
non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.
Questi sistemi pretendono di misurare ciò
che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una
qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre
concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.
Pertanto non può essere misurata
quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di
fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque
definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti.
Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle
conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle
esperienze pratiche.
Ma dalla fine del XX secolo, questo buon
senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine
‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma
rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze
(qualunque esse siano).
Ciò che caratterizza l’approccio a queste
nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi
educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione.
Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o
comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente
possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro,
per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità
valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si
ritiene tale.
Quindi non solo condizionano le modalità
d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e
rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria
e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza
considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia,
s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello
stile e nei tempi del suo apprendimento.
QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO
L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de
l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi,
abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai
divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà
spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione
dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si
basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la
proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.
La
filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e
plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza
qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la
fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )
La valutazione per competenza si propone di
‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale.
Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la
nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua
riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa
riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique
del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve
performant, La Decouverte, Paris 2013. )
TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE
DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE?
OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.
MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI,
PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO
CHE ALLA COMPETIZIONE.
Ciò che va dunque respinto è quel
dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale
funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato
del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato
sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per
bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)
CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE
DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ,
L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA
CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.
ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO
PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL
PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.
In questo ambito si recupera tutta una tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La valutazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.
Questo testo sopra riportato con alcune mie
note per una riflessione e critica
comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la
tirannia della valutazione, edizione Eleutera.
MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE
Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska
Emi Koyama.
Ultima edizione, 26 Luglio 2001
Testo originale qui. Illustrazione per gentile
concessione di Florent Manelli.
Introduzione
La seconda metà del ventesimo secolo è stata
testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano,
grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo
di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale,
rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno
del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi
di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto
come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più
consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra
debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione
temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive
dell’alleanza.
Ogni volta che alcune donne (precedentemente
ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a
riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali
lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione
dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe,
esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre
prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che
è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista,
espandendo ulteriormente la portata del movimento.
“Trans” è spesso utilizzato come un termine
inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere,
accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e
l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo
manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per
descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno
come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è
l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro
che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che
alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione
metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla
dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in
maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in
comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in
qualche modo utile per le loro lotte.
Il transfemminismo è prima di tutto un
movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria
liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne,
e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer,
intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a
tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e
che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della
loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un
contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia
imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a
fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.
Il transfemminismo non è un tentativo di
impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il
campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e
attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per
la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di
battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche
dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si
sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si
prenderà la briga di farlo.
Principi fondamentali
I principi fondamentali del transfemminismo
sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto
di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti.
Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza
timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto
esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità
politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro
la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi
facciamo.
Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle
dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere
istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o
espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel
contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in
particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la
tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate
dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna
e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria
femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute
come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica
è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega
l’unicità di ogni donna.
Il transfemminismo ritiene che nessun* debba
sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria
identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo.
Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni
personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans,
abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a
“passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover
negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i
nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese
le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i
comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali
comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è
responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la
definizione patriarcale della femminilità.
Le donne non dovrebbero essere accusate di
rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste
scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di
purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come
unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno,
dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti
modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di
prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il
transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono
o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di
incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario –
al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria
libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe,
poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto
patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente
modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di
un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre
al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a
loro disposizione.
La questione del privilegio maschile
Alcune femministe, specialmente le cosiddette
femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere
del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF
(N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una
transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque
beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM
(N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare
una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno
abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio
maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state
usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans
all’interno di alcuni ambienti femministi.
Di fronte a questa argomentazione, la prima
reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia
privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di
essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per
loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i
propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per
esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare
da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state
ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente”
maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di
depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed
esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni
famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.
Tuttavia, come transfemministe dobbiamo
rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio
maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare
che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai
beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate
da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e
hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro,
indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini.
Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans
mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la
transizione.
Questo dimostra che spesso confondiamo
l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del
binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare
che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia
maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il
risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi
derivanti dall’essere trans.
Chiunque abbia un’identità di genere e/o
un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso
assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo
privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per
tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono
intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans
può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha
fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo
subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto
di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più
privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che
le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali
perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.
Spesso nascono tensioni quando le donne trans
tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri
dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta
risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior
parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la
più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro
ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo.
Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più
di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di
sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla
classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans.
Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come
l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da
parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio
privilegio di donne bianche e di classe media.
A partire da questa consapevolezza, le
transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile
negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono
avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre –
nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero
affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede
nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che
accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne
provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si
aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio
privilegio di donne non-trans.
Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi,
come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di
donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla
scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano
degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è
nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.
Decostruire l’essenzialismo inverso
Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia
diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e
sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato
indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione
del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad
abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere
in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla
naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.
Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono
strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è
costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di
genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente
nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato
comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture
discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la
realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più
artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.
La costruzione sociale del sesso biologico è
più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone
intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche
che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker
genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico
del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri
sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o
femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza
di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in
quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici
professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di
solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se
stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni”
chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire
la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia
nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che
nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale
de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola
immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione
non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità
di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva
possibilità di scegliere sul proprio corpo.
Le persone trans sono scontente del sesso che
viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente
semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si
identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato
dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si
identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due.
La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a
prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo
considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e
politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente
assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).
Dal momento che le persone trans cominciano ad
organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista
di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui
essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o
viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione
pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di
un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche
spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto
radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a
queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.
Le persone trans sono spesso state descritte
come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente
o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo
stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona
abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono
menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea
che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle
donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso
quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.
Il transfemminismo sostiene che la propria
identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino,
coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci
relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale
sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla
nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e
rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di
questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso
l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista
secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.
Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista
Noi, in quanto femministe, affermiamo di
sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però,
questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.
Per molte transfemministe, la questione
dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui il nostro bisogno di benessere e sicurezza si
scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio
e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere
nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi
chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità
di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e
possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie
complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.
Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a
procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che
sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia
innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e
politici influenzino le nostre decisioni personali.
Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo
sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono
costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a
questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una
persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la
società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il
genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il
bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere
conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe
del tutto.
Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe
essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri
corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e
alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa
quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il
transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le
quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in
ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di
noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.
Non è contraddittorio lottare contro
l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al
contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per
sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi
tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo sostenere la decisione altrui di modificare
il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari
assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di
noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti
oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli.
La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema
normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi,
l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano
tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.
Violenza contro le donne
Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni
’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi
isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere
soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto
che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici
oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne
che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis,
indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i
cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).
In primo luogo, le donne trans sono prese di
mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è
pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili
quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un
uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire
che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta
ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla
transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di
uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans,
come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico
dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che
lavora come prostituta.
Le donne trans sono anche più vulnerabili agli
abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa
autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un
molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e
pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera
società l’ha sottoposta nel corso degli
anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle
donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze,
aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto
per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri
abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in
caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio
partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.
Inoltre, le donne trans sono prese di mire per
il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone
gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans
sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I
terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono
per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non
corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è
visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o
donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte
persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più
persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans
vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una
società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli
socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da
estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una
combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver
violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.
A causa della situazione di pericolo in cui
viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone
transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare.
Possiamo essere ferit* e restare delus*
dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci
entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente
o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente.
In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia
per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di
prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso
di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri
esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi
esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo
sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è
dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso
più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.
Come transfemministe, non dovremmo richiedere
soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere
noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a
punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza
mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come
consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne
trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di
formazione specifici per il personale.
Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi
di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle
nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da
zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per
l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta
coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze
sessuali.
Dobbiamo anche affrontare il problema della
violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà
perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le
discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno
un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della
transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno
più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo
crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico
quanto sociale e politico.
Salute e scelte riproduttive
Può sembrare ironico che le donne trans, le
quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i
diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione
profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a
scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è
in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le
operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più
spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi
di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a
operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e
vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale
isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù
sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le
donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio
comune, un campo di battaglia.
Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne
trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne
non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione
d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans,
condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la
disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans
devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano
a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il
controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda
soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la
resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne
meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto
a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le
persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di
identità personale.
Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero
cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché
considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è
esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome
riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa
vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle
organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di
scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla
gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta
degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano
coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere
gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di
riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che
temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.
Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare
dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di
salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è
nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione
collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente.
Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far
fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute,
il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere
prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans.
Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute
delle donne ed espanderlo.
Richiamare le analogie con il movimento per la
salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione
dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di
loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo
dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni
trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la
patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi
di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e
nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla
medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo
standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la
patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni,
gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha
costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni
esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità
non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro
dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi
contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia
reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo
dell’identità di genere”.
È ora di agire
Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più
del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro
che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe,
lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile
discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella
categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.
Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni,
aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne,
l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le
donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo
le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo
bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come
transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate
femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.
Il transfemminismo è convinto che una società
che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta
equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene
vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con
questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità
reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva,
ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte
di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si
tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini
auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno
ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una
visione del mondo più inclusiva.
Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo
Ho scritto il Manifesto Transfemminista
nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a
Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a
esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di
essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto
che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti
anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo
conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come
attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una
teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse
radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.
Tuttavia, questo manifesto presenta dei
problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho
fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori,
ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza
riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano
questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi, di più ampia portata, sono:
– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone
trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come
transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con
un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria
maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno
spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto
che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le
persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno
incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al
tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il
focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo
avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi,
come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli
uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso
ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese
delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.
– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il
manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e
oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si
intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa
riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne
bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le
donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho
esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo
scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre
femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria
femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc.
che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo
manifesto è incompleto.
Sebbene si tratti di critiche molto diverse
tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano
occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni
donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il
classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la
battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli
uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è
visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne
svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa
all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni
razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi
sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a
sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho
ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È
stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre
potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità,
che ho potuto liberarmi da questo timore.
Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per
affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la
sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad
altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.
Bonus: femminismo razzista alla National
Women’s Studies Association
Emi Koyama
28 giugno 2008
A marzo mi è stato chiesto di intervenire al
“tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle
opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi
sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata
scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e
nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche
Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California
College of the Arts).
Sono entrata per la prima volta in contatto
con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di
college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi
articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune
riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la
maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed
eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile
identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse.
Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo
conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo
in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.
Verso la fine del semestre una settimana venne
dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di
colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo;
nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire,
in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella
bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana,
evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This
Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo,
uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi
erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in
connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che
prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana,
su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di
concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi
articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s
Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider,
non so se oggi sarei una femminista.
Eppure una settimana non è stata sufficiente
per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando
mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano
ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste,
causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e
di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno
un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore
la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a
responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.
Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a
Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita
adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una
donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere
alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza
domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia
complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito
al progetto.
Eppure mano a mano che conoscevo Diana,
scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al
contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da
incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi
aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call
Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana
era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta
dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito
una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così
le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione
chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però
un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di
alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce
che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse
denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.
Proprio in reazione a questo clima generale
scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia
Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory
Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come
la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le
donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle
preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che
contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così
diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista
(o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire
delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans
potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano
contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia
stato un successo.
Tuttavia, il Manifesto presentava degli
aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali
e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e
delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come
“donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche
di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni
transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo –
inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si
ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni
— come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne
transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo
presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa
che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come
l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme
di oppressione.
Il fatto è che, quando scrissi questo saggio,
mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora
completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che
riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies.
Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in
discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i
diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella
che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che
bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo
sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione
delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li
passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la
giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza
necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le
famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi
silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.
L’invito a parlare durante il panel istituito
per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s
Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla
conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza.
Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà
coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un
contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo
per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e
chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo
nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la
quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di
più”.
Cominciai a parlarne con alcune componenti del
Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da
portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica.
Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra
attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia
sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della
indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.
Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a
quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno,
gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro
senza nessuna contestazione. Decisi di fare qualcosa di diverso: scrissi alla
WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di
iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla
NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io
potessi partecipare alla conferenza.
In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di
offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla
direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più
accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la
co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del
Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la
situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò
alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una
camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata
disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose
femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e
avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA
solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora
a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).
Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la
maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute
panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde,
quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente
leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che
scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo
riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia
posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto
fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di
Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum
tradiva la sua eredità.
Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata
ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a
condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non
era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi
delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa
se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla
conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente
illegittimo.
Audre stessa affrontò circostanze simili nel
1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda
conferenza sul sesso, tenutasi alla New
York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse
rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe
commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle
donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo
significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e
delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non
smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto
famoso quanto poco compreso.
Quando Audre parlava degli “strumenti del
padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche,
etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne
in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a
cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non
solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli
organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si
aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che
molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e
omofobico prosperi.
In un altro testo, anche questo parte di
Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo
alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho
dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte
della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di
parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e
delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se
ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha
coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se
inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.
Nel corso dell’assemblea delle delegate il
giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice
esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il
che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la
conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che
l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio
conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella
stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un
capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di
alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore
della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché
un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di
tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata
vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.
TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI
FLUSSI
Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un
terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo
paradiso rappresentato da Pisotoletto
Dalle relazioni tra
partecipate differenze (sottostanti
duali)della Candiotto alle
molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)
Un modo nuovo per intendere la
“dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo
e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a
pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un
monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma
di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è
cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.
Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.
Studiosa di Platone e
dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia
contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico
socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di
Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in
unive.academia.edu/LauraCandiotto
Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto,
Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé,
Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca
Vasiliu, Mario Vegetti.
Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS
‘Per superare il dualismo è necessario
“aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos
matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione
degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso
riprende il ruolo dello thymos,
a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto
dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento.
Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia
platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo
sforzo di Platone di comporre il dualismi.
Sulla
centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del
dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di
relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo
luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe
nza
dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e
sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico
tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine
il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene”
e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di
mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è
pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta
proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza
dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo
tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare
nella separatezza.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed
epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito
metafisico contemporaneo.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di
illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa
anche per il dibattito metafisico contemporaneo-
— in modo da conservare solo il
sostantivo “molteplicità”
Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.
La
magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e
“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo
“molteplicità” … Tale
operazione
rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte
del
dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno
del
dualismo
è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché
oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono
divisibili.
Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo
come
aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.
Così
che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il
sostantivo
“molteplicità”,
nella forma: non c’è niente che sia uno,
niente che sia multiplo, tutto è
molteplicità. In questo momento, si vede bene la
forte identità di monismo e
pluralismo
nella forma di un processo di immanenza che non può essere né
interessato
– ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né
esasperato.
Il processo di immanenza è anch’esso,
cioè, una molteplicità che designa
un campo di immanenza popolato da una
molteplicità.
Penso
a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana
storia, in
fondo
siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso –
il
lettore
è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non
è
ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero
occidentale
non funziona più intensamente; la differenza è altrove.
Ciò
che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente
differente:
non
è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da
nessun
piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di
un
impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa
che
esso
non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale,
ossia
come
emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come
estrarre
la
sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere
o
orgasmo,
questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la
sua
esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza
dubbio,
occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di
sospensione
come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.
Hanno
una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso
modo:
l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché
è
esauribile.
Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia
femminile
inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può
succedere?
I
flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il
flusso
femminile,
seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso
maschile,
lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio
nella
sua immanenza come processo.
Si prende in prestito un flusso, si assorbe un
flusso, si definisce un puro campo di immanenza del
desiderio, in relazione a cui
piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni
reali o interruzioni.
Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del
desiderio, ma al contrario
un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio
dalla sua stessa immanenza,
dalla sua proprio produttività.
Tutto
ciò ci interessa nella misura in cui, in tale
pensiero,
il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col
piacere,
l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un
flusso,
esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa
una
molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in
soggetto
d’enunciato
e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra
macchina
girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il
soggetto
del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del
piacere
e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.
Ciò
vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del
cogito
non è solo metafisica.
L’intera
storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel
correlare
il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del
godimento,
e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto
dell’enunciato.
E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i
lacaniani,
ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e
retroattivamente
diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto
d’enunciato.
Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il
desiderio
al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il
desiderio
al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla
mancanza
o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste
perfettamente
questa corrotta teoria del desiderio,
parola per parola.
È
in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena
apprensione
dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del
proprio
campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo
popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un
campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.
TRANS-POETICA
La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini
Nota di Lucio Marini
Tra i libri di poesie
“civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più
significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la
straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in
questa raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e
dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e
di ruolo, del poeta. E si indica in
questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota
a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche
principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera. Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e
dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce,
credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere
di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio). Peraltro, anche nella nota sopra citata, si
conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è
indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così
dire, verso la prosa. Ma non ci viene
però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un
grande libro di poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le
avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è
il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che
viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad
esprimerla. Ne Le ceneri di Gramsci o
L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la
tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte
dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno
civile. Il verso dunque, pur lontano dal
formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché
evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia
artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse.
Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini
(espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos,
1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione
e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione. E per far questo egli abbandona, nella
poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso
fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue
ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte
quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa. Che cos’è il verso, infatti, se non
convenzione? qualcosa che si è
sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili
trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia? E se il verso è convenzione, cosa impedisce
al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra
nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del
calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della
poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo
statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla
a un ruolo mimetico della realtà). La
poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si
impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non
può essere costretta dentro un canone.
La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua
verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione. Ed è in questo luogo soltanto che è possibile
riscattarsi dalla massificazione. Siamo
quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il
sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo
senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema
stesso. Anche qui, dunque, siamo dentro
una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo
massificante. Ed è qui che viene messa a
nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello
stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche. Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo
contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le
mistificazione dell’umano troppo umano.
E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande
poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci? quel gusto di sondare i nodi più profondi e
più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da
Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica? Pasolini non fa altro che riscrivere quelle
tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando
la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la
banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte. Se infatti lo spirito della grecità e quello
di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della
convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel
verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale,
unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di
senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante,
sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo. Mentre la poesia greca costruisce la
tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione
anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta
nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da
dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno
strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o
un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).
E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli
rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa
(ma quale poesia?). Egli stesso infatti
dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la
vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di
consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto,
come respirare). L’utilità ne sancirebbe
dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un
sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar
non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime
la sua crisi poetica. E’ invece un
libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual
“grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non
poteva essere scritto in altro modo che in quello. Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito
se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere,
senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che
“poesia” e “identità” sono la stessa cosa.
Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia
come la scrisse in precedenza. Troverei
infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse
potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con
metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi
di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una
farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.
Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le
molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non
più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie,
sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose). Le poesie della raccolta infatti sono
scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971. In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato,
e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene,
anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un
cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato”
in riferimento a qualche massimo sistema).
Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato
dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma
si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a
nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per
poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del
PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi
capire. Pasolini si difende
dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo
tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del
poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i
fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del
filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi). Ed in questo ruolo di artista-critico o
artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua
identità. Non dunque l’artista che
sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange,
ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo. Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a
parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass
media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court
a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente
attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di
quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che
lo sente da poeta. La poesia di
Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare
poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò
che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di
trombone. Trasumanar è prima di tutto un libro appassionato, che
in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze
del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti,
ecc. Per questo riesce ad essere un
libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente
tradizionale della poesia) la prosa. In
questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un
altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo
che l’artista ci propone.
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il
“tono” della poesia. C’è invece un tono,
ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere
con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con
passione. Ho scritto sopra che egli non
poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di
queste liriche che si giustifica l’affermazione. Pasolini evita il tono nasale della lirica
tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o
avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli
sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire. Ma soprattutto non sono congeniali a una
lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle
ragioni, convincere, toccare nel segno.
Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano,
accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per
così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un
dialogo che lo vuole parte attiva. Per
scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia
dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è
quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua
di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella
sensibilità del lettore. Possiamo dire
che sia questa un’operazione anti-letteraria?
Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i
paradossi stanno nel termine stesso.
Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei
“professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche
non classificabile. A me pare che
Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della
seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni
di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se
qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e
ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate
nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che
cosa davvero significhi “verso”). Ecco
dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che
“ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più
profonde. Il tradimento della poesia è
infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti)
una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole
“spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza
dell’artista.
Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale,
dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di
insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie
(anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili
da smascherare. E per la poesia, in
qualunque forma si manifesti.
TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO
trans- [dal lat. trans, trans- «al di là,
attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un
termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in
parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da
tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.;
si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate
dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere,
trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi,
soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di
«al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di
«attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade,
ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare.
In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine
(transfinito), attraversamento di un corpo,
scambio, spostamento; in medicina indica per
lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio
transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di
trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale
metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione
di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla
spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di
estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si
propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant.
con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando
le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.
transindividualeagg. Che
attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la
filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo:
l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo
Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una
quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene
oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi
e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella
relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed
entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca
oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41,
Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura
(Alfredo Giuliani).
prefisso di
parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns
‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa,
quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’
presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno
presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo
elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti
della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi
>>> tra-].
transumare v. intr. [dal fr. transhumer,
comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere
o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della
transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche
come agg.: greggi transumanti.
“la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”.
SIMPOSIO SULLE
TRANS-EDUCAZIONI
IL
BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..
A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA
SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …
CI
SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e
ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)
DOMENICA 19
MAGGIO 2019
ALLA ZONA
ORTIVA
VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per
arrivare:scendere alla fermata autobus 11
c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi,
in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo
punto da lì girate a dx, e dopo aver passato sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il
campo Sinto ci siete …)
INIZIAMO ALLE ORE
10
ALLE 13 PAUSA
PRANZO COMUNE
ALLE 14 RIPRESA
ATTIVITA’ FINO ALLE 16
ACCORDA: PINO
DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
RESPONDENS
(INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO
2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA
SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI
E VALENTINA MILLOTTI DOCENTE E
RICERCATRICE –CESP-COBAS
4 – ESPERIENZE
DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI –
DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA
5 – LA TRASAVANGUARDIA
NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE
6– EDUCARE ALLE
DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA
TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA – NELLE
SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA,
FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE
7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE DI FILOSOFIA
8 – TRANS-SAPERI:
STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI –
RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO
DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE,
RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE
TRANS-EDUCAZIONE-EUROPA-TRANSNAZIONALE
Con questo convivio
trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin
qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche
delle competenze (saper fare ‘performativo
e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper
essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere
performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle
cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista,
umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue
ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali,
e trans-femministi e di ritrovati limiti
e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione
del vivente tutto (trans-umani).
Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:
– un saper-essere (soggetto
attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico,e non soggetto-oggetto, assoggettato,
inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),
un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti
eco-sociali)
ove emerge il primato
delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato (per parafrasare Simondon nella sua complessa
esplicazione della trans-individualità),
che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra
pari, e pensieri incarnati.
Il prefisso trans-indica in
primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni
ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani),
binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili
(infatti
‘nell’uomo ad una dimensione’ il filosofo
H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto
il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e
la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni,
relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.
-e secolari
dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana
smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal
neuroscienziato portoghese Damasio ),
il binarismo sessuale (maschile-femminile,
ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).
Un verso poetico-musicale
in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non
esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra
mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze
naturali e scienze umane ecc.).
Attivarsi in maniera
trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e
tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)
Nel
2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il
simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito.
Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura
e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il
grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto
distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.
“nel primo paradiso, gli
esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano
in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal
voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati
ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di
quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato
oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere
umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A
quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a
degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso
di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che
pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi,
chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra
artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple,
ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela
artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine
biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria
metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire
il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel
2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela
reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con
l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità.
Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con
il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno
matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi
forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due
volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano
tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio
entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi
congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo
paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della
conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto
dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto
edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it )
Tommaso
Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha
dato della poesia una celebre definizione: “la poesia è un sogno fatto alla
presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata,
tra gli altri da Montale.
QUALE TRANS-EDUCAZIONE
APERTA, CRITICA,LAICA E PUBBLICA
POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni
del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere
attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)
e non il passivo dimorare
e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’
(prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse,
ammutolite e omologate istituzione educative europee?
GLI
INCANTESIMI NEO-LIBERISTI
“L’economia è
il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret
Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)
Di Altre Trans-educazioni
abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione
multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana,
trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar
–organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.
E che
sappia denunciare e invertire al tendenza
nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare
e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad
un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta
le conoscenze.
Un
trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non
solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione
letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di
unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava
criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);
tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato
all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione
umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.
IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE COMPETIZIONALE LIBERISTA-MERCANTILE DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA
ED ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE E
ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI INTELLIGENTI E COMPLESSI RENDENDOLI
OGGETTI COMPARABILI AD ALTRE
RISORSE ) ,CHE GENERA PLUS-VALORE
(K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE
MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE INQUIETUDINE ESISTENZIALE ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE IN UN CONTESTO DI MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE
GLI ALGORITMI DELLE PIATTAFORME DOMINATI
OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE
RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE
GENERAZIONI).
MATERIALI
TRANS-EDUCAZIONE PER
PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E
Di fronte ad una visione
impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone
per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al
centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere
l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].
Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte
limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza
viva e differente del
tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge
sull’inedito significa
slargare lo spazio dell’esperire.
Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad
inabissarsi, la vita della
mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si
tratta per questo
di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare,
affinché non sia solo
ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia,
l’obbedire alla necessità
di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare
in una diminuzione
di essere, perché può accadere di moderare le domande di
senso, di cercare
poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla
della necessità
Saggi 57
Conosce re se stessi per ave r cura di sé
di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che
sempre sono (Platone,
La repubblica, 518c); si può
ridefinire il senso di questo rigirare radicale per
intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione
di accettare il
già detto e quel poco che si rende accessibile, per
arrischiare l’inedito e l’ulteriore
rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come
l’arte (Platone,
La repubblica, 518d) del tornare a
stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,
nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di
senso che guidano
la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.
Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima
vada iniziata a
partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti
quei «pesi di piombo»
che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte
quelle cattive abitudini
che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,
519a-)
Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello
Cortina-2019
MEDITAZIONI
SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA
«Se pensi che l’istruzione sia costosa,
prova con l’ignoranza»
Queste parole non sono
state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore
dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel
libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco
per Guanda.
Quest’espressione amara, ironica e di protesta è
ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranza’ nelle piazze
tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi
dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la
regressione che stavamo attraversando.
Però non per riaffermare la visione elitaria e
classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa
prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce
in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni
sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”
“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni
casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la
conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza
competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe
cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine
la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere
umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non
diretti.
Date le caratteristiche della conoscenza, come si
distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in
base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni
degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile,
all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante; gli esseri conoscenti avranno invece
bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati
scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui conoscenza sia stata per varie ragioni
negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e
alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è
anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un
genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e
segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno
conosce. ‘Conoscere porta sì
travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota
per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a
problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò
nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie
felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud
Però come
intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci
nulla:
CHI HA PAURA NON PUÒ
EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.
Non abbiamo assistito
passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli
ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati
(sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via
blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista,
amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita
neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in
tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi
Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da
Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e
dell’edonismo reganiano;
queste vuote ed inondanti
narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo
sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in zone temporaneamente autonome antagoniste, di
punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o
‘libere’.
Ai canali mainstream
della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche
‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a
partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione
culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via
d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche
‘delle competenze’ e e di
condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una
prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari,
e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla
realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi
produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o
economia dei servizi e della conoscenza).
Le scuola e le università che si erano
auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da
ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o
le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e
tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove
generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini
d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali;
sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di
gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università
d’orizzonti ristretti e funzionali
alla
produzione
del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.
Nessun interesse o
passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei
neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero
e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia
naturali che umane;
la mancanza d’attenzione
alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e
sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie
digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro
vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel
benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella
precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e
per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare
affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico
pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.
Chi ha paura non può
educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una
«buona scuola» (il riferimento è alla successiva riforma del governo Renzi, ndr.) che viene
sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento
preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo
sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio
educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della
produttività economica.
neoliberismoIndirizzo di pensiero economico che, in nome delle
riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali
violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche
all’ombra del laissez
faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva
libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà
politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L.
von Mises e il francese J.-L.
Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera
concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato,
ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in
costrizione.
Dizionario – Trecani
capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità
professionali e relazionali possedute in genere
dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica,
ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di
lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate
dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente,
le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione
erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e
a qualificarla, influenzandone i risultati.
Capitale umano come patrimonio
dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte
di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri
dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una
utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e
competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce
anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di
un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli
individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato
come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento
delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione)
degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una
particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli
investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i
redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati
all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta
tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà,
di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo
dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite
compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece
oggetto di scambio sul mercato.
Evoluzione del concetto di capitale
umano. Sebbene indicato con termini diversi,
il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a
partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole
attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G.
Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del
comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica.
Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte
dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli
argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra
crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di
addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo
così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito
dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua
soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi
principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata
risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata
alle esigenze di un Paese a economia avanzata.
TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA
Pensare ed abitare –l’Europa
partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire
pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di
molteplici luoghi e pensieri.
“Ci si è domandati spesso, fin da quando il
modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo
e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea
comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la
strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla
riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse
quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che
da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani-
i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed.
Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in
questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il
vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e
delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto
di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei
razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole
provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che
l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la
discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia
davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove
c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a
sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di
filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere
come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio
inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come
quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un
circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.
……
Altrettanto abbagliante,
e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di
ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e
lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….
…..
O ancora nel misero
bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un
paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani,
vapori neri e mefitici.
….
E ciò che traspare qui è
qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un
modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e
politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non
può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio
agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di questa comunanza di vita ed ideale, oltre che
alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri –
luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi
deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili
stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.
Trans-educazione
bio-politica
‘La conoscenza è un po’
come la libertà, un valore positivo per eccellenza.
L’abbiamo sentito evocare
nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista
pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto
all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di
Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a
ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando
il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna
possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti
Il trans-individuale in
Simondon
G. Simondon è stato un
filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli
anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta
principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e
politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario
intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di
G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert
Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice
bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli
anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e
altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce
ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua
tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta
a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon
divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione
alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse
soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee
transindividualel
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO
Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità
della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi
alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma
anche intravvede la soglia( di relazione).
.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di
plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare
una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto
tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare
o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di
ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione
attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma,
luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma
meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico
o infinitamente complesso e diverso.
Trans-individuale
Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può
aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine
metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a
posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di
tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso
delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica
separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa
(il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore
scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave
incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la
corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta
sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi
quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine.
Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene
scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del
ragionare-deecidere, per non rimanere in
quello stallo di paralisi d’indecisione
narrato in un racconto zen, di un millepiedi
che non sapendosi decidersi con
quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.
Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione
dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma
(idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune
discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al
cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono
strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…
Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo
dell’individuazione psichica e di quella collettiva.
Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della
società rispetto all’individuo.
E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per
comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo,
trans-.culture, trans-umano ecc
Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui
Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione
di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di
tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica
occidentale:
la tesi del processo
d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui
termini della relazione.
Nell’individuazione
psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi
d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico
all’individuo già costituito.
Sia la tradizione sostanzialista
(sostanzialista agg. e s. m. e f.
[der. di sostanziale]
(pl. m. -i). –
Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina,
o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente
sostanziale, oltre ogni apparenza).
()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo
(o ilomorfismo)
s. m. [comp. del gr. ὕλη
«materia» e μορϕή
«forma»]. – Nel linguaggio filos., la
dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una
composizione ontologica di materia e forma).
Sia la dottrina
sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra
loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio
d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di
spiegarla,provocarla e dirigerla.
principio d’individuazione,
criterio o elemento
della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua
unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale
all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come
ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie.
È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande
problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio
ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in
volta interessati.
L’individuo vivente per
Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un sistema che si individua.
Il trans-individuale è
dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo
l’individuazione psichica che quella collettiva.
E qui emerge il primato
della relazione sugli elementi o della
costituitività o ciò che lo compone.
Tesi sostenute da
Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e
relazionismo.
Il
problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione
tra
materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana
dell’intenzionalità,
e
tale operazione può essere condotta se si approfondisce
lo
spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica
definitoria
dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico
questo
programma è stato delineato da Francisco
Varela
sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di
Maurice
Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa
in
modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in
termini
di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a
Humberto
Maturana, Varela
ha proposto una concezione della natura
in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente
sistemi
biologici capaci di comportamenti cognitivi in
quanto capaci di auto-
riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione
dell’esperienza
propria della metafisica di Whitehead può essere più
proficuamente
esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità
può cioè essere affrontata a partire da una revisione della
nozione di
natura che consenta di
superare il dualismo cartesiano di brentano
senza tornare a una prospettiva spiritualistica
relativamente alla
mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di
indagare
la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che
significa
che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un
problema
squisitamente ontologico.
La relazione non è mai tra
due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla
relazione.
…
Una relazione va intesa come relazione nell’essere, relazione
dell’essere e relazione del modo di essere.
Non già mero rapporto tra due termini
che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili
adeguatamente per mezzo dei concetti.
Questa nuova logica non è più
fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto
individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.
Il trans-individuale non è altro che la
categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del
sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra
di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo
metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.
La società –scrive Simondon non è il
prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una
realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente
da essi.
La società è l’operazione, è condizione
operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia
la presenza dell’essere individuale isolato.
Un modello di relazione esso stesso
senza centro (complesso e stratificato).
Simondon conclude che non vi è qualcosa
di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare
situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.
Idividuazione attraverso
la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o
concetto ad un altro.
La metastabilità
Simondon ricorre alla
fisica per comprendere quella situazione
che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè
metastabile.
La metastabilità è la
caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso,
diverso
Manifesto dell’educazione diffusa
“Mai più aule tra i muri e
studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”
(La Città educante. Manifesto della
educazione diffusa, Asterios)
L’educazione diffusa è
un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di
rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società
che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e
formativo.
La scuola dove ridursi a una
base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi
aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze
delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi
e bambini stessi.
All’apprendimento chiuso e
iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà
si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze
concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma
educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di
interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I
ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo
emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e
a interrogarsi.
È un atto politico portare
questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di
vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e
il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.
L’educazione diffusa pone al
centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i
sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.
L’educazione diffusa ribalta
l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il
corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento
duraturo.
L’educazione diffusa libera i
bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia
scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i
luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per
offrire il proprio contributo alla società.
L’educazione diffusa è un
reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più
giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano,
danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da
tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.
L’educazione diffusa sradica la
malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali
correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali
solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter
stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e
correggibile
L’educazione diffusa vede gli
insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane,
sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non
nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi
avvizziscono.
L’educazione diffusa chiama
tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi
più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della
sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e
imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.
L’educazione diffusa trasforma
il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di
cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni
logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno
monetario.
Nell’educazione diffusa si
assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile,
finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini
e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti
portatori di un’inconfondibile identità planetaria.
Per iniziare a sperimentare
l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti
appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano
voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere
riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.
Con l’educazione diffusa ognuno
viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di
unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve
fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed
impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità
scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove
l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico,
familiare, religioso, aziendale).
Il Manifesto tradotto in
ucraino (presto la versione in altre lingue)
Azioni di
educazione diffusa
Costruire la rete di Educazione Diffusa e
Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete
può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato
di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe,
mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e
cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali e culturali, professionisti, singoli
cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di
attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le
Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di
istruzione).
Avviare incontri di auto-formazione tra
scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio
circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della
educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione
che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.
Elaborare, come gruppo di supporto della
sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi
individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri,
biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando
l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli
enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate
alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e
costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della
città in educanti.
Avviare la sperimentazione includendo anche
una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad
abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale
orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con
associazioni di genitori e realtà sociali locali.
Monitorare il percorso sperimentale
attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali,
regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le
azioni di educazione diffusa.
Stimolare e promuovere politiche
dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni
settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali,
sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a
definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.
Dedicare parte dei percorsi di educazione
diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di
dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed
ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli
individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo
all’interno della comunità educante.
Realizzare passeggiate cognitive alla
scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi
dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a
prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e
bambine, ragazzi e ragazze.
Strutturare in dettaglio i processi di
partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi
di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei
loro quesiti desiderosi di risposte.
Documentare il percorso con tutti gli
strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi
in modo che siano consultabili da altre scuole e città.
Appunti per un Progetto di
educazione diffusa
Primi firmatari:
Paolo Mottana, Giuseppe
Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi
Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati,
redazione di Comune
MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da
comune-info
Per aderire al Manifesto scrivete
nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net
Condividendone sperimentazione
desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività
tale matifesto e proposta
Pino de March x
comunimappe
trans-umanesimo
Il
significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo
sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In
New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva
coniato il termine già nel 1949[1].
Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane
umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua
natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di
emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il
compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]
Il
filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi
capitale del XIX sec., sostiene che ‘la
macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della
visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.
Tecnica
che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di
quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto
stesso della sua stessa mani-polazione, che
da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile
l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al
vivente).
Queste
considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non
vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè
di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di
quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina
tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno
umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola
cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in
movimento-in fotogrammi distinti- a
detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan,
che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la
nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo
in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più
dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione che ci richiede meno partecipazione-elaborazione
-di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che
operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che
cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci
richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.
Media caldi e media freddi
Una
ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal
concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo
studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media
freddi.
Come
molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di
polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il
concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un
media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media
“caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una
grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che
richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.
Ma
da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari
passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due
elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero
di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di
definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.
Un
medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con
messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione
fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non
richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante
la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di
un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado
di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan
media caldi.
Al
contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando
però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano
spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa
con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore
proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista
sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al
telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV
è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e
funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo
stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non
può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».
Insomma,
anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza
come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal
tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi
percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra
esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di
McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha
riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:
«Sono
“freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della
superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia
consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben
proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere,
tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi”
invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese
di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di
sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a
scapito di altre».
Da
mediamente.rai.it
postumano
(post-umano),
s. m. e agg. Progressiva
alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a
perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive
[George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che
ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza
artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza
estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta
avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse
preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera,
6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il
post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e
inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della
natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò
post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004,
p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere
umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da
fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero
sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo
ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per
definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle
posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la
seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli
estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo
dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle
possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e
dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo
biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del
Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p.
7).
Derivato
dall’agg. umano con
l’aggiunta del prefisso post-.
Già
attestato nel Corriere
della sera
del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).
TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE
CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE
VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE
L’avvento della meritocrazia
“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il
profetico libro – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea
l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni
governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla
ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe
dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e
socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le
classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro
saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente – ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi
come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si
rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel
manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società
senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di
valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza
e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per
la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro
amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni
essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla
luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari
capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto
daMichael Young – The Rise of
Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)
‘ Non
esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o
private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne
poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi ,
nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la
mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.
Certamente in una società che premia il demerito appare
del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può
non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le
attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa,
il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è
palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito,
poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo
la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili
i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il
merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi
parametri: tempi in cui si
verifica spazio in cui avviene
contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole. Il merito è una
variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in
senso assoluto) è impossibile.
La meritocrazia è di conseguenza
impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e
costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la
negazione del merito stesso. Tratto da – il feticcio della
Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.
Eppure la
Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti
coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.
Un altro mantra è la valutazione. Valutare vuole
dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel
mercato a qualcosa.
Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza,
autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto
richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di
scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso
di moneta). La valutazione è l’atto
effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di
sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o
stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente
strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)
Come ben sottolinea Angélique del Rey in
questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018),
la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea
del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica
dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la
performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene
discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce
all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la
valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla
loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del
Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito,
sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio
presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in
cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più,
chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio,
così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia,
senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno.
L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre,
comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’,
nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale
umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo
nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad
aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica
bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal
saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità).
Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità
d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi
tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente
finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo
questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’
(Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento
2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle
esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della
performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura
solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa
adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno
all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.
L’esito è il riconoscersi come soggetti
–(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM
di cartesiana memoria.
Insomma, l’idea dominante è che ogni
individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto
che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.
…..
DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA
FORMAZIONE OBBLIGATORIA
Un esempio significativo di tutto questo lo
possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di
trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici
è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido
soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in
contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di
adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).
Abbiamo
ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a
quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.
DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE
ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE
Ecco perché
in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre
adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio
dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici
dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i
lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare
a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive
dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).
Il futuro del lavoratore (fin da studente)
deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e
soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).
LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE
La pedagogia delle competenze, così come è
delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del
Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del
globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il
sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo
ecc.
Il Consiglio d’Unione Europea adotta una
nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente
(22 maggio 2018)
OTTO COMPETENZE CHIAVE
COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E
TECNOLOGIA
COMPETENZA DIGITALE
IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle
attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare,
utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato
compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i
problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare
rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con
flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera
anche in relazione alle proprie risorse.)
CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI
VALUTATIVI
Tutto ciò si imposto se che governi
nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di
condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che
questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo
movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base
dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e
aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione
dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto
irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di
allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.
Si è così imposta una valutazione che
poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata
e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto
quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie
e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International
Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno
trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e
non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.
Questi sistemi pretendono di misurare ciò
che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una
qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre
concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.
Pertanto non può essere misurata
quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di
fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque
definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti.
Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle
conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle
esperienze pratiche.
Ma dalla fine del XX secolo, questo buon
senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine
‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma
rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze
(qualunque esse siano).
Ciò che caratterizza l’approccio a queste
nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi
educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione.
Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o
comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente
possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro,
per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità
valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si
ritiene tale.
Quindi non solo condizionano le modalità
d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e
rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria
e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza
considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia,
s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello
stile e nei tempi del suo apprendimento.
QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO
L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de
l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi,
abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai
divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà
spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione
dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si
basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la
proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.
La
filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e
plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza
qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la
fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )
La valutazione per competenza si propone di
‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale.
Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la
nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua
riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa
riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique
del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve
performant, La Decouverte, Paris 2013. )
TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE
DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE?
OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.
MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI,
PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO
CHE ALLA COMPETIZIONE.
Ciò che va dunque respinto è quel
dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale
funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato
del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato
sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per
bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)
CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE
DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ,
L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA
CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.
ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO
PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL
PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.
In questo ambito si recupera tutta una
tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate
anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e
fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per
intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento
di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare
anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e
un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in
pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che
l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La
vantazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e
perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è
funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori
si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un
punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni
valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile
ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad
essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.
Questo testo sopra riportato con alcune mie
note per una riflessione e critica
comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la
tirannia della valutazione, edizione Eleutera.
MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE
Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska
Emi Koyama.
Ultima edizione, 26 Luglio 2001
Testo originale qui. Illustrazione per gentile
concessione di Florent Manelli.
Introduzione
La seconda metà del ventesimo secolo è stata
testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano,
grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo
di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale,
rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno
del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi
di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto
come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più
consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra
debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione
temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive
dell’alleanza.
Ogni volta che alcune donne (precedentemente
ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a
riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali
lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione
dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe,
esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre
prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che
è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista,
espandendo ulteriormente la portata del movimento.
“Trans” è spesso utilizzato come un termine
inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere,
accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e
l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo
manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per
descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno
come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è
l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro
che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che
alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione
metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla
dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in
maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in
comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in
qualche modo utile per le loro lotte.
Il transfemminismo è prima di tutto un
movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria
liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne,
e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer,
intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a
tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e
che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della
loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un
contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia
imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a
fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.
Il transfemminismo non è un tentativo di
impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il
campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e
attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per
la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di
battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche
dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si
sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si
prenderà la briga di farlo.
Principi fondamentali
I principi fondamentali del transfemminismo
sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto
di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti.
Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza
timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto
esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità
politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro
la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi
facciamo.
Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle
dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere
istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o
espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel
contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in
particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la
tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate
dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna
e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria
femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute
come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica
è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega
l’unicità di ogni donna.
Il transfemminismo ritiene che nessun* debba
sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria
identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo.
Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni
personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans,
abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a
“passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover
negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i
nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese
le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i
comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali
comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è
responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la
definizione patriarcale della femminilità.
Le donne non dovrebbero essere accusate di
rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste
scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di
purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come
unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno,
dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti
modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di
prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il
transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono
o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di
incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario –
al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria
libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe,
poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto
patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente
modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di
un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre
al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a
loro disposizione.
La questione del privilegio maschile
Alcune femministe, specialmente le cosiddette
femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere
del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF
(N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una
transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque
beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM
(N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso
biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare
una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno
abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio
maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state
usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans
all’interno di alcuni ambienti femministi.
Di fronte a questa argomentazione, la prima
reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia
privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di
essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per
loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i
propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per
esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare
da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state
ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente”
maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di
depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed
esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni
famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.
Tuttavia, come transfemministe dobbiamo
rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio
maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare
che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai
beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate
da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e
hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro,
indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini.
Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans
mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la
transizione.
Questo dimostra che spesso confondiamo
l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del
binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare
che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia
maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il
risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi
derivanti dall’essere trans.
Chiunque abbia un’identità di genere e/o
un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso
assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo
privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per
tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono
intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans
può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha
fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo
subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto
di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più
privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che
le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali
perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.
Spesso nascono tensioni quando le donne trans
tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri
dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta
risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior
parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la
più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro
ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo.
Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più
di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di
sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla
classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans.
Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come
l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da
parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio
privilegio di donne bianche e di classe media.
A partire da questa consapevolezza, le
transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile
negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono
avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre –
nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero
affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede
nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che
accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne
provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si
aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio
privilegio di donne non-trans.
Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi,
come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di
donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla
scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano
degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è
nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.
Decostruire l’essenzialismo inverso
Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia
diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e
sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato
indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione
del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad
abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere
in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla
naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.
Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono
strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è
costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di
genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente
nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato
comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture
discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la
realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più
artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.
La costruzione sociale del sesso biologico è
più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone
intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche
che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker
genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico
del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri
sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o
femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza
di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in
quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici
professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di
solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se
stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni”
chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire
la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia
nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che
nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale
de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola
immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione
non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità
di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva
possibilità di scegliere sul proprio corpo.
Le persone trans sono scontente del sesso che
viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente
semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si
identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato
dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si
identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due.
La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a
prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo
considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e
politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente
assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).
Dal momento che le persone trans cominciano ad
organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista
di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui
essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o
viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione
pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di
un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche
spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto
radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a
queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.
Le persone trans sono spesso state descritte
come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente
o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo
stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona
abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono
menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea
che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle
donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso
quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.
Il transfemminismo sostiene che la propria
identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino,
coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci
relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale
sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla
nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e
rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di
questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso
l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista
secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.
Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista
Noi, in quanto femministe, affermiamo di
sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però,
questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.
Per molte transfemministe, la questione
dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui il nostro bisogno di benessere e sicurezza si
scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio
e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere
nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi
chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità
di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e
possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie
complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.
Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a
procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che
sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia
innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e
politici influenzino le nostre decisioni personali.
Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo
sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono
costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a
questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una
persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la
società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il
genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il
bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere
conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe
del tutto.
Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe
essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri
corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e
alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa
quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il
transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le
quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in
ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di
noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.
Non è contraddittorio lottare contro
l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al
contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per
sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi
tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo sostenere la decisione altrui di modificare
il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari
assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di
noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti
oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli.
La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema
normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi,
l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano
tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.
Violenza contro le donne
Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni
’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi
isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere
soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto
che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici
oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne
che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis,
indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i
cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).
In primo luogo, le donne trans sono prese di
mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è
pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili
quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un
uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire
che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta
ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla
transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di
uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans,
come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico
dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che
lavora come prostituta.
Le donne trans sono anche più vulnerabili agli
abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa
autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un
molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e
pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera
società l’ha sottoposta nel corso degli
anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle
donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze,
aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto
per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri
abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in
caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio
partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.
Inoltre, le donne trans sono prese di mire per
il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone
gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans
sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I
terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono
per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non
corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è
visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o
donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte
persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più
persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans
vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una
società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli
socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da
estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una
combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver
violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.
A causa della situazione di pericolo in cui
viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone
transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare.
Possiamo essere ferit* e restare delus*
dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci
entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente
o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente.
In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia
per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di
prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso
di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri
esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi
esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo
sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è
dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso
più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.
Come transfemministe, non dovremmo richiedere
soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere
noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a
punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza
mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come
consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne
trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di
formazione specifici per il personale.
Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi
di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle
nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da
zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per
l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta
coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze
sessuali.
Dobbiamo anche affrontare il problema della
violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà
perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le
discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno
un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della
transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno
più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo
crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico
quanto sociale e politico.
Salute e scelte riproduttive
Può sembrare ironico che le donne trans, le
quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i
diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione
profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a
scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è
in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le
operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più
spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi
di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a
operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e
vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale
isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù
sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le
donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio
comune, un campo di battaglia.
Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne
trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne
non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione
d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans,
condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la
disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans
devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano
a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il
controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda
soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la
resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne
meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto
a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le
persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di
identità personale.
Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero
cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché
considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è
esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome
riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa
vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle
organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di
scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla
gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta
degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano
coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere
gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di
riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che
temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.
Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare
dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di
salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è
nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione
collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente.
Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far
fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute,
il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere
prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans.
Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute
delle donne ed espanderlo.
Richiamare le analogie con il movimento per la
salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione
dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di
loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo
dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni
trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la
patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi
di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e
nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla
medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo
standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la
patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni,
gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha
costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni
esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità
non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro
dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi
contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia
reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo
dell’identità di genere”.
È ora di agire
Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più
del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro
che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe,
lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile
discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella
categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.
Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni,
aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne,
l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le
donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo
le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo
bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come
transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate
femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.
Il transfemminismo è convinto che una società
che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta
equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene
vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con
questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità
reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva,
ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte
di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si
tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini
auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno
ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una
visione del mondo più inclusiva.
Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo
Ho scritto il Manifesto Transfemminista
nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a
Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a
esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di
essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto
che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti
anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo
conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come
attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una
teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse
radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.
Tuttavia, questo manifesto presenta dei
problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho
fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori,
ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza
riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano
questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi, di più ampia portata, sono:
– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone
trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come
transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con
un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria
maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno
spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto
che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le
persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno
incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al
tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il
focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo
avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi,
come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli
uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso
ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese
delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.
– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il
manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e
oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si
intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa
riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne
bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le
donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho
esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo
scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre
femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria
femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc.
che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo
manifesto è incompleto.
Sebbene si tratti di critiche molto diverse
tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano
occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni
donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il
classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la
battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli
uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è
visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne
svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa
all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni
razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi
sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a
sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho
ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È
stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre
potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità,
che ho potuto liberarmi da questo timore.
Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per
affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la
sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad
altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.
Bonus: femminismo razzista alla National
Women’s Studies Association
Emi Koyama
28 giugno 2008
A marzo mi è stato chiesto di intervenire al
“tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle
opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi
sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata
scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e
nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche
Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California
College of the Arts).
Sono entrata per la prima volta in contatto
con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di
college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi
articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune
riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la
maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed
eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile
identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse.
Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo
conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo
in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.
Verso la fine del semestre una settimana venne
dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di
colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo;
nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire,
in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella
bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana,
evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This
Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo,
uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi
erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in
connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che
prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana,
su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di
concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi
articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s
Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider,
non so se oggi sarei una femminista.
Eppure una settimana non è stata sufficiente
per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando
mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano
ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste,
causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e
di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno
un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore
la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a
responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.
Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a
Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita
adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una
donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere
alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza
domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia
complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito
al progetto.
Eppure mano a mano che conoscevo Diana,
scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al
contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da
incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi
aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call
Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana
era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta
dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito
una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così
le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione
chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però
un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di
alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce
che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse
denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.
Proprio in reazione a questo clima generale
scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia
Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory
Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come
la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le
donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle
preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che
contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così
diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista
(o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire
delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans
potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano
contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia
stato un successo.
Tuttavia, il Manifesto presentava degli
aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali
e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e
delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come
“donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche
di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni
transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo –
inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si
ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni
— come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne
transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo
presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa
che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come
l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme
di oppressione.
Il fatto è che, quando scrissi questo saggio,
mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora
completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che
riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies.
Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in
discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i
diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella
che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che
bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo
sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione
delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li
passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la
giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza
necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le
famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi
silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.
L’invito a parlare durante il panel istituito
per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s
Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla
conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza.
Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà
coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un
contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo
per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e
chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo
nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la
quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di
più”.
Cominciai a parlarne con alcune componenti del
Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da
portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica.
Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra
attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia
sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della
indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.
Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a
quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno,
gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro
senza nessuna contestazione. Decisi di fare qualcosa di diverso: scrissi alla
WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di
iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla
NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io
potessi partecipare alla conferenza.
In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di
offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla
direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più
accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la
co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del
Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la
situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò
alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una
camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata
disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose
femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e
avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA
solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora
a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).
Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la
maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute
panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde,
quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente
leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che
scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo
riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia
posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto
fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di
Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum
tradiva la sua eredità.
Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata
ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a
condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non
era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi
delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa
se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla
conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente
illegittimo.
Audre stessa affrontò circostanze simili nel
1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda
conferenza sul sesso, tenutasi alla New
York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse
rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe
commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle
donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo
significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e
delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non
smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto
famoso quanto poco compreso.
Quando Audre parlava degli “strumenti del
padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche,
etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne
in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a
cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non
solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli
organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si
aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che
molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e
omofobico prosperi.
In un altro testo, anche questo parte di
Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo
alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho
dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte
della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di
parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e
delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se
ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha
coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se
inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.
Nel corso dell’assemblea delle delegate il
giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice
esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il
che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la
conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che
l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio
conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella
stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un
capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di
alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore
della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché
un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di
tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata
vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.
TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI
FLUSSI
Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un
terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo
paradiso rappresentato da Pisotoletto
Dalle relazioni tra
partecipate differenze (sottostanti
duali)della Candiotto alle
molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)
Un modo nuovo per intendere la
“dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo
e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a
pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un
monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma
di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è
cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.
Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.
Studiosa di Platone e
dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia
contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico
socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di
Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in
unive.academia.edu/LauraCandiotto
Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto,
Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé,
Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca
Vasiliu, Mario Vegetti.
Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS
‘Per superare il dualismo è necessario
“aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos
matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione
degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso
riprende il ruolo dello thymos,
a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto
dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento.
Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia
platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo
sforzo di Platone di comporre il dualismi.
Sulla
centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del
dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di
relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo
luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe
nza
dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e
sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico
tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine
il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene”
e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di
mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è
pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta
proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza
dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo
tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare
nella separatezza.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed
epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito
metafisico contemporaneo.
Altro
dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di
illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa
anche per il dibattito metafisico contemporaneo-
— in modo da conservare solo il
sostantivo “molteplicità”
Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.
La
magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e
“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo
“molteplicità” … Tale
operazione
rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte
del
dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno
del
dualismo
è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché
oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono
divisibili.
Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo
come
aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.
Così
che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il
sostantivo
“molteplicità”,
nella forma: non c’è niente che sia uno,
niente che sia multiplo, tutto è
molteplicità. In questo momento, si vede bene la
forte identità di monismo e
pluralismo
nella forma di un processo di immanenza che non può essere né
interessato
– ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né
esasperato.
Il processo di immanenza è anch’esso,
cioè, una molteplicità che designa
un campo di immanenza popolato da una
molteplicità.
Penso
a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana
storia, in
fondo
siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso –
il
lettore
è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non
è
ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero
occidentale
non funziona più intensamente; la differenza è altrove.
Ciò
che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente
differente:
non
è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da
nessun
piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di
un
impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa
che
esso
non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale,
ossia
come
emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come
estrarre
la
sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere
o
orgasmo,
questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la
sua
esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza
dubbio,
occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di
sospensione
come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.
Hanno
una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso
modo:
l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché
è
esauribile.
Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia
femminile
inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può
succedere?
I
flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il
flusso
femminile,
seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso
maschile,
lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio
nella
sua immanenza come processo.
Si prende in prestito un flusso, si assorbe un
flusso, si definisce un puro campo di immanenza del
desiderio, in relazione a cui
piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni
reali o interruzioni.
Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del
desiderio, ma al contrario
un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio
dalla sua stessa immanenza,
dalla sua proprio produttività.
Tutto
ciò ci interessa nella misura in cui, in tale
pensiero,
il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col
piacere,
l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un
flusso,
esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa
una
molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in
soggetto
d’enunciato
e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra
macchina
girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il
soggetto
del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del
piacere
e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.
Ciò
vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del
cogito
non è solo metafisica.
L’intera
storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel
correlare
il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del
godimento,
e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto
dell’enunciato.
E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i
lacaniani,
ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e
retroattivamente
diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto
d’enunciato.
Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il
desiderio
al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il
desiderio
al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla
mancanza
o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste
perfettamente
questa corrotta teoria del desiderio,
parola per parola.
È
in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena
apprensione
dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del
proprio
campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo
popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un
campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.
TRANS-POETICA
La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini
Nota di Lucio Marini
Tra i libri di poesie
“civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più
significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la
straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in
questa raccolta.
Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e
dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e
di ruolo, del poeta. E si indica in
questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota
a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche
principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera. Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e
dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce,
credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere
di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio). Peraltro, anche nella nota sopra citata, si
conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è
indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così
dire, verso la prosa. Ma non ci viene
però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un
grande libro di poesia.
Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le
avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è
il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che
viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad
esprimerla. Ne Le ceneri di Gramsci o
L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la
tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte
dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno
civile. Il verso dunque, pur lontano dal
formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché
evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia
artistico che civile.
In Trasumanar le cose sono diverse.
Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini
(espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos,
1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione
e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione. E per far questo egli abbandona, nella
poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso
fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue
ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte
quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa. Che cos’è il verso, infatti, se non
convenzione? qualcosa che si è
sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili
trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia? E se il verso è convenzione, cosa impedisce
al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra
nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del
calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della
poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo
statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla
a un ruolo mimetico della realtà). La
poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si
impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non
può essere costretta dentro un canone.
La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua
verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione. Ed è in questo luogo soltanto che è possibile
riscattarsi dalla massificazione. Siamo
quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il
sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo
senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema
stesso. Anche qui, dunque, siamo dentro
una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo
massificante. Ed è qui che viene messa a
nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello
stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche. Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo
contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le
mistificazione dell’umano troppo umano.
E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande
poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci? quel gusto di sondare i nodi più profondi e
più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da
Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica? Pasolini non fa altro che riscrivere quelle
tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando
la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la
banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte. Se infatti lo spirito della grecità e quello
di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della
convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel
verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale,
unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di
senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante,
sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo. Mentre la poesia greca costruisce la
tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione
anti-poetica. L’impoetico, se mai, sta
nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da
dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno
strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o
un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).
E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli
rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa
(ma quale poesia?). Egli stesso infatti
dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la
vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di
consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto,
come respirare). L’utilità ne sancirebbe
dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un
sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.
Trasumanar e organizzar
non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime
la sua crisi poetica. E’ invece un
libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual
“grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non
poteva essere scritto in altro modo che in quello. Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito
se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere,
senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che
“poesia” e “identità” sono la stessa cosa.
Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia
come la scrisse in precedenza. Troverei
infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse
potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con
metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi
di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una
farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.
Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le
molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non
più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie,
sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose). Le poesie della raccolta infatti sono
scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971. In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato,
e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene,
anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un
cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato”
in riferimento a qualche massimo sistema).
Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato
dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma
si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a
nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per
poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del
PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi
capire. Pasolini si difende
dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo
tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del
poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i
fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del
filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi). Ed in questo ruolo di artista-critico o
artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua
identità. Non dunque l’artista che
sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange,
ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo. Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a
parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass
media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court
a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente
attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di
quale “ordine”?).
Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che
lo sente da poeta. La poesia di
Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare
poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò
che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di
trombone. Trasumanar è prima di tutto un libro appassionato, che
in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze
del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti,
ecc. Per questo riesce ad essere un
libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente
tradizionale della poesia) la prosa. In
questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un
altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo
che l’artista ci propone.
E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il
“tono” della poesia. C’è invece un tono,
ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere
con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con
passione. Ho scritto sopra che egli non
poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di
queste liriche che si giustifica l’affermazione. Pasolini evita il tono nasale della lirica
tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o
avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli
sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire. Ma soprattutto non sono congeniali a una
lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle
ragioni, convincere, toccare nel segno.
Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano,
accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per
così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un
dialogo che lo vuole parte attiva. Per
scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia
dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è
quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici. Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua
di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella
sensibilità del lettore. Possiamo dire
che sia questa un’operazione anti-letteraria?
Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i
paradossi stanno nel termine stesso.
Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei
“professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche
non classificabile. A me pare che
Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della
seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.
E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni
di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se
qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e
ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate
nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che
cosa davvero significhi “verso”). Ecco
dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che
“ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più
profonde. Il tradimento della poesia è
infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti)
una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole
“spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza
dell’artista.
Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale,
dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di
insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie
(anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili
da smascherare. E per la poesia, in
qualunque forma si manifesti.
TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO
trans- [dal lat. trans, trans- «al di là,
attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un
termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in
parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da
tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.;
si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate
dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere,
trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi,
soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di
«al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di
«attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade,
ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare.
In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine
(transfinito), attraversamento di un corpo,
scambio, spostamento; in medicina indica per
lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio
transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di
trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale
metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione
di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla
spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di
estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si
propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant.
con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando
le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.
transindividualeagg. Che
attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la
filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo:
l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo
Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una
quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene
oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi
e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella
relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed
entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca
oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41,
Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura
(Alfredo Giuliani).
prefisso di
parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns
‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa,
quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’
presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno
presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo
elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti
della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi
>>> tra-].
transumare v. intr. [dal fr. transhumer,
comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere
o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della
transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche
come agg.: greggi transumanti.